Consulenza linguistica

Voci di pace

  • Cristiana De Santis
SOTTOPOSTO A PEER REVIEW

DOI 10.35948/2532-9006/2024.31188

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Copyright: © 2024 Accademia della Crusca


Quesito:

Un gruppo di studenti universitari che si preparano a diventare insegnanti di scuola primaria si chiede e ci chiede se sia più corretto “fare pace”, come dicono i bambini quando litigano, o “fare la pace”, come da più parti si chiede ai paesi impegnati nelle guerre.

Voci di pace

Entrambe le costruzioni (quella senza e quella con l’articolo) risultano diffuse in italiano e registrate nei dizionari dell’uso contemporaneo. Il Vocabolario Treccani riporta l’espressione fare (la) pace, anche come sinonimo dei verbi appacificarsi, rappacificarsi, pacificare e come contrario di battersi. Altri dizionari separano le due costruzioni, segnalandone le diverse sfumature di significato in modo indiretto, tramite la parafrasi o l’indicazione di sinonimi ed esempi d’uso.

  • Lo Zingarelli riporta fare pace come sinonimo di pacificarsi; fare la pace come sinonimo di appaciarsi; alla voce pace riporta l’espressione fare pace con qualcuno.
  • Il Sabatini-Coletti riporta fare pace come sinonimo di pacificarsi e conciliarsi; fare la pace come sinonimo di appaciarsi, appacificarsi, rappacificarsi; alla voce pace è citata la locuzione verbale fare pace con qlcu. ‘rappacificarsi con qualcuno dopo un litigio’; alla voce fare, invece, fare la pace con qlcu.
  • Nel Nuovo Devoto-Oli alla voce pace troviamo la chiosa: fare pace, riappacificarsi dopo un litigio: dai, adesso facciamo pace!

Nel complesso, dunque, la descrizione lessicografica sembra suggerire che le due espressioni siano in larga parte intercambiabili, anche se fare pace appare più legata a contesti (anche infantili) di litigio tra persone.

Per approfondire le differenze tra l’espressione con l’articolo e quella senza, possiamo fare una ricerca sui corpora di italiano scritto contemporaneo. Nel CORIS/CODIS (Università di Bologna), fare la pace risulta più diffusa di fare pace; emerge inoltre una differente distribuzione delle due espressioni nei diversi tipi di testi: nella stampa prevale fare la pace, nella narrativa è più comune fare pace, a conferma del fatto che il primo è usato prevalentemente per gli accordi di pace tra paesi, partiti, rappresentanze e così via, mentre il secondo è più frequente per i rapporti personali.

Dal punto di vista grammaticale, fare pace (anche nella forma far pace, con l’apocope dell’infinito) è un’espressione relativamente fissa, che rientra nelle cosiddette “costruzioni a verbo supporto”: il generico verbo fare (iperonimo dei verbi di azione) si mette al servizio del nome pace, con il quale forma un’unità di significato (fare pace funziona come un verbo unico); l’espressione o locuzione che ne risulta ha un alto grado di rigidità sintattica.

In fare la pace la presenza dell’articolo rende l’espressione più flessibile: il verbo fare, che in questo caso è sentito come pieno, può essere sostituito da verbi più specifici (trattare, negoziare, concludere ecc.) e il nome pace può trovarsi anche al plurale: fare le paci. Quest’ultima espressione, che era molto diffusa nell’italiano antico (cfr. infra), è tornata a circolare in alcuni contesti diplomatici per riferirsi alla necessità di riportare la pace sui diversi fronti di guerra aperti a livello internazionale.

Dal punto di vista storico, la locuzione fare pace sembra quella storicamente antecedente: il dizionario ottocentesco Tommaseo-Bellini la cita con la chiosa: “Far pace: Deporre l’inimicizia, Tornare in concordia.” Lo stesso dizionario riporta l’espressione far pace o fare la pace con il significato di “essere pari nel gioco”. Tuttora è diffuso infatti il modo di dire pari e pace o anche pari e patta, cioè ‘senza vincitori né vinti’.

Il dizionario storico della lingua italiana GDLI riporta entrambe le locuzioni: fare pace, con esempi a partire da Dante (che mai pace non farò con elli) e da santa Caterina da Siena (voi farete pace con Dio); fare la pace, attestato a partire dal Rinascimento, con un esempio da Benedetto Varchi (non farebbono la pace se non universale). Consultando la BIZ, il corpus dei testi della letteratura italiana, si può osservare che le due espressioni convivono e si alternano nel corso dei secoli, con prevalenza ora dell’una ora dell’altra.

L’espressione al plurale, fare le paci o trattar paci era normalmente usata nei testi in italiano antico, in accordo con l’abitudine a guardare alle “paci particolari” o “singolari” (tra famiglie o tra fazioni, per esempio) più che alla “pace generale” o “universale” (intesa come assenza di conflitti), e a considerare le pattuazioni singole come preludio a una pacificazione più generale. Questi termini parole e concetti si ritrovano, in volgare o anche in latino, sia nei predicatori (come il domenicano Giordano da Pisa o il francescano san Bernardino da Siena) sia nella trattatistica. Consultando i documenti si capisce che l’espressione fare le paci nel Medioevo rimanda a un processo complesso di risoluzione delle controversie tra individui, famiglie, comuni, frutto di accordi trattati separatamente con i contendenti (es. tregua dalle armi, restituzione di beni, risarcimenti) e suggellato da gesti di riconciliazione (come il bacio).

Notiamo che sia fare pace sia fare la pace reggono la preposizione con: si tratta dunque di locuzioni verbali bivalenti, che richiedono cioè un soggetto (chi fa pace) e un altro argomento retto dal verbo tramite la preposizione (la persona o il gruppo di persone con cui si fa pace).

Sono appena rientrata da Berlino, e le assicuro che solo in Italia si parla di fare la pace con Putin (Nathalie Tocci, intervistata da Annalisa Chirico: Annalisa Chirico, “No ai finto pacifisti. L'unica soluzione è sostenere l'Ucraina”. Parla Nathalie Tocci, ilfoglio.it, 18/10/2022)

Feltri: “Gli americani si ammazzano tra di loro, altro che democrazia. Putin? Dobbiamo farci la pace (LeFonti.tv, 2022)

Nel secondo esempio l’argomento è espresso da un pronome clitico (-ci), che equivale a ‘con lui’. Questo esempio ci permette di rispondere a G.T. da Perugia, che ci chiede se al posto di “facciamo la pace con loro” si può dire “ facciamoci la pace”. Possiamo dire che è possibile, a patto che il -ci abbia valore anaforico (rimandi cioè a un nome citato prima nel testo). Nel registro informale è possibile che il -ci si riferisca a un nome o pronome che segue immediatamente, con valore enfatico (“facciamoci la pace con loro”).

Segnaliamo che l’espressione di significato contrario, fare (la) guerra, regge invece la preposizione a: nel caso della pace abbiamo a che fare con un agente e un collaboratore dell’agente (la pace si fa in due); nel caso della guerra c’è il movimento di un agente verso (e contro) un paziente.

Per concludere, possiamo notare che oggi, nel dibattito pubblico, la parola pace è al centro di un interessante processo di “aggiramento linguistico”: data la complessità delle situazioni di conflitto in corso e la difficoltà di intervenire attraverso la diplomazia per porre fine alle azioni belliche, si tende a parlare di “cessate il fuoco” o di “pause umanitarie”. Sono le più alte voci a richiamarci al dovere di evitare l’estendersi del conflitto anche attraverso una “offensiva di pace” (papa Francesco): un’espressione ossimorica, questa, che ci ricorda la pervasività delle metafore belliche nei nostri discorsi, perfino quelli improntati al pacifismo.

La parola pace rimane negli slogan, magari associata a simboli (la colomba con il ramoscello d’ulivo, la bandiera arcobaleno, la stretta di mano, l’icona del disarmo nucleare creata da Gerard Holtom nel 1958). La si trova anche, desemantizzata, nel discorso politico: come nell’espressione “pace fiscale”, usata per nobilitare un condono.


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