DOI 10.35948/2532-9006/2024.30154
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Ci sono arrivati quesiti sul significato e l’uso di pedissequo e sull’esistenza o la correttezza di derivati come pedissequamente, pedissequioso e pedissequietà.
Pedissequo (da pronunciare con l’accento sulla i) è un aggettivo di origine colta, derivato dal latino pedĭsĕquus, a sua volta formato da pes, pedis ‘piede’ e dalla radice del verbo sĕquor ‘seguire’. Il termine in latino ha valore prevalentemente nominale e indica il ‘servo che accompagna a piedi il padrone’. Anche in italiano pedissequo si trova usato in tal senso nei libri di storia, sia come nome, sia anche come aggettivo (il servo pedissequo): ha proprio questo significato nella sua prima attestazione, risalente alla fine del secolo XV (un esempio di Girolamo Savonarola segnalato nel GDLI: “Disse Michea [al re Acab]: Tu vincerai colli pedissequi de’ prìncipi delle provincie. E ragionati questi pedissequi Acab ne trovò 232”). Ricalca il latino la grafia con una sola -s-, che è oggi tramontata, nonostante le ripetute difese, nell’Ottocento, da parte del lessicografo Giovanni Gherardini, che, in questo come in altri casi, indicava come corretta la grafia con la consonante scempia, conforme al latino classico.
Ma il significato principale di pedissequo, usato solo come aggettivo, è un altro, e cioè quello (diffuso a partire dal sec. XVIII) di ‘che segue l’esempio altrui senza alcun apporto proprio e originale’ (riferito a persone) o ‘che è stato eseguito in modo preciso, ma privo di originalità’ (riferito a cose). L’aggettivo si usa non di rado con riferimento all’operazione del tradurre: si parla di traduzione pedissequa di una poesia a proposito di una traduzione letterale, parola per parola, fedele ma poco riuscita sul piano stilistico.
Se dunque, nell’uso comune, il termine pedissequo ha un valore riduttivo, se non spregiativo, c’è però anche un uso settoriale, proprio del linguaggio del diritto, in cui l’aggettivo significa ‘che è connesso logicamente e cronologicamente a un determinato atto giuridico’ e, dunque, non ha alcuna connotazione negativa.
Un lettore ha trovato pedissequo in un testo del 2022. Si tratta di un documento burocratico della Sapienza Università di Roma, di cui, grazie alla rete, possiamo riportare un passo più ampio di quello inviatoci dal lettore:
Al fine di garantire lo svolgimento delle attività in condizioni di sicurezza, devono essere applicate con il massimo rigore le misure di contenimento del contagio previste dal richiamato D.L. n. 24/2022, nonché le seguenti misure stabilite dalla Task Force Safety di Ateneo:
- mantenimento, ove possibile, della distanza interpersonale di un metro;
- utilizzo pedissequo dei dispositivi di protezione delle vie respiratorie;
- divieto di accedere o permanere nei locali universitari ai soggetti con sintomatologia respiratoria o temperatura corporea superiore a 37,5°;
- mantenimento delle attività di tracciamento dei contatti. (Catalogo dei Corsi di studio)
Nel documento (che, può aver tenuto presente l’uso giuridico di pedissequo) il significato dell’aggettivo, che forse il lettore ha trovato un po’ forzato in quanto riferito al termine utilizzo, è quello, normale, di ‘passivo’, inteso però nel senso, positivo, di ‘rispettoso delle indicazioni’, ‘corretto’, ‘senza interventi personali che potrebbero comprometterne l’efficacia’.
Deriva da pedissequo l’avverbio pedissequamente, che è senz’altro una forma corretta (e così rispondiamo alla domanda di un altro lettore), come dimostra la sua registrazione in tutti i principali dizionari italiani. Anch’esso può essere usato con valore negativo (come nell’esempio di Benedetto Croce riportato nel GDLI: “era uno dei tanti metodi bolscevici [sic] che il preteso regime antibolscevico pedissequamente imitava”), ma anche in senso positivo, per esempio da chi impartisce un ordine (“mi raccomando di seguire pedissequamente le mie indicazioni”). Il GRADIT data l’avverbio prima del 1952, ma Google libri ci fornisce un esempio della fine del sec. XVIII:
La falsità del sentimento del Severini, pedissequamente seguito dal Gualtieri, venne dimostrata nel secolo passato dall’Ab. Mario Francesco Mariotti. (Giuseppe Colucci, Antichità picene, XVIII, 4, Fermo, pei torchi dell’autore, 1793, p. 8)
Allo stesso lettore diciamo invece che *pedissequioso (di cui non ho trovato attestazioni) non è una forma accettabile, diversamente da ossequioso. Anzitutto, “il suffisso -oso ha la funzione di formare con la designazione di un’entità X un aggettivo con il significato ‘pieno di X’, come per esempio […] in occhi lacrimosi o in spiaggia sassosa” (Ulrich Wandruszka, in Grossmann-Rainer 2004, p. 382). Inoltre, si aggiunge prevalentemente a basi nominali (come negli esempi finora citati) o, di rado, verbali (come nel caso di appiccicoso o pensoso), ma non aggettivali; e pedissequo è un aggettivo, diversamente da ossequio. Infine, la forma corretta sarebbe se mai *pedissequoso, perché la -i prima di -oso non fa parte del tema (ancora una volta diversamente da ossequioso, analizzabile come ossequi-oso). Data anche la vicinanza semantica tra ossequioso e pedissequo (chi segue passivamente qualcuno può farlo in segno di ossequio), è forte il sospetto che *pedissequioso costituisca una contaminazione tra i due aggettivi.
Esiste invece, pur se è ormai di uso raro, il derivato verbale pedissequare, lemmatizzato nel GDLI (che lo marca come antico e letterario, segnalando comunque anche un esempio in uno scrittore novecentesco come Gian Pietro Lucini). Ed esiste anche l’astratto pedissequità, sebbene sia ancora privo di registrazioni lessicografiche, tanto che, in un suo fondamentale studio della fine degli anni Ottanta, Franz Rainer così si esprimeva:
Per pedissequo non è documentato nessun nome di qualità, ma pedissequità è una parola perfettamente possibile. (Franz Rainer, I nomi di qualità nell’italiano contemporaneo, Wien, Braumüller, 1989, p. 215)
Oggi – grazie a Google libri (ricerca effettuata l’11 agosto 2023) – possiamo dire non solo che pedissequità è parola documentata, ma che, pur se non frequente, ha una continuità di attestazioni (nei vari significati di pedissequo) dall’Ottocento a oggi. Ne cito solo alcune:
Tenuta ferma la regola benigna della pedissequità nel caso ordinario della falsificazione del permesso consumata dal trasgressore per sottrarre sè stesso alla pena, si andava in opposta via quando tale non era il movente dell’animo (Francesco Carrara, Programma del corso di diritto criminale, dettato nella R. Università di Pisa, Lucca, Giusti, 1874, p. 444)
Non meno singolare è la pedissequità con cui fu accettato, in tutti i paesi del mondo, il sistema parlamentare che rispondeva a esigenze specialissime dell’Inghilterra […]. (“Rivista di politica economica”, 52, 1962, p. 54)
[…] il film era inevitabilmente destinato ad esaurirsi nella pedissequità di una trasposizione, in cui alcuni ritocchi risultano evidentemente determinati da ragioni superficiali […]. (Vito Attolini, Dal romanzo al set. Cinema italiano dalle origini ad oggi, Bari, Dedalo, 1988, p. 215)
La pedissequità dell’allineamento conferisce alla scrittura staticità, ma, più raramente, è pure possibile riscontrare il segno in una scrittura moderatamente Fluida. (Antonello Pizzi, Psicologia della scrittura. Interpretazione grafologica di segni e tendenze del linguaggio scritto, Roma, Armando, 2007, p. 197)
In rete è documentata anche (e forse più spesso) la variante pedissequietà, sulla cui correttezza si interroga una lettrice. Vediamo anzitutto gli esempi:
Queste si qualificano per la pedissequietà: nel cercare di adeguarsi all’originale, sono sempre tendenti al basso, mancano di scioltezza di tratto, di fluidità, di trasparenza e capacità nelle mescolanze dei colori. (Di altre Gioconde, blog.libero.it, 1/2/2012)
Non amo ripetermi, anche perché sono solito scrivere analisi-fiume (amazzonico) dell’albo del mese...e quindi se tornassi a scriverci sopra mi meriterei un (giustissimo) ban per pedissequietà neurale. (forum su cravenroad7.it, post 6/3/2012)
Sono giorni che ci sentiamo tondi e molto grassi di parole in -à che si legano un po’ tutte: città-università-novità e aggiungerei anche pedissequietà, che non esiste ma che ci fa ridere entrambi. (Treno superveloce, giovanniselmo.blogspot.com, 13/3/2013)
In effetti, -età è una variante del suffisso -ità che dovrebbe ricorrere solo con aggettivi terminanti in -io, determinando la sequenza -ietà, come avviene in sussidiarietà, che ha come base sussidiario. Ma forme come interdisciplinarietà o complementarietà, che secondo la norma standard dovrebbero terminare in -ità e non in -ietà, perché derivano rispettivamente da interdisciplinare e complementare, sono talmente diffuse da venire, se non accolte, almeno “tollerate” nella stessa lessicografia (il GRADIT, che le considera entrambe varianti delle corrispondenti forme in -ità, marca come pop. complementarietà, ma non interdisciplinarietà). Nel nostro caso, però, è ancora possibile auspicare che prevalga la tradizionale forma pedissequità, qualora il termine dovesse diffondersi tanto da entrare nella lessicografia. Ma nell’uso comune non c’è sempre bisogno di ricorrere a questa parola (un po’ pretenziosa), al posto della quale, a volte, basterebbe usare, a seconda dei casi, passività, fedeltà esagerata, precisione eccessiva.