DOI 10.35948/2532-9006/2025.41593
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Una lettrice ci scrive che una sua insegnante sostiene che «non è corretto scrivere “mi sono svegliato presto presto” oppure “la notte era nera nera” ma bisogna sostituire con accrescitivi o superlativi come ad esempio “mi sono svegliato molto presto” oppure “la notte era nerissima”».
All’insegnante potremmo ribattere che dovrebbe dunque censurare Alessandro Manzoni, che trasformò la forma nerissimi (riferito agli occhi della Signora di Monza) del Fermo e Lucia e dell’edizione ventisettana dei Promessi sposi in neri neri nella quarantana (cap. IX), operando quindi una sostituzione nella direzione opposta a quella da lei prescritta, e altrettanto fece inserendo più volte presto presto nella quarantana al posto di in furia o di un presto singolo della ventisettana (come risulta dall’accurata analisi di Luigi Sorrento, Il raddoppiamento nelle due edizioni dei «Promessi sposi», 1951).
La ripetizione di un aggettivo o di un avverbio in funzione intensificativa è un fenomeno ben diffuso in diverse lingue. Franz Rainer, in una monografia sui procedimenti di intensificazione dell’italiano (Intensivierung im Italienischen, 1983) propone di distinguere, sulla scorta di Sorrento, tra due tipi di reduplicazione di un aggettivo o di un avverbio, che chiama rispettivamente reduplicazione “enfatica” e reduplicazione “autentica” (mentre Sorrento chiama quest’ultimo tipo “raddoppiamento intensivo” o “rafforzativo”). La reduplicazione enfatica si distinguerebbe nel parlato dal fatto che i due elementi ripetuti sono separati da una pausa, segnalata nello scritto da una virgola, e l’intonazione è, appunto, enfatica; nella reduplicazione autentica i due elementi si susseguono senza pausa (e senza l’inserimento di una virgola nello scritto) e l’intonazione è neutra.
Un esempio di reduplicazione enfatica, ancora tratto dai Promessi sposi, è il seguente:
“Zitto, zitto,” riprese il primo oratore, “il signor curato è un uomo che sa il viver del mondo [...]” (cap. I)
Ed ecco invece un esempio di reduplicazione “autentica”, in funzione intensificativa:
Era il segnale: Renzo lo sentì, fece coraggio a Lucia, con una stretta di braccio; e tutt’e due, in punta di piedi, vennero avanti, rasentando il muro, zitti zitti; […]. (cap. IX)
La reduplicazione autentica è annoverata tra i procedimenti utilizzabili in italiano per l’intensificazione di aggettivi e avverbi sia dalle grammatiche (vedi per es. Serianni 1988, V § 74) sia da studi specialistici (come il già citato volume di Rainer e l’articolo di Nicola Grandi, Intensification processes in Italian: A Survey, 2017). Grandi sostiene, in base ai dati desunti da un questionario sottoposto a 64 parlanti tra i 20 e 30 anni (studenti dell’Università di Bologna), che la reduplicazione, così come l’intensificazione tramite molto e davvero, ha una forza intensificante più debole di altri procedimenti, quali la suffissazione di ‑issimo, la prefissazione di stra-, l’uso di costruzioni analitiche come bello da morire, e l’emergente intensificazione con troppo (troppo bello usato nel senso di ‘bellissimo’).
Rainer osserva che la reduplicazione, rispetto alla formazione di superlativi in ‑issimo, ha un carattere più affettivo e popolare, ed è forse in base a questa sua caratteristica che si potrebbe spiegare la censura da parte dell’insegnante citata, data la ben nota tendenza della tradizione scolastica italiana a favorire solo usi formali della lingua. Un’altra motivazione addotta da questa insegnante sarebbe una regola secondo la quale “non è corretto accostare due parole identiche senza elementi che le separino, come punteggiatura o altri vocaboli”. Non trovo traccia di questa supposta regola nella grammatica di Serianni. È possibile che si tratti di un elemento di quella che Serianni stesso chiamava la “norma sommersa”, un insieme di prescrizioni trasmesse nell’insegnamento scolastico ma prive di reale fondamento. Tale prescrizione è apparentemente accolta dal correttore automatico di Microsoft Word, che mentre digito il testo di questa risposta mi sottolinea sempre il secondo dei due elementi ripetuti negli esempi di reduplicazione intensiva citati. Ma si può ipotizzare che il correttore non sia in grado (almeno per ora) di distinguere tra autentiche ripetizioni intensive e parole raddoppiate per distrazione durante la digitazione di un testo.
Si è visto che la presenza di una virgola tra due aggettivi o avverbi ripetuti è ciò che distingue, nello scritto, una reduplicazione enfatica da una con funzione intensificativa. Ma abbiamo anche casi di reduplicazione enfatica senza virgola; dal Primo tesoro della lingua letteraria italiana del Novecento e contemporanea (PTLLIN) traiamo un esempio con virgola e uno senza della stessa espressione enfatica:
[...] mi frugai nello scapolare, trovai l’acciarino, le mani mi tremavano e fallii due o tre volte prima di accenderlo, mentre Guglielmo ansimava dalla porta: “Presto, presto!” e finalmente feci luce. “Presto,” mi incitò ancora Guglielmo, “se no quello si mangia tutto l’Aristotele!” (Umberto Eco, Il nome della rosa, Milano, Bompiani, 1981, p. 485)
Il wedding planner indossa una giacca bianco-blu a righe larghe e una cravatta ciclamino; corre dinoccolato e isterico incontro al furgone, “presto presto, se i due secolari non stanno belli simmetrici quando arriva la sposa vi trattengo il dieci-per-cento, è l'unico linguaggio che capite”. I “secolari” sono due ulivi contorti da collocare ai lati del portale d’ingresso. (Walter Siti, Resistere non serve a niente, Milano, Rizzoli, 2013, p. 235)
Il “presto presto” enfatico scritto senza virgola nel testo di Siti mi ha colpito, e ho quindi interpellato l’autore per sapere se si trattasse di una scelta stilistica o di un refuso. Siti mi ha risposto così:
Mi pare ci sia una differenza tra il brano di Eco e il mio: nel suo caso si tratta di incitamento, come il testo esplicita, che quindi prevede una reazione dell’interlocutore, dunque l’attesa che l’incitamento abbia effetto, tant’è vero che un terzo “presto” viene ripetuto nella frase seguente; nel mio caso c’era da mettere a fuoco il carattere isterico del parlante, come il testo esplicita, che dunque non aspetta una reazione ma si soddisfa nella propria stessa velocità di emissione. (Walter Siti, mail del 22 giugno 2025)
Dunque anche in testi letterari vincitori del Premio Strega possiamo trovare ripetizioni enfatiche senza virgola di separazione tra i due elementi, per ottenere specifici effetti stilistici, per esempio l’idea di “velocità di emissione”. Quanto alle ripetizioni intensive, l’assenza di virgola è assolutamente la norma; nei testi raccolti nel PTLLIN si hanno, per esempio, 12 occorrenze di reduplicazione intensiva dell’aggettivo nero senza virgola:
[...] aveva quei ricciolini sul collo, e sotto un piccolo neo, nero nero... (Anna Banti, Artemisia, Firenze, Sansoni, 1948, p. 108)
Adesso, le sue iridi, che nella penombra erano nere nere, rivelavano screziature diverse, come le penne dei galletti. (Elsa Morante, L’isola di Arturo, Torino, Einaudi, 1957, p. 82)
La vedevano nera nera - o meglio, nera e gialla - con tutte queste api sulla pelle assiepate l’una sull'altra che le camminavano sulle mani, le braccia, il collo, il viso (Antonio Pennacchi, Canale Mussolini, Milano, Mondadori, 2010, p. 182)
In Canale Mussolini di Antonio Pennacchi possiamo osservare un contrasto tra reduplicazione enfatica e intensiva dello stesso aggettivo, nero. Nel testo, la nonna dell’io narrante fa un sogno premonitore ricorrente, che viene raccontato per la prima volta nel modo seguente:
“Còssa ghe xè?” ha fatto mio nonno, svegliato anche lui dal soprassalto della moglie che stava adesso seduta sul letto e ansimava, mentre fuori cominciava a cantare una civetta. “Dio ti fulmini!” ha detto nonno alla civetta e ha ripetuto dolce alla moglie: “Cosa c’è?”. “Agò visto un manto nero. Nero, nero.” “Dormi, dormi.” (p. 132)
Qui la ripetizione è enfatica, trasmette il senso di angoscia provato dalla nonna nel sogno, e le due occorrenze di nero che seguono l’introduzione del manto nero nel racconto sono separate dalla virgola, come anche nel secondo brano in cui si riparla del sogno:
Mia nonna continuava ogni tanto a svegliarsi di notte per via d’un manto nero – “Nero, nero” - che le toglieva il respiro, diceva. (p. 134)
Il sogno continua a ripetersi:
Il sonnellino di mia nonna subito si fece duro però quel giorno, e subito le venne in sogno un manto nero, un manto che come asfalto la copriva tutta, impedendole di respirare. Lei faceva: “Ah! Ah!”, e tentava di annaspare l’aria. Ma le mancava proprio il fiato, le bruciava la gola. Credeva di morire e sapeva - ed è per questo che poi non se l’è scordato più - lei sapeva nel sogno di stare sognando e si voleva svegliare, ma non ci riusciva, quel manto nero la copriva sempre più (p. 295)
A questo punto il fatto che la nonna sogni spesso un manto nero è noto a tutti, e in una narrazione immediatamente successiva a quella appena vista la nonna usa una reduplicazione intensiva, che descrive il colore del manto, mentre il senso di angoscia esperito nel sogno è trasmesso da altri elementi (“credevo di morire”, enunciazione ansimante):
“Un manto nero, agò sognà un manto nero nero, credevo di morire” ansimava mia nonna, ed ha guardato dietro di sé l’orologio a pendolo per vedere l’ora. (p. 296)
E troviamo due occorrenze di reduplicazione intensiva anche nel brano che introduce l’ultima apparizione del manto nero nel racconto; questa volta chi parla non è più la nonna ma la madre dell’io narrante, e il manto nero non è più sognato ma osservato nella realtà:
Coi denti ha strappato il cordone ombelicale. Io ho fatto “Uèh” per terra, solo “Uèh” per tirare il primo respiro, senza più piangere oltre. Ero ricoperto da un manto nero nero - diceva mia madre - nero nero e giallo di tutte le api che mi camminavano addosso e mi ripulivano della placenta. (p. 454)
Pennacchi fa dunque un sapiente uso stilistico di entrambi i tipi di reduplicazione, tra i quali comunque, come osserva Rainer (1983, p. 62), si ha “una transizione graduale”, dato che la reduplicazione intensiva trae origine da quella di tipo enfatico (come anche altri tipi di costruzioni reduplicative grammaticalizzate, per es. i nomi di azione del tipo fuggifuggi, sui quali si può vedere Anna M. Thornton, Il tipo fuggifuggi, 2010).
In conclusione: la reduplicazione di aggettivi e avverbi è saldamente attestata in italiano, anche in testi letterari che sono parte del canone (dai Promessi sposi a romanzi vincitori del Premio Strega) e riconosciuta dalle grammatiche e dagli studi specialistici come uno dei numerosi mezzi che la lingua mette a disposizione per intensificare il senso dell’elemento base. Proscriverne l’uso in favore di altre costruzioni dal valore intensificativo non ha fondamento. Aggettivi ed avverbi reduplicati in funzione intensificativa vanno scritti senza una virgola di separazione.
Nota bibliografica: