Consulenza linguistica

Se i dati di fatto chiedono il congiuntivo

  • Cristiana De Santis
SOTTOPOSTO A PEER REVIEW

DOI 10.35948/2532-9006/2025.41599

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Quesito:

Alcuni lettori hanno scritto alla redazione chiedendo se la frase “è un dato di fatto che...” regga l’indicativo o il congiuntivo. Una domanda che ci permette di sfatare un mito sul congiuntivo: che si tratti del modo che indica per definizione l’incertezza, dunque inadatto a presentare dei “dati di fatto”.

Se i dati di fatto chiedono il congiuntivo

“Il congiuntivo ha un ruolo distintivo / E si usa per eventi / Che non sono reali. / È relativo / a ciò che è soggettivo / A differenza di altri modi verbali...” – così recita il testo di una canzone presentata da Lorenzo Baglioni al Festival di Sanremo del 2018.

L’idea che il modo congiuntivo sia associato a un valore semantico preciso (l’irrealtà, l’incertezza, la soggettività del punto di vista ecc.) è effettivamente molto diffusa. Anzi, è talmente diffusa che oramai è difficile da contrastare anche quando i fatti di lingua la contraddicono – come vedremo nel seguito di questo articolo. Al pari di altre banalizzazioni grammaticali, questa idea si è fissata nella nostra mente sui banchi di scuola: le grammatiche scolastiche tendono infatti a presentare il “modo verbale” come una categoria che serve a rivelare l’atteggiamento del parlante (il “modo”) nei confronti dell’azione espressa dal verbo. L’indicativo sarebbe il modo della realtà e della certezza, che presenta i fatti come obiettivi, laddove il congiuntivo introdurrebbe sfumature semantiche di incertezza e si presterebbe a esprimere punti di vista personali: ipotesi, sospetti e speranze, più che dati di fatto.

In realtà, le cose stanno diversamente: se il congiuntivo ha un valore caratterizzante, questo è legato alla sua funzione di “congiungere”, come dice l’etimologia del nome. Si usa infatti, prevalentemente, nelle frasi dipendenti di forma esplicita come marca di subordinazione, e proprio in questi casi il dubbio (si usa l’indicativo o il congiuntivo?) diventa legittimo: sul fatto che in una frase indipendente come “Vada pure” si debba usare il congiuntivo (di cortesia) siamo infatti tutti d’accordo.

Tra le frasi dipendenti dobbiamo però distinguere due famiglie: da un lato le frasi subordinate propriamente dette, introdotte da congiunzioni specializzate, come le finali (introdotte da perché, affinché ecc.), le concessive (introdotte da sebbene, benché ecc.), le ipotetiche (introdotte da se, qualora ecc.) ecc. Dall’altro lato le frasi “completive”, che funzionano come argomenti del verbo (soggettive, oggettive, interrogative indirette, dichiarative) e possono essere introdotte dalla congiunzione che.

Il modo congiuntivo, nel primo caso, è selezionato dalla congiunzione: sebbene richiede il congiuntivo; a parità di significato, anche se regge l’indicativo; in entrambi i casi, la frase può esprimere un dato di fatto che contraddice l’effetto previsto (“Anche se è piovuto / Sebbene sia piovuto, il prato è secco”). Naturalmente, ci sono casi in cui la differenza del modo verbale può distinguere tra un effetto reale e uno solo sperato: perché, ad esempio, può introdurre sia una frase causale (con il modo indicativo: “Innaffio il prato perché non ha piovuto”) sia una frase finale (con il modo congiuntivo: “Innaffio il prato perché non si secchi”), ma si noti che a cambiare è anche il tempo verbale, che colloca la causa nel passato, il fine nel futuro. Il caso più evidente in cui il congiuntivo è scelto per il suo valore modale (di possibilità ecc.) è quello delle frasi relative: una relativa come “Cerco una scuola che è vicina alla stazione” ha un significato diverso rispetto a “Cerco una scuola che sia vicina alla stazione”: nel primo caso, infatti, ho in mente una scuola precisa vicina alla stazione, nel secondo caso, invece, mi va bene una scuola qualsiasi purché sia vicina alla stazione.

Nel caso delle frasi completive, invece, il modo congiuntivo è selezionato dal verbo reggente in base al proprio significato. Le grammatiche propongono elenchi dettagliati di verbi che reggono il congiuntivo, classificati in base al loro contenuto semantico: verbi di opinione, di volontà ecc. Nel capitolo dedicato al congiuntivo in Renzi-Salvi-Cardinaletti 1995 (vol. II, VIII § 2.1.1.1) vengono esaminati casi di verbi che, pur appartenendo alla stessa classe, si comportano in modo diverso: tra i verbi di volontà, per esempio, volere accetta sia l’indicativo sia il congiuntivo (“Voglio che tu te ne vada” / “Voglio che te ne vai”), ottenere accetta solo il congiuntivo (“Ho ottenuto che tu te ne vada”). È evidente che un verbo come ottenere presuppone la certezza del risultato: l’uso del congiuntivo, dunque, non discende da un valore semantico intrinseco al modo verbale. In dipendenza da un verbo come pensare, analogamente, è richiesto il congiuntivo a prescindere dal grado di certezza dell’affermazione: “Penso che la tua sia una domanda intelligente” esprime lo stesso grado di convinzione di “Penso che la tua è una domanda intelligente”, con la differenza che la prima frase è di registro più formale, la seconda più colloquiale e adatta a contesti familiari (come segnalava già la grammatica di Serianni (Serianni 1988, XIV § 48, p. 555). Questa interpretazione, che collega l’alternanza indicativo/congiuntivo a fattori sociali, renderebbe ragione della crescente diffusione del cosiddetto “indicativo pro congiuntivo” nell’italiano di media formalità. Secondo Lorenzo Renzi (Renzi 2012) la tendenza sarebbe più diffusa presso parlanti e scriventi centro-meridionali (una intuizione che non è però suffragata da dati quantitativi): tra i fattori extralinguistici, dunque, conterebbe la provenienza geografica oltre al grado di formalità della situazione comunicativa.

È possibile mostrare che l’uso del congiuntivo nelle frasi completive non ha a che vedere con il grado di realtà del fatto presentato anche attraverso altri esempi: una frase come “Mi dispiace che la scuola sia finita” esprime lo stesso grado di realtà di una frase come “So che la scuola è finita”; una frase come “Ho sognato che la scuola era finita” esprime lo stesso grado di irrealtà di una frase come “Vorrei che la scuola fosse finita”; una frase come “Si dispone che siano rimosse le auto in sosta vietata” esprime un punto di vista oggettivo tanto quanto “I vigili sostengono che le auto in sosta vietata vanno rimosse”. Su questo tema si possono leggere l’articolo di Salvatore C. Sgroi (Lunga vita al congiuntivo, ma non creiamo feticci) sulla “Crusca per voi”, n. 40, aprile 2010, pp. 8-9, e la scheda di Mara Marzullo su questo sito. In generale, l’interpretazione del congiuntivo come marca di dipendenza sintattica è fortemente sostenuta da un grammatico come Michele Prandi (di cui si può leggere la voce Congiuntivo nell’Enciclopedia dell’Italiano, Treccani, 2010).

Venendo al caso presentato da chi ci scrive, in una frase come “È un dato di fatto che tu dormi troppo” (proposta da Paolo T.), la completiva introdotta dal che è retta dal predicato nominale “è un dato di fatto” (sinonimo di “è certo”) e funziona come soggetto. L’espressione reggente (che tecnicamente viene chiamata governor) contiene la locuzione dato di fatto: dunque, dal punto di vista semantico, presuppone che la frase introdotta abbia un contenuto vero, effettivo (in questo caso si parla di governor dal contenuto “fattivo”). Secondo l’interpretazione tradizionale, il modo appropriato dovrebbe essere l’indicativo; eppure, una frase come “È un dato di fatto che tu dorma troppo” appare ugualmente accettabile, magari in un registro di italiano più sostenuto: non dà insomma l’impressione di essere un caso di “congiuntivo ipercorretto”, ovvero di sovraestensione del congiuntivo (Gualdo 2014; Renzi 2019).

Questa variabilità nell’uso dei modi verbali in contesti fattivi non stupisce: a differenza dei contesti non-fattivi (legati all’uso dei verbi come pensare, credere, ecc.), le grammatiche non danno infatti indicazioni univoche. Se facciamo una ricerca in rete, troviamo esempi di congiuntivo accanto a quelli (più numerosi) di indicativo in dipendenza da “è un dato di fatto che”. Vediamo alcuni esempi:

È un dato di fatto che il mondo fisico segua le regole della matematica. (Reddit.com)

È un dato di fatto che la magistratura si divida in correnti. (Unicost.eu)

È un dato di fatto che le donne, a parità di mansioni, guadagnano meno degli uomini. (Facebook)

È un dato di fatto che spesso non si è apprezzati da chi ci vive accanto. (Facebook)

Al di là del registro linguistico scelto (il grado di formalità è spesso difficile da giudicare in assenza di contesto e informazioni sui locutori), un fattore che sembra far propendere per il congiuntivo con questa espressione è la collocazione tematica (in prima posizione) della completiva, in linea con quanto osservato in un recente studio di Cerruti e Ballarè basato su corpora di parlato (2023):

Che i mesi passino, è un dato di fatto. Che passino bene, è una benedizione. (Instagram)

Che le aziende naturalmente accumulino montagne di dati, è un dato di fatto, che questi dati nella maggior parte dei casi rimangano in gran parte inutilizzati, è pure un dato di fatto. (alycante.it)

Pertanto, per rispondere a Matteo B. la frase “Che tu dormi è un dato di fatto” è accettabile, ma l’uso del congiuntivo sarebbe perfettamente naturale.

L’insegnante di italiano L2 Katharina F. propone una frase in cui l’espressione reggente è lievemente diversa: “Dato di fatto è che i ragazzi se la prendano sempre più comoda”; anche in questo caso, vale quanto detto sopra: siamo nel territorio delle scelte e l’accettabilità del congiuntivo non dipende solo dalla semantica dell’espressione fattiva, ma da fattori sociolinguistici e di prospettiva comunicativa.

Per concludere, il fatto che si usi l’indicativo in dipendenza da un’espressione come dato di fatto non sembra legato al grado di certezza espresso dall’elemento reggente, che di per sé accetterebbe anche il congiuntivo. Naturalmente, il contenuto dell’espressione reggente può rafforzare nel parlante la percezione di appropriatezza dell’indicativo, ma il congiuntivo rimane una scelta possibile, percepita come più formale nei contesti in cui la completiva segue la reggente, ma più naturale se la completiva precede la reggente.

Nota bibliografica:

  • Massimo Cerruti e Silvia Ballarè, Sociolinguistic variation, or lack thereof, in the use of the Italian subjunctive: mood selection with factive and semifactive governors, “Sociolinguistica”, 37(1), 2023, pp. 75-93.
  • Riccardo Gualdo, Il “parlar pensato” e la grammatica dei nuovi italiani: spunti di riflessione, “Studi di grammatica italiana”, XXXIII, 2014, pp. 235-236.
  • Lorenzo Renzi, Come cambia la lingua: l’italiano in movimento, Bologna, Il Mulino, 2012
  • Lorenzo Renzi, Ancora su come cambia la lingua. Qualche nuova indicazione, in Le tendenze dell’italiano contemporaneo rivisitate, Atti del LII Congresso Internazionale di Studi della Società di Linguistica Italiana (Berna, 6-8 settembre 2018), a cura di Bruno Moretti, Aline Kunz, Silvia Natale, Etna Rosa Krakenberger, Milano, Officinaventuno, 2019, pp. 13-33.

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