Incontri e tornate

Ricordo di Aldo Menichetti

  • Lino Leonardi
SOTTOPOSTO A PEER REVIEW

DOI 10.35948/2532-9006/2025.40552

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Avevo iniziato questo mio breve intervento alla tornata dell’Accademia della Crusca dedicata ad Aldo Menichetti scusandomi per non poter offrire di lui un vero e proprio ricordo, avendolo conosciuto e frequentato solo negli ultimi anni della sua vita. Per chi della mia generazione ha studiato a Firenze e si è formato nell’ambiente della filologia romanza fiorentina, l’incontro con Menichetti, pur così intimamente legato a quel mondo, è stato infatti un incontro tardivo.

Negli anni Settanta Contini era passato alla Scuola Normale, la sua cattedra la teneva Avalle, che con i continiani fiorentini di prima o seconda generazione non aveva rapporti di quotidiana consuetudine. Molti di loro però erano presenti: alla Facoltà di Magistero c’era Giorgio Chiarini, a Lettere per filologia italiana c’era Rosanna Bettarini, per francese Fausta Garavini e Giovanna Angeli; gravitavano in quell’ambiente e si potevano incontrare spesso, in Facoltà o in biblioteca, Giancarlo Breschi allora ancora a Urbino e Mauro Braccini a Pisa, o i più giovani Maurizio Perugi, Barbara Spaggiari (assistente all’epoca), Lucia Lazzerini, Luciano Formisano, e all’OVI Mahmoud Elsheik. Una compagine ampia e variata, della quale però Menichetti non faceva parte; non almeno per noi, non ammessi ad occasioni private.

Era stato tra i primi usciti dalla scuola fiorentina di Contini, lui laureato nel 1960, ma aveva svolto tutta la sua carriera fuori di Firenze: già nell’anno accademico 1960-61 fu assistente a Lecce, poi dal 1963 a Roma con Roncaglia, e infine dal 1968 a Friburgo, sulla cattedra che era stata di Contini; dal 1981 aveva affiancato a quell’insegnamento l’incarico all’Università Cattolica di Milano. A Firenze dunque Menichetti rientrò stabilmente solo dopo il pensionamento, nel 2005, e solo da allora la sua presenza fu una costante occasione di scambio culturale e umano.

Forse una delle prime volte che l’ho incontrato è stata una dozzina d’anni prima, in occasione della presentazione, qui in Crusca, del volume di Avalle dedicato alle Concordanze della lingua poetica italiana delle origini, nella tornata pubblica dell’11 giugno 1993, quasi esattamente 31 anni fa, quando fu chiamato da Nencioni accanto ad Aurelio Roncaglia – che lui definiva il suo “secondo maestro” – e a Cesare Segre per parlare di quel lavoro più che ventennale patrocinato dall’Accademia. Fu tra l’altro forse anche un evento preparatorio alla sua nomina a socio corrispondente, che è del 1995. Ricorro dunque a quel momento, non perché sia tra i più rilevanti della sua ampia bibliografia, ma perché fu decisivo per la mia personale esperienza di incontro e confronto con Aldo, e traggo dalla sua excusatio iniziale un’autodefinizione interessante: “Di fronte a un evento tanto atteso, di tale eccezionalità, di tale portata materiale e di così strenuo impegno metodologico, di fronte a una costruzione di tale straordinaria ampiezza e rigore, confesso che nel mio animo un po’ medievale tenderebbe a prevalere lo spirito contemplativo, l’assolutezza ammirata del silenzio. (…) Le tentazioni contemplative sono rafforzate anche dal consiglio dello spirito razionale – quello che dettò ad Albertano il De arte loquendi e soprattutto, per quanto ora mi concerne, tacendi”. Nei due tratti che ho sottolineato, in questo animo un po’ medievale intriso però di un potente spirito razionale, riconosco l’immagine che fin da allora ho sempre avuto della figura umana e anche scientifica di Aldo Menichetti.

Anzi, fu allora per me la conferma di un’immagine che mi ero già fatta, perché se la conoscenza fu tardiva, la presenza culturale e scientifica di Menichetti tramite i suoi lavori fu da subito una costante del mio percorso di studio. Mi basterà citare l’edizione di Chiaro Davanzati (1965), dalla sua tesi di laurea: un’opera oggi – ma non solo oggi – inconcepibile per un laureando, la prima edizione integrale di un poeta del Duecento uscita dopo l’antologia di Contini, e del più prolifico tra quei poeti, con l’insidia del manoscritto quasi sempre unico, quel canzoniere Vaticano latino 3793 che offriva un testo spesso oscuro e rimaneggiato. La sicurezza del testo critico, la precisione delle note e del glossario, mi hanno accompagnato nei miei lavori su Guittone e non solo: anche recentemente ho potuto misurare quanto sia tuttora necessario rivolgersi a quelle pagine, nel lavoro di gruppo che con alcuni studenti e dottorandi della Normale stiamo conducendo sul Corpus Avalle.

Aggiungerò solo una parola sul suo manuale di metrica italiana (1993) che, oltre ad aver costituito fin dalla sua uscita una guida sicura a cui ricorrere per approfondire ogni istituto della nostra tradizione poetica, mi ha sempre sorpreso per la felice miscela in cui la competenza accurata della lingua letteraria, dalle origini fino al Novecento, si coniuga con la sicurezza di un raffinato lettore di poesia. È un lavoro sistematico e approfondito, in cui davvero si può cogliere l’impostazione da summa medievale e insieme la puntuale razionalità dell’analisi. Ma ho sempre osservato anche il tratto personale delle infinite letture che ne costituiscono il retroterra, nel senso che la norma metrica rispondeva per Menichetti anche alla sensibilità della sua propria cultura poetica, e direi quasi all’orecchio del toscano di Empoli, che nell’eloquio non mascherato, talvolta tendente al vernacolo, e nella cordialità spesso allusiva era rimasto sempre uguale a sé stesso, nella sua simpatica autenticità.

La frequentazione dei suoi lavori divenne anche frequentazione personale a partire dal 2005, qui a Firenze. Fin dall’inizio la sua fu un’assidua presenza al Seminario di filologia romanza del martedì, presso la Fondazione Ezio Franceschini (anche negli anni del Covid, collegandosi più o meno fortunosamente dal computer di casa). Per conto della Fondazione presiedette tra l’altro anche la commissione per l’attribuzione del Premio di filologia italiana intitolato ad Aldo Rossi, altro rappresentante di quella generazione di continiani. Un’occasione speciale fu in quegli anni la pubblicazione dell’altra sua grande fatica, le rime di Bonagiunta (2012), che mi fece l’onore di destinare alla collana che dirigo presso le Edizioni del Galluzzo. Fu l’occasione di sperimentare più da vicino l’accuratezza del suo cantiere di lavoro, nella casa di via del Cantone, e insieme sempre la disponibilità al confronto e la gentilezza del tratto, di chi però ha ben chiare le sue idee e i suoi obiettivi, senza arrivare mai a farne oggetto di disputa, come da un livello superiore, impermeabile a piccinerie tutto sommato fastidiose.

Questo atteggiamento direi quasi esistenziale, che mi è sempre parso così suo, ho poi avuto modo di ritrovarlo nelle attività qui in Accademia. In particolare l’ho verificato nella direzione degli “Studi di filologia italiana”, dal 2013: mi limito a ricordare la cura con cui rivedeva e correggeva ogni articolo, rendendo quasi superfluo il contributo di noi condirettori. E poi la sua partecipazione all’ideazione e alla realizzazione del Vocabolario dantesco, dal 2015, lavoro in cui con Paola Manni potemmo apprezzare le sue doti di equilibrio e insieme di attenzione accuratissima per ogni dettaglio delle schede da rivedere.

Così lo ricordo anche per chi non ha avuto l’occasione di conoscerlo, certo che anche soltanto tramite la frequentazione delle sue pagine, come accadde a lungo a me, una figura come quella di Aldo Menichetti resterà nel panorama della nostra filologia.