Incontri e tornate

La metrica

  • Maria Sofia Lannutti
SOTTOPOSTO A PEER REVIEW

DOI 10.35948/2532-9006/2025.40557

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Nel ripercorrere gli aspetti che per me rappresentano il punto di vista di Aldo Menichetti sulla metrica, vorrei partire dalle opere minori, per così dire, dalla sua Prima lezione di metrica, pubblicata nel 2013 e ristampata più volte1. Questo piccolo libro, distillato di argomenti altrove sviluppati con ampiezza, che tratta di concetti molto specifici con un linguaggio che definirei confidenziale, rivela sia qual è la sostanza della metrica per Aldo Menichetti, cos’è importante aver assimilato per comprendere l’essenza della poesia, sia qual è il suo metodo di osservazione. Nella parte iniziale l’attenzione è posta sugli aspetti esecutivi, si insiste su come si può e si deve pronunciare o recitare correttamente la poesia. Così il lettore è invitato per esempio a porre una particolare cura nell’esecuzione delle inarcature, che può portare a rendere irriconoscibile la fisionomia di un verso, se è poco consapevole: “ciò che conta”, scrive Menichetti, “è che l’andamento melodico di un verso resti riconoscibile”2.

La condizione imprescindibile per una buona esecuzione è insomma che non si perda di vista il rapporto tra il modello metrico e la sua realizzazione nei singoli versi, mentre non è altrettanto essenziale, per Menichetti, la disposizione che i versi possono assumere all’interno dei generi formali. L’organizzazione della Prima lezione di metrica è del resto molto eloquente in tal senso. Dei complessivi dieci capitoli, solo l’ultimo è dedicato alle forme metriche, che sono analizzate rapidamente partendo dai moduli basilari, come il distico delle opere narrative o la terzina dantesca, fino ai metri liberi dell’età contemporanea, passando per le strutture strofiche.

Che a Menichetti importasse innanzitutto capire e far capire il funzionamento della versificazione era del resto già chiaro nella sua opera maggiore, il volume stampato nel 1993 che lui stesso ha definito manuale ma che in realtà è un vero e proprio trattato, dal quale sono però programmaticamente esclusi i generi formali3. Il respiro è quello di un’opera scientifica sperimentale, che non si limita all’esposizione delle nozioni fondamentali facendo il punto sullo stato dell’arte, ma individua un metodo proprio e se ne serve per l’osservazione diretta dei testi, dalla quale si ricavano e si accertano le nozioni descritte. Il metodo si configura a partire dal presupposto che la prosodia può essere studiata solo nel suo rapporto con la lingua.

“La lingua”, scrive Menichetti nella Premessa, “è stata [...] usata come parametro o reattivo sia ai fini della definizione e della classificazione degl’istituti metrici, sia soprattutto nello studio delle diverse configurazioni che ciascuno di essi assume nel concreto dei singoli testi”4. E in effetti, lungo tutta la trattazione è possibile verificare la validità dell’assioma che non si può dare un’analisi metrica senza tener conto dell'uso linguistico, anche perché solo l’uso linguistico permette di individuare i punti di ancoraggio utili a disambiguare le ambiguità prosodiche.

Ai due aspetti, la definizione e classificazione degli istituti metrici e la loro effettiva configurazione nei testi, è preliminare la distinzione tra prosa e poesia, ovvero l’individuazione del “principio che fonda la forma-poesia”5. Il problema è affrontato con il ricorso al concetto della “segmentazione versale”, che Menichetti considera un’“ipotesi di lavoro”6, ma sulla quale punta già nei saggi di visione complessiva degli anni Ottanta7. In questi scritti, la “segmentazione versale” si configura anche come chiave di volta per “trarre dal limbo”, scrive Menichetti, “i metri liberi moderni”8, ai quali, da filologo romanzo di scuola continiana, Menichetti dedica non poca attenzione. Il verso libero non diversamente dal verso regolare risponde per Menichetti a un “progetto sillabico-ritmico autonomo [...] rispetto al respiro sintattico”9. Nella poesia, dunque, la “segmentazione linguistica” non coincide, o non coincide di necessità, con la “segmentazione versale”10. La lingua, e nello specifico la sintassi, entra qui in gioco per via differenziale.

Quanto alla definizione e allo studio degli istituti metrici, è evidente come nella riflessione di Menichetti sia centrale il problema della corretta interpretazione della sillabazione, che nel volume occupa poco meno di 200 pagine11, ma che emerge o riemerge in gran parte dei suoi saggi di metrica, dai lavori sui principali nodi problematici della metrica e sulla figura di sinalefe/dialefe nel canzoniere di Petrarca12, ai due interventi sulle asimmetrie sillabiche nella strofe di canzone e sul rapporto tra storia della lingua e metrica13, al saggio sulla prosodia del Teseida14, fino all’articolo che analizza il trattamento degli incontri vocalici all’interno di parola nelle edizioni dei Tarocchi e del Timone di Boiardo (a cura, rispettivamente, di Simona Foà e Mariantionietta Acocella), di un volgarizzamento anonimo dell’Eunuco di Terenzio (a cura di Matteo Favaretto) e del Canzoniere di Petrarca15.

La valutazione degli incontri vocalici all’interno di parola e tra due parole, delle figure della dieresi e della sineresi, della dialefe e della sinalefe, non solo ha i più evidenti nessi con la linguistica storica ma ha le più forti ricadute sulla filologia, e credo sia proprio per questi motivi che è particolarmente cara a Menichetti. Dalla sua analisi, che muove come da programma dall’osservazione della lingua poetica e delle sue peculiarità, in primis l’emulazione del latino, emergono indicazioni che sono ormai entrate nel generale uso editoriale e hanno ottenuto il risultato di una maggiore coerenza nelle edizioni critiche riguardo alla distinzione tra regolarità e irregolarità prosodica e all’uso dei segni diacritici, innanzitutto riguardo alla distinzione tra iato e dieresi.

L’analisi si fa meno sicura, com’è naturale, per quei casi in cui la lingua poetica non è dirimente, le cosiddette dieresi d’eccezione che possono riguardare i nessi all’interno del verso di vocali atone o discendenti in fine di parola, e sono caratteristiche soprattutto della versificazione più antica. Come meno sicura è la distinzione tra sinalefe e elisione o apocope soprattutto per i testi medievali, che non leggiamo quasi mai nella versione autografa. Ma ad ogni modo, ciò che qualifica in generale ogni classificazione, ogni tipologia proposta, è la lucidità nell’evidenziare i punti problematici: la non immutabilità nel tempo delle abitudini prosodiche, le scelte riconducibili alla sensibilità dei singoli autori, che pure possono dimostrare una varietà talvolta inaspettata nell’uso delle figure metriche.

La relazione con la lingua poetica guida anche l’esame della distribuzione degli accenti ritmici nel verso, alla quale è dedicato un ampio capitolo16. Sul versante teorico, conta per Menichetti soprattutto il rapporto tra il verso e il modello e tra il verso e la prosodia della lingua, che può essere conflittuale in misura variabile. Il libro offre l’analisi di una casistica che attraversa un’ampia gamma di versi, un’analisi molto sofisticata, che rivela pienamente la grande sensibilità e esperienza di ascolto di Menichetti.

Com’è prevedibile, Menichetti riserva ampio spazio all’endecasillabo, verso nobile per eccellenza ma anche verso ritmicamente molto vario e instabile, soprattutto nella poesia più antica17. La trattazione sfocia in una valutazione delle figure ritmiche e del loro mutare attraverso i secoli dalla quale emergono nuovi percorsi di ricerca che investono il piano dello stile. È la libertà delle figure ritmiche, si legge nella parte iniziale, che fa dell’endecasillabo “il verso incomparabilmente più suggestivo dell’intera tradizione romanza”, perché permette di attivare più facilmente “il vigore espressivo delle parole, il loro potenziale emotivo o evocatorio”18.

Molto equilibrata è la posizione rispetto al problema della cesura dell’endecasillabo, variamente valutata dagli studiosi che se ne sono occupati e non da tutti riconosciuta come un tratto obbligatorio. Menichetti considera la cesura un fenomeno che pertiene alla scansione e non all’esecuzione. “A parte situazioni speciali”, scrive, “non vediamo nessuna ragione, se la sintassi, il senso, l’espressività non lo richiedono, di tradurre in un break linguistico percettibile – sotto forma di pausa, sospensione, speciale inflessione melodica, allungamento della vocale finale o altro [...] – un segno che può benissimo restare puramente virtuale”19. Ma sul piano della scansione per Menichetti la cesura è strettamente correlata con il concetto di accento ritmico portante. Ne consegue che sono da giudicare privi di cesura gli endecasillabi che non hanno accenti in quarta e sesta posizione20.

Diversi degli endecasillabi annoverati da Menichetti in questa categoria hanno in realtà un accento di terza che permette di equipararli ai décasyllabes con cesura lirica, diffusi nella versificazione della lirica galloromanza, in cui l’accento portante di quarta si ritrae di una sillaba. È il caso, per esempio, di un verso come “sì m’ài preso como lo pesce all’amo”, del Contrasto di Cielo d’Alcamo (v. 135), oppure come “Canzonetta di presente t’invia” di Chiaro Davanzati, o ancora del dantesco “e ‘Beati misericordes!’ fue” (Purg. XV 38) o del petrarchesco “Miserere del mio non degno affanno” (Rvf LXII 12). Per altri, Menichetti opta per la “promozione ritmica” di sillabe atone o semitoniche, come nel caso di “et col mondo et con mia cieca fortuna”, ancora Petrarca (Rvf CCXXIII 7), dove suppone un accento ritmico forte su mia, oppure nel caso anche di “Non per far, ma per non fare ho perduto”, ancora Dante (Purg. VII 25), dove suppone un accento ritmico forte sul secondo non. Ma Menichetti non prospetta mai, in nessuno dei suoi scritti, la possibilità che versi di questo tipo trovino un corrispettivo nella versificazione d’Oltralpe.

Si tratta, credo, di un punto delicato, rivelatore, che va messo in rapporto con quanto Menichetti scriverà più tardi a proposito della struttura e dell’origine dell’endecasillabo mettendo in discussione l’interpretazione dell’endecasillabo italiano come gallicismo, il suo rapporto di dipendenza dal décasyllabe galloromanzo e in particolare da quello dei trovatori, che offre una gamma di articolazioni ritmiche abbastanza varia ma secondo Menichetti non sufficiente a spiegare l’ancora più varia articolazione ritmica che l’endecasillabo rivela sin dalle origini21. Insomma, credo probabile che escludendo ogni riferimento alla cesura lirica, Menichetti dimostri in modo indiretto un atteggiamento prudenziale rispetto all’opzione di un’ascendenza galloromanza dell’endecasillabo italiano.

Menichetti considera la rima come un istituto secondario rispetto al verso, come un complemento non necessario del metro. Questa posizione, che possiamo far risalire al De vulgari eloquentia (II ix 5 “De rithimo vero mentionem non facimus, quia de propria cantionis arte non est”), e che per Menichetti è strettamente connessa all’idea della “segmentazione versale” come tratto distintivo della poesia rispetto alla prosa, orienta sin dall’inizio la direzione e l’impostazione dei suoi studi metrici. Lo dimostra il primo di questi studi, che tratta della rima per l’occhio ma ne studia la variante caratterizzata dall’ipometria che si crea leggendo il verso tronco come piano per garantire una perfetta corrispondenza22. L’ipometria è per Menichetti in questo caso solo apparente, e dietro la sua valutazione c’è una visione ben precisa, ovvero la convinzione che il metro vince sulla rima, che insomma la regolarità è data dalle norme prosodiche, alle quali la rima può essere sacrificata.

Lo stesso può dirsi per il fenomeno delle rime interne ipermetre nell’endecasillabo, come ad esempio nel verso di Guittone “ché non per stare, – ma per passare, – orrato” (Ora parrà s’eo saverò cantare, v. 44), dove stare rima con passare, ma la sua forma piena genera ipermetria, diversamente dalla forma piena passare perché la vocale finale è in questo caso in sinalefe con la vocale iniziale di orrato. Per Menichetti, al di là delle possibili soluzioni editoriali, più o meno rispettose della grafia dei testimoni, non ci sono dubbi: la vocale finale di stare non veniva pronunciata, “bastando alla rima” scrive “la sua eco per così dire potenziale”23. La misura ha insomma la meglio sulla perfezione rimica.

È nota la posizione di Avalle su questo specifico problema, dalla quale Menichetti prende le distanze24, ma che io stessa ho valorizzato chiamando in causa il legame della poesia lirica delle Origini con il canto e sottolineando che si tratta di un uso che diventa eccezionale con la stagione dello Stilnovo per poi scomparire, ed è quindi rivelatore di una concezione metrica antica25. Per versi di questo tipo Avalle propone di ammettere la possibilità di un’esecuzione delle vocali “in più” quando sono apocopabili perché ritiene che essa non intacchi l’identità prosodica del verso. In altri termini, la pronuncia di una vocale finale passibile di apocope implica un indugio che non è diverso dall’indugio implicato dalla pronuncia di una vocale finale passibile di elisione, e per questo non compromette la scansione di un verso più di quanto non faccia una sinalefe correttamente eseguita26.

Torno su questa differente interpretazione non per sottolineare una divergenza ma per trovare un punto d’incontro. Credo insomma che l’interpretazione di Avalle possa trovare riscontro nella definizione di “fenomeno psicologico” che Menichetti attribuisce alla sinalefe. “La sinalefe è un fenomeno non fonetico, ma psicologico [...]”, scrive, “nella lettura (“esecuzione”) le sinalefi si producono da sole, senza che si abbia alcuna impressione di ipermetria, perché il lettore colto riferisce il verso al “modello” dell'endecasillabo (in questo senso ho detto che la sinalefe è un fatto psicologico)”27. E ancora: “La sinalefe non richiede nemmeno un’accelerazione nella lettura; anzi, se il senso e la sintassi della frase, talvolta l’espressività, suggeriscono di effettuare una pausa o una leggera sospensione fra le parole interessate, questa va effettuata senza timore, nel modo che si ritiene linguisticamente più naturale e opportuno”28.

A me pare che questa concezione, in cui prevale il piano dell’esecuzione così caro a Menichetti, come ho sottolineato all’inizio, non sia distante dall'interpretazione di Avalle, se è vero che anche per Avalle ciò che conta è che il verso mantenga la sua identità, al di là della possibilità o necessità di una dilatazione nell'esecuzione; con le parole di Menichetti già citate: “ciò che conta, è che l’andamento melodico di un verso resti riconoscibile”. Nel verso di Guittone “ché non per stare, – ma per passare, – orrato”, il tempo di esecuzione è all’incirca lo stesso per la vocale finale di stare come per la vocale finale di passare, e sarebbe minore se il verso contenesse la forma apocopata anziché la forma piena e l’elisione anziché la sinalefe. Di conseguenza, la variante piena sta alla sinalefe come la variante apocopata sta all’elisione, che per ragioni di rima sarebbero in questo caso entrambe da evitare.

Il saggio sul Teseida è un esempio di applicazione concreta della tipologia individuata e analizzata negli scritti teorici (sillabazione nella parola, sillabazione interverbale, accentazione del verso), che mette in risalto un’altra caratteristica degli interessi e del metodo di Menichetti, la sua attenzione per gli autori, secondo quella che potremmo definire una visione autoriale della storia della metrica. Ne emerge una nuova interpretazione dell’endecasillabo del Teseida, che sfata “la nomea di faciloneria”, scrive Menichetti, “che accompagna da sempre il Boccaccio rimatore”, e lo fa sforzandosi di ascoltare la poesia di Boccaccio con l’orecchio del suo tempo, affrancandola dall’improprio paragone con l’inarrivabile verso di un Dante o di un Petrarca. “Dovrebbe inoltre essere ovvio”, scrive ancora Menichetti, “che i suoi modi prosodici vanno valutati entro il quadro storico-letterario che loro compete: quindi finalmente giudicati iuxta sua propria principia e non commisurati a una sorta di metrica ideale ‘esterna’ che finisce o per declassare il Teseida al rango di un qualsiasi cantare o viceversa per metterlo a confronto con vette per lui irraggiungibili: la prosodia nervosa e liberamente espressiva di Dante e quella uguale e regolata di Petrarca”29.

Vorrei anche mettere in rilievo che la visione autoriale permette a Menichetti di individuare le responsabilità e le circostanze che sono all'origine di un’innovazione metrica. Secondo una prospettiva non banalmente evoluzionistica, Menichetti dimostra insomma che la storia della metrica procede anche grazie alle scelte e all’iniziativa di singoli poeti. Lo si osserva già dal saggio sulla rima per l’occhio, che è sì diffusa soprattutto in ambito francese, “cosicché”, scrive Menichetti, “non parrebbe assurda l’illazione [...] che l'uso italiano rappresenti il calco di una moda oitanica”30, ma viene rinnovata da uno specifico autore, il suo Chiaro Davanzati, attraverso l’introduzione, direi l’invenzione, della variante ipometra.

La visione autoriale è fondamentale anche nei saggi sulla metrica della poesia contemporanea, di Carlo Betocchi, Aldo Palazzeschi, Eugenio Montale, che si concentrano nei primi anni Duemila31, e ai quali si aggiunge un ultimo saggio sui Canti Orfici di Dino Campana32. In questi lavori si conferma l’interesse di Menichetti per gli aspetti strettamente prosodici, sillabe e accenti. Altri lavori che esprimono una visione autoriale della storia della metrica hanno segnato e orientato l'esegesi della poesia italiana delle Origini, aprendo linee di ricerca che ancora offrono prolifici spunti di riflessione. Penso al saggio sul sonetto, forma identitaria della lirica italiana, che è fotografato al momento della sua invenzione nelle sue “implicazioni retoriche”33; penso ai lavori su Guittone d’Arezzo, che mettono a fuoco con rara efficacia e chiarezza quanto la tecnica poetica di Guittone rifletta il suo gusto per l'accumulo, la sua “dichiarata insofferenza degli spazi stretti”, la sua “tendenza irrefrenabile all’espansione”34.

Siamo di fronte a lavori esemplari per metodo, acume, sensibilità, che esprimono nel modo più pieno la rara capacità di ascolto della poesia di cui Menichetti era dotato. Forse tutto ciò che ci ha lasciato e che oggi è per noi imprescindibile (la sua eredità più vera) è sintetizzato proprio nel finale del primo dei due preziosi interventi su Guittone, che riporto per concludere: “Ci sarebbe moltissimo altro su cui interrogarsi. Ma il messaggio che mi premeva far passare è questo: [...] un congegno metrico oltre che un fatto formale, oltre che un indizio culturale [...], è una scelta motivata, segreta, rivelatrice: un’altra chiave per capire un poeta”35.

Note
  • 1

    Aldo Menichetti, Prima lezione di metrica, Bari-Roma, Laterza, 2013, 20245.

  • 2

    Ivi, p. 30.

  • 3

    Aldo Menichetti, Metrica italiana. Fondamenti metrici, prosodia, rima, Padova, Antenore, 1993.

  • 4

    Ivi, p. VII.

  • 5

    Ivi, p. VIII.


  • 6

    Ivi, p. 361.

  • 7

    Ora raccolti in Aldo Menichetti, Saggi metrici, a cura di Paolo Gresti, Massimo Zenari, Firenze, Edizioni del Galluzzo, 2006: Problemi della metrica [1984], pp. 155-209, alle pp. 155-165; Per un nuovo manuale di metrica italiana [1986], pp. 211-225), fino al saggio intitolato Testi di frontiera tra poesia e prosa [1990], pp. 349-366.

  • 8

    Aldo Menichetti, Metrica italiana, p. IX.

  • 9

    Ivi, p. 17.

  • 10

    Ivi, pp. X-XI.

  • 11

    Ivi, cap. 3. La sillaba metrica: sillabazione nella parola, e cap. 4. La sillaba metrica: sillabazione interverbale, pp. 173-359.

  • 12

    Problemi della metrica cit., pp. 177-186; Sulla figura di sinalefe/dialefe nel “Canzoniere” di Petrarca: l'incontro fra nessi bivocalici finali e vocale iniziale della parola seguente [1984], in Menichetti, Saggi metrici cit., pp. 142-153.

  • 13

    Storia della lingua e metrica. Tra fonetica e prosodia: “i” vs iod [1997], e Sur quelques asymétries syllabiques entre les strophes de la chanson (à propos d'anisosyllabisme) [1999], in Menichetti, Saggi metrici cit., rispettivamente alle pp. 283-300 e 309-331.

  • 14

    Aldo Menichetti, La prosodia del Teseida, in Studi in onore di Pier Vincenzo Mengaldo per i suoi settant’anni, a cura degli allievi padovani, Firenze, Edizioni del Galluzzo, 2007, pp. 347-372.

  • 15

    Aldo Menichetti, Prosodia e edizioni (Boiardo, un anonimo, Petrarca), in “Studi di filologia italiana”, LXXI, 2013, pp. 5-18.

  • 16

    Aldo Menichetti, Metrica italiana cit., cap. 5. Il ritmo. Gli accenti, pp. 359-446.

  • 17

    Ivi, pp. 386-424 e 466-477.

  • 18

    Ivi, pp. 416-417.

  • 19

    Ivi, p. 471.

  • 20

    Ivi, pp. 475-477.

  • 21

    Quelques considerations sur la structure et l'origine de l'endecasillabo [1994], in Aldo Menichetti, Saggi metrici cit., pp. 251-269.

  • 22

    Rime per l’occhio e ipometrie nella poesia romanza delle origini [1966], in Aldo Menichetti, Saggi metrici cit., pp. 3-108.

  • 23

    Aldo Menichetti, Metrica italiana cit., p. 547.

  • 24

    Le «Concordanze della lingua poetica italiana delle origini» di d’Arco Silvio Avalle, Tornata pubblica del 1994, Interventi di Aldo Menichetti e Aurelio Roncaglia, Firenze, Accademia della Crusca, 1995, pp. 35-37; Metrica e critica del testo [1999], in Aldo Menichetti, Saggi metrici cit., pp. 301-308, alle pp. 302-304.

  • 25

    Maria Sofia Lannutti, Anisosillabismo e semiografia musicale nel Laudario di Cortona, in “Studi medievali”, XXXV, 1994, pp. 1-66; Ead., Implicazioni musicali nella versificazione italiana del Due-Trecento (con un excursus sulla rima interna da Guittone a Petrarca), in “Stilistica e metrica italiana”, IX, 2009, pp. 21-53.

  • 26

    Cfr. da ultimo sull’argomento Davide Checchi, Vocali virtuali e ritmo nel verso della lirica italiana delle Origini: alcuni sondaggi, in Simone Albonico, Amelia Juri (a cura), Misure del testo. Metodi, problemi e frontiere della metrica italiana, Pisa, ETS, 2018, pp. 53-74.

  • 27

    Una storia della metrica italiana [1995], in Aldo Menichetti, Saggi metrici cit., pp. 271-282, a p. 280.

  • 28

    Aldo Menichetti, Prima lezione di metrica cit., p. 11.

  • 29

    Aldo Menichetti, La prosodia del Teseida cit., p. 372.

  • 30

    Aldo Menichetti, Rime per l’occhio cit., p. 69.

  • 31

    Approssimazioni alla metrica di Betocchi [2000]; La metrica di Palazzeschi [2002]; Eugenio Montale nel centenario della nascita [2000], in Menichetti, Saggi metrici cit., pp. 385-438.

  • 32

    Aldo Menichetti, Appunti sulla metrica dei “Canti orfici”, in “Tra lo stil de’ moderni e ’l sermon prisco”. Studi di allievi e amici offerti a Giuseppe Frasso, a cura di Edoardo R. Barbieri, Marco Giola, Daniele Piccini, Pisa, ETS, 2019, pp. 499-508.

  • 33

    Implicazioni retoriche nell'invenzione del sonetto [1975], in Aldo Menichetti, Saggi metrici cit., pp. 109-139.

  • 34

    Metrica e stile in Guittone [1995]; Sul “rinterzo” nella lirica italiana [2002], in Aldo Menichetti., Saggi metrici cit., rispettivamente alle pp. 237-250 e 333-348 (la citazione a p. 340).

  • 35

    Aldo Menichetti, Metrica e stile in Guittone cit., p. 249.