DOI 10.35948/2532-9006/2025.39518
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Manca ancora un tassello, “in traccia” di Bice Mortara Garavelli, dal sottotitolo del bel volume curato in suo onore da Francesca Geymonat nel 2013 per le Edizioni dell’Orso, proprio nella collana Gli argomenti umani da Bice stessa fondata: nel 2001, nella Piccola Biblioteca Einaudi, esce Le parole e la giustizia. Divagazioni grammaticali e retoriche su testi giuridici italiani, opera che ha ispirato tanti di noi linguisti e innumerevoli giuristi.
“Di fronte allo stesso oggetto di studio”, scrive Bice, “le pertinenze dei due campi, linguistico e giuridico, si intrecciano e si sovrappongono; e la reciprocità delle competenze si impone con una forza che non ha riscontri in quanto accade per gli altri linguaggi specialistici” (p. 4).
Anche per la varietà giuridica, al centro della riflessione è il testo. Oltre all’aspetto lessicale, di terminologia, che contraddistingue tradizionalmente il nucleo degli studi sui linguaggi specialistici, alla studiosa interessa individuare i tratti linguistici “che permettano di situare classi di produzioni verbali entro il complesso delle possibili realizzazioni testuali del sistema linguistico” (p. 42).
Il primo risvolto dell’attenzione al testo e alla varietà delle produzioni testuali è quel “catalogo sommario” dei testi giuridici (p. 19), che, senza pretese di tipologia nel senso sopra delineato, resta la proposta classificatoria recepita fin agli ultimi lavori sulla lingua del diritto1. Qui Bice dialoga fittamente con il magistrato Mario Garavelli (suo marito), quando scrive, in nota, con la consueta ironia: “Il seguito del presente paragrafo è dovuto in massima parte alla collaborazione di Mario Garavelli. Naturalmente la responsabilità di eventuali lacune o inesattezze è tutta… sua”.
Le tre categorie individuate, in base ai tre compiti fondamentali attribuibili all’uso giuridico della lingua, scritta e orale – la creazione delle regole di diritto, la loro interpretazione e la loro applicazione a determinate fattispecie – sono: (i) testi normativi, come la Costituzione, i codici civile o penale, ma anche le leggi costituzionali e regionali o i regolamenti emanati dal potere esecutivo, ecc.; (ii) testi interpretativi o dottrinali, come le note a sentenza, le massime, i trattati, le voci enciclopediche, i manuali di studio, gli articoli su riviste specializzate, ecc.; (iii) testi applicativi, che comprendono innanzitutto la giurisprudenza, gli atti e i documenti prodotti dal giudice durante il processo e i testi che applicano regole universali a casi particolari; ma anche atti amministrativi, atti notarili, accordi tra privati... Suddivisione concepita come elastica, e che la studiosa stessa suggerisce di incrociare col criterio della maggiore o minore vincolatività introdotto da Francesco Sabatini, concepito, del resto, proprio a sostegno di una riflessione sul linguaggio giuridico: i testi normativi sono testi tendenzialmente omogenei e dotati – sempre tendenzialmente – dei tratti di massima vincolatività, mentre quelli interpretativi, in genere ritenuti mediamente vincolanti, e soprattutto quelli applicativi, sono testi “misti”, sia sul piano giuridico sia su quello linguistico-testuale, fino a una zona grigia, di parziale sovrapposizione tra testi normativi e applicativi: si pensi alle decisioni con funzione nomofilattica della Corte di cassazione, che definiscono indirizzi interpretativi uniformi, o alle sentenze manipolative con cui la Corte costituzionale modifica o integra il testo di una legge per renderla conforme alla Costituzione.
Ne Le parole e la giustizia grammatica e retorica si cedono vicendevolmente il passo, con risultati inediti e tuttora attuali. Bice guarda alla disposizione della materia, al concatenarsi degli elementi nella tessitura testuale, alle strategie della connessione, che, come nota: “mostrano che i legami sintattici si chiariscono non soltanto nel senso che è ovvio per la grammatica della frase (legami di coordinazione e di subordinazione), ma soprattutto per la posizione occupata dai complessi frasali nell’insieme organizzato che l’interprete riconosce come un tutto coerente” (p. 126).
Anche la punteggiatura, come già rilevava Angela Ferrari a proposito del Prontuario nella miscellanea curata da Carla Marello per l’Accademia delle Scienze di Torino, è liberata “dalle briglie sintattiche e prosodiche in cui l’avevano costretta […] le grammatiche italiane”, per farne emergere, pur sottesa e senza teorizzazioni, estranee alla sua indole di studiosa, la natura testuale (ivi, p. 67).
“Fra grammatica e retorica”, scrive Bice, “gli steccati, se pure qualcuno li ha innalzati, non sono mai stati invalicabili” (p. 125), abbracciando la posizione di Claudia Caffi di una “articolazione senza fratture fra fatti grammaticali semantici pragmatici e psicologici ai quali inerisce la retoricità” (nota 81).
L’ampliamento dell’indagine alle caratteristiche testuali va di pari passo con il rilievo dato alla prospettiva pragmatica, nell’elaborazione sia di studi dei filosofi del linguaggio anglosassoni, quali John Austin o John Searle, sia di proposte dei filosofi del diritto italiani, come Gaetano Carcaterra o Amedeo Conte.
Bice nota in proposito come, oltre a proposizioni che prescrivono "azioni ancora da compiere", quali “La Repubblica, entro tre anni dall’entrata in vigore della Costituzione, adegua le sue leggi alle esigenze delle autonomie locali e alla competenza legislativa attribuita alle Regioni” (Disposizioni transitorie e finali, Cost. IX), la legislazione contenga norme che sono atti produttivi di effetti nel momento in cui (e per il fatto che) vengono enunciate. A proposito della proposizione “L’Italia è una Repubblica democratica…”, Bice rileva: “In un qualsiasi contesto (ad esempio, in un discorso riguardante la forma di governo dell’Italia) una tale frase avrebbe funzione descrittiva; nell’art. 1 della Costituzione, invece, produce lo stato di cose sul quale verte: ha la forza e l’efficacia di ascrivere l’Italia alla classe delle repubbliche democratiche; di attuare nella realtà dei fatti ciò che l’ascrizione stessa significa”2. Gaetano Carcaterra chiama questo tipo di enunciati “costitutivi”; Amedeo Conte li chiama “thetici”, enunciazioni che producono lo stato di cose sul quale vertono. Bice è la prima a trattare da linguista, con la consueta finezza, questi fenomeni, che hanno da sempre affascinato giuristi e filosofi del diritto, tanto che alcuni, come Karl Olivecrona, hanno parlato di un potere "magico" delle parole del diritto, il potere di creare o modificare la realtà.
Ma le novità introdotte dal saggio non sono finite. Tra le prime, con Francesco Sabatini, ad occuparsi di una varietà fino ad allora rimasta quasi sconosciuta ai linguisti, la lingua degli avvocati, ne Le parole e la giustizia e nel saggio sulle Strutture testuali e stereotipi del linguaggio forense compreso nel volume curato da Alarico Mariani Marini nel 2003, Bice guarda al tessuto dell’oratoria forense; con le sue parole, “va a frugare nel ricco deposito delle tecniche, avallate da millenni di tradizione retorica, adatte a rendere persuasivi discorsi che devono avere un impatto sicuro sui destinatari”, nelle arringhe nei processi penali (p. 189). Se ne occupa con un certo sconforto, devo dire, come quando scrive: “Così, quando si legge «senz’uopo di ulteriore istruttoria», ci si persuade che negli scritti giuridici, qualunque sia la loro impostazione, qualunque sia il loro grado di eccellenza nella sostanza e nella forma, l’innalzamento dello stile alla ricerca – necessaria – di formalità passa attraverso la via delle anticaglie”3; sempre attenta alla dimensione diamesica, come nel capitolo sull’eterogeneità discorsiva nel dialogato di procedimenti penali, del 2010, in cui studia le mescolanze di registro, i fenomeni di parlato spontaneo e il carattere mescidato dei discorsi prodotti nelle udienze giudiziarie, in un quadro quindi di comunicazione asimmetrica fortemente regolata, basandosi su un corpus di registrazioni di esame di testimoni e di interrogatori di imputati in udienze di processi svolti presso il tribunale di Torino.
Anche nel capitolo del 2003, la lente è quella testuale: guardando alla tradizionale opposizione tra paratassi e ipotassi, Bice dedica pagine bellissime alle valenze argomentative delle frasi subordinate, in contrasto con l’opinione diffusa che un testo costruito paratatticamente sia più semplice e leggibile di un testo ipotattico; scrive: “lo è certamente quando gli incastri di subordinate prendono l’apparenza di un gioco di scatole cinesi, e c’è il rischio di perdersi nei meandri di un ragionamento che obbliga l’interprete ad uno sforzo interpretativo dove i costi talvolta superano i profitti”4, ma diverso e altrettanto alto è il rischio insito nella paratassi, che rinuncia a stabilire un preciso collegamento tra le parti, lasciando all’interprete l’onere di farlo; la costruzione ipotattica, invece, soprattutto se coadiuvata da un uso preciso delle congiunzioni, guida il lettore nella ricostruzione delle relazioni e delle gerarchie nella compagine argomentativa.
Sono strumenti di indagine importanti, soprattutto per la lingua degli avvocati, una varietà in cui la patina impersonale e oggettiva tipica del testo normativo lascia il posto a fenomeni di soggettività e polifonia inaspettati nel dominio della legge e della giustizia. Gli atti di parte5 sono infatti testi ricchi di movenze dialogiche e controargomentative, rese con il discorso diretto e indiretto, ma anche con segni paragrafematici, come in: "completa ed ingiustificata mancata concessione della giornata festiva per ‘shopping’ o ‘influenza’", o con il condizionale "di riserva", o di "dissociazione", così definito da Bice nel suo capitolo sul discorso riportato per la Grande grammatica di consultazione, come in: "secondo la ricostruzione avversaria, il Codice della Strada non sarebbe applicabile", oltre ad aggettivi e avverbi che segnalano ciò che viene detto come voce altrui, quali asserito, preteso o presunto6.
Movenze dialogiche e controargomentative che Bice notava già ne Le parole e la giustizia, in esempi quali questo, tratto da un’arringa relativa al processo Sindona, costruito su una “confutazione-basata-sull’ammissione, alimentata da una sorta di dialogo implicito con le opinioni e i giudizi rifiutati”7 (p. 199):
Che spazio operativo, quindi aveva il Clerici? Erano operazioni di particolare valore economico, assai spesso; ma questo non muta il genere di lavoro espletato dal dipendente. È vero, firmava. Ma assumeva con la firma la responsabilità dei dati tecnici esposti nel documento che riguardava B. È vero, firmava anche per le società fiduciarie, che erano peraltro strumenti di B.
I testi giuridici, ricorda Bice, “a qualsiasi classe o sottoclasse appartengano, raramente e solo saltuariamente appaiono privi di espressioni desuete, di ‘modi di dire’ congelati in uno specialismo che non è quello, inevitabile e ineliminabile, del lessico tecnico del settore, ma è invece frutto, abnorme e resistente, dell’assuefazione a una stereotipia tramandata come un marchio di fabbrica”8.
È questo un ultimo elemento che vorrei ricordare, che pervade gli studi di Bice sui testi giuridici: la critica all’oscurità del dettato giudiziario, la consapevolezza del legame tra democrazia e comprensione della lingua del diritto9 – “il cittadino – dice ne Le parole e la giustizia - rivendica il diritto a capire e ad essere capito”.
Se per il cittadino capire quel che si dice in un dibattimento è fondamentale dal punto di vista dei diritti della persona – ed è l’assunto che abbiamo fatto nostro anche nel progetto AttiChiari –, solo la ricerca di una scrittura chiara ed efficace degli atti del processo può garantire l’uguaglianza e l’inclusività nell’accesso alla giustizia.
Concludo con la copertina dell’ultimo tributo, a cura di Carla Marello, a una delle Maestre più amate.
Grazie.
Da ultimo Sergio Lubello, L’italiano del diritto, Roma, Carocci, 2021.
L’italiano della Repubblica: caratteri linguistici della Costituzione, in Vittorio Coletti (a cura di), L’italiano dalla nazione allo Stato, Firenze, Le Lettere, 2011, p. 211 (nel volume l’Accademia della Crusca celebra i 150 anni dell’Unità d'Italia).
L’italiano della Repubblica: caratteri linguistici della Costituzione, in Vittorio Coletti (a cura di), L’italiano dalla nazione allo Stato, Firenze, Le Lettere, 2011, p. 211 (nel volume l’Accademia della Crusca celebra i 150 anni dell’Unità d'Italia).
Bice Mortara Garavelli, Strutture testuali e stereotipi del linguaggio forense, in Alarico Mariani Marini (a cura di), La lingua, la legge, la professione forense, Milano, Giuffrè, 2003, p. 13.
Bice Mortara Garavelli, Strutture testuali e stereotipi nel linguaggio forense, cit., p. 6.
Raccolti ora nella banca dati Minerva elaborata per il progetto PRIN AttiChiari (https://attichiari.unige.it/): si veda ad es. Riccardo Gualdo/Laura Clemenzi (a cura di), Chiarezza e concisione nella scrittura forense, Viterbo, Sette Città, 2021, o Maria Vittoria Dell’Anna (a cura di), La lingua e la scrittura forense: storia, temi, prospettive, Torino, Giappichelli, 2023.
Sul grado di soggettività degli avverbi modali si veda ad es. Federica Venier, La modalizzazione assertiva. Avverbi modali e verbi parentetici, Milano, FrancoAngeli, 1991.
Su tali costrutti si veda ad es. Marco Mazzoleni, I costrutti preconcessivi tra dialogo e monologo: un caso di grammaticalizzazione “verticale”, in Francesca Gatta (a cura di), Parlare insieme. Studi per Daniela Zorzi, Bologna, Bononia University Press, 2016, pp. 411-426.
Bice Mortara Garavelli, Le parole e la giustizia, Torino, Einaudi, 2001, pp. 153-54.
Su cui già Tullio De Mauro, Obscura lex sed lex? Riflettendo sul linguaggio giuridico, in Gian Luigi Beccaria e Carla Marello (a cura di), La parola al testo. Scritti per Bice Mortara Garavelli, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2002, I, pp. 147-159; anche Mortara Garavelli, Le parole e la giustizia, cit., pp. 50-51.