DOI 10.35948/2532-9006/2024.30160
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Un lettore fiorentino ci chiede notizie sull’origine del modo di dire prendere un granchio.
Se il fatto di prendere un granchio – ossia ingannarsi, prendere una cosa per un’altra – può essere causa di problemi, anche l’espressione prendere (o pigliare) un granchio, a pensarci, comporta un problema: perché si dice così? In altre parole: questo modo di dire da quale esperienza dipende? La risposta non si può dire che venga da sé.
Guardiamo che cosa ci dicono i repertori correnti. Nel dizionario fraseologico di Carlo Lapucci si trovano due diverse soluzioni, presentate con uguale incertezza:
Può darsi che derivi dalla pesca con la canna: quando l’amo è sul fondo, se vi abbocca un granchio, il sughero si muove come se ci fosse una grossa preda. O forse è una parte dell’antico ‘Pigliare un granchio per un gambero’. (Carlo Lapucci, Per modo di dire, Firenze, Valmartina, 1969, p. 137; stesso testo in Id., Il dizionario dei modi di dire della lingua italiana, Milano, Garzanti-Vallardi, 1993, p. 138)
La prima delle due spiegazioni riecheggia da più parti, per esempio nel brano seguente, più convinto e più esplicito:
Molto probabilmente, questa espressione, molto vecchia, deriva dalla pesca con la canna. Quando il pescatore ha calato la lenza in un fondale molto basso, e l’amo con l’esca posa sul fondo, spesso, anziché il pesce, abbocca un granchio, che comincia subito a dibattersi, per sganciarsi, dando l’impressione che all’amo si sia attaccata una grossa preda. Ma quando si tira su l’amo, la delusione è forte. (Salvatore Di Rosa, Perché si dice, Milano, Club degli Editori, 1980, p. 77)
Sulla verosimiglianza della scena di pesca, però – in particolare sulle capacità, da parte del granchio, di suscitare tanta impressione – c’è ragione di dubitare. Di fatto, Giuseppe Pittano, che mantiene il dilemma di Lapucci, all’attività in causa assegna un diverso strumento e un diverso obiettivo:
In origine questo modo di dire significava “provare una grossa delusione” ed era un termine del gergo dei pescatori che, dopo aver gettato le reti con la speranza di tirar su qualche crostaceo pregiato, dovevano accontentarsi di un povero granchio di scarso valore. Può darsi anche che derivi, sempre nell’ambito della pesca, dal modo di dire più antico pigliare un granchio per un gambero, cioè confondere a prima vista i due crostacei. (Giuseppe Pittano, Frase fatta capo ha. Dizionario dei modi di dire, proverbi e locuzioni, Bologna, Zanichelli, 1992, p. 238)
Qui – diremmo – non si sa che pesci prendere. Cerchiamo allora di andare più in profondità, cioè indietro nel tempo, e per prima cosa esaminiamo la seconda spiegazione. La sua fonte deve essere un brevissimo cenno contenuto in un articolo che parla di altre espressioni (Domenico Grasso, Impappinarsi e impaperarsi (una falsa sinonimia), “Lingua Nostra”, XXXIII, 1972, pp. 60-64, a p. 63: «probabile accorciamento dell’antico “pigliare un granchio per un gambero”»). Ora, è probabile che l’autore abbia preso un granchio: del giro di parole addotto, in uso reale, gli strumenti di ricerca ci permettono di rintracciare un solo esempio, in un testo non antichissimo e poco noto:
Né posso qui tacere come un certo sciocco latinista non sapeva capire, nello spiegare questi versi [certi versi latini sul cioccolato, opera del gesuita napoletano Tommaso Strozzi], come si dovessero aggiungere al cioccolato due vitelli, equivocando dal vitulos [‘vitelli’] al vitellos [‘tuorli d’uova’], prendendo un granchio per un gambero. (Il cioccolato. Trattenimento ditirambico di Francesco Arisi, Eufemo Batio tra gli Arcadi, Cremona, Pietro Ricchini, 1736, p. 44)
In questo caso siamo probabilmente di fronte a una creazione occasionale. Quanto al caso più moderno, forse si tratta di un’involontaria mistione di prendere un granchio con un modo di dire lombardo di uguale valore, corrispondente a prendere un gambero, registrato per esempio come ciappà on gamber (accanto a fà on gamber) ‘pigliare un granchio’ nel Vocabolario milanese-italiano di Francesco Cherubini (II ed., vol. I, Milano, Imp. Regia Stamperia, 1839, p. 197).
Lasciamo dunque da parte la pretesa versione antica, che tuttavia è servita a qualcosa, cioè a portare in campo un altro elemento, un animale vicino al granchio per varie caratteristiche, prima fra tutte – se si tratta di un gambero di fiume, qual è il gambero di Lombardia – la dotazione di chele: per la nostra questione può essere un fatto rilevante. Va però detto che è possibile che il modo di dire lombardo, registrato in tempi relativamente recenti, sia un adattamento di quello italiano, che fa la sua prima comparsa nella Calandria del Bibbiena (1513), dove gli esempi sono due, uno di seguito all’altro:
Samia: Uh! Uh! Trista me! Aveva preso un granchio. Perdonami, messere: volevo costui, non te; adio, tu. Tu ascolta.
Lidio femina: El granchio pigli tu ora: parla a me, licenzia lui. (Commedia elegantissima in prosa nuovamente composta per messer Bernardo Dovizi da Bibbiena intitulata Calandria, atto V, scena I, ed. a cura di Giorgio Padoan, Bibbiena, [s.n.], 1970, p. 109)
I due esempi successivi vengono anch’essi da testi scenici, la Mandragola (1520) e la Clizia (1525) di Machiavelli. Ugualmente dall’italiano possono dipendere altre espressioni dialettali più vicine, come il veneziano chiapàr un granzo (Giuseppe Boerio, Dizionario del dialetto veneziano, II ed., Venezia, Cecchini, 1956, p. 315) e il napoletano pigliare no rancio (Raffaele D’Ambra, Vocabolario napolitano-italiano domestico d’arti e mestieri, Napoli, a spese dell’autore, 1873, p. 306).
Le chele ora emerse hanno in effetti rilevanza, implicitamente, in quella che forse è la prima spiegazione del modo di dire, presentata sotto la voce granchio nel Vocabolario degli Accademici della Crusca a partire dalla prima edizione (1612). Il discorso prende avvio da un’espressione in parte coincidente, ma più estesa, che si riferisce all’esperienza di chi si trova all’improvviso con un lembo di pelle stretto con forza tra due corpi rigidi, subendo dunque un pizzico simile a quello del granchio ma in contesto non acquatico (per la stessa esperienza a Firenze, da lungo tempo e fino a oggi, si usa l’espressione farsi una pulcesecca, che ha l’aria di discendere da lì). Leggiamo il punto:
Pigliare un granchio a secco si dice quando uno si strigne un dito tra l’una e l’altra cosa, come tra legno e legno, sasso e sasso: e per quella strignitura il sangue ne viene in pelle. Onde proverbialmente pigliare un granchio pigliare errore, o ingannarsi.
La stessa cosa viene detta da Paolo Minucci nelle sue note al Malmantile:
Si dice pigliare un granchio a secco quando uno nel picchiar qualche materiale, scambiando, si batte il martello sopr’alle dita, o si serra le dita fra due materiali: e da quello errore intendiamo poi ‘far un errore’ quando diciamo pigliare un granchio. (Malmantile racquistato. Poema di Perlone Zipoli con le note di Puccio Lamoni, Firenze, Stamperia di S. A. S. alla Condotta, 1688, p. 236)
Che la Crusca e il Minucci abbiano ragione? La documentazione, purtroppo, non è dalla loro parte. L’espressione con a secco è ben attestata, ma in prima battuta con lo stesso valore del semplice prendere un granchio; e compare tre decenni più tardi, a partire da una lettera di Anton Francesco Doni pubblicata nel 1547 (“andate adagio in mal’hora con il fallito, che vi farà pigliare un granchio a seccho”; cfr. Lettere del Doni. Libro secondo, stampate in Fiorenza appresso il Doni, 1547, c. 5v). Il valore più ristretto risulta per la prima volta ancora più tardi, in un trattato uscito nel 1584 (“Non bisogna che tema del pigliar de’ granchi a secco nel maneggiare i marmi, rispose tantosto il Michelozzo, chi delle sculture vuol gustare il piacere”; l’esempio viene da Raffaello Borghini, Il riposo, in cui della pittura e della scultura si favella [...], Firenze, Giorgio Marescotti, 1584, p. 29), il che significa una settantina d’anni dopo la comparsa della versione semplice. L’arco di tempo non è enorme, ma la cosa non è affatto trascurabile.
È dunque più probabile che la formula originaria sia il semplice prendere un granchio, a cui l’elemento a secco deve essere stato aggiunto per enfasi, cioè per significare che l’errore preso a bersaglio è davvero grossolano. Del resto, la formula si trova amplificata spesso, in vari altri modi e molto presto: per esempio già Francesco Guicciardini nei Ricordi – siamo negli anni venti del Cinquecento – parla della possibilità di “pigliare grandissimi granchi” (GDLI, s.v. granchio), mentre Francesco Berni in un capitolo del 1532 scrive che “Vergilio ha preso un granciporro” (GDLI, s.v. granciporro), facendo allusione anche lui alle dimensioni. Nel lessico napoletano già citato, inoltre, troviamo ranciofellone col valore di ‘sproposito, abbaglio’, costruito con prendere; il nome primariamente designa un grosso granchio che vive tra gli scogli. Il modo di dire pigliare un granchio a secco nell’uso più ristretto, cioè in riferimento al farsi un pizzico con oggetti maneggiati maldestramente, deve essere uno sviluppo secondario; e fa capire bene che del granchio in primo luogo si ha presente, appunto, il pizzico.
È questo infatti il punto su cui insiste un altro indagatore dei modi dire, Ludovico Passarini, attivo nell’Ottocento e noto con lo pseudonimo anagrammatico Pico Luri di Vassano. Leggiamo che cosa scrive:
Il granchio è pesce noto de’ crostacei; vive fuor d’acqua, ed è fornito di acutissimi rampini, che a prenderlo vivo si corre il rischio d’esserne graffiato: e le punture il popolo le crede velenose, perché in poco tempo la parte ferita si gonfia con forte dolore; e bisogna correre con certi rimedj, che tutte le madri conoscono nei paesi di mare. Sono i ragazzi che, cercando nel fondo dell’acqua le telline ed altri pesciolini, incappano talvolta ad abbrancare il granchio, il quale alla sua volta allargando i suoi artigli, abbranca la mano del meschino, che non se ne libera facilmente: e buon per lui se addatosene subito, scuote furiosamente la mano nell’acqua: il granchio allora facilmente riapre l’artiglio, e lascia la preda. Il granchio poi fuor d’acqua, ossia a secco, è più crudele: e dice assai bene un mio caro giovane Sacerdote, e studioso, di Modena (città dei sani, forti e severi studj), scrivendomi, che chi piglia un granchio, ossia fa errore da riceverne danno in cose che a prima vista sembrano buone, ha del minchione: ma è un minchione e mezzo chi, sol che aprisse gli occhi, vedrebbe l’errore che fa. Così chi piglia un granchio sott’acqua, fa un errore, ma chi a secco, lo fa sì grosso che non può perdonarglisi. (Pico Luri di Vassano, Modi di dire proverbiali e motti popolari italiani, Roma, Tipografia Tiberina, 1875, pp. 112-113)
L’immagine di partenza, insomma, sarebbe quella di chi viene pizzicato da un granchio mentre cerca di prendere altri esseri acquatici, questi inoffensivi. La spiegazione pare molto plausibile. E non sarà un caso se quell’immagine, in sostanza una scena di gioco, si trova ritratta in un testo letterario, una poesia per musica del secondo Trecento, opera del fiorentino Francesco Landini. Il testo è questo:
Così pensoso com’Amor mi guida
per la verde rivera passo passo,
senti’: – Leva quel sasso! –
– Ve’ ’l granchio, ve’. – Ve’ ’l pesce, piglia piglia. –
– Quest’è gran maraviglia. –
Cominciò Isabella con istrida:
– Omè omè! – Che hai? che hai? –
– I’ son morsa nel dito. –
O Lisa, il pesce fugge. –
– I’ l’ho, i’ l’ho: l’Ermellina l’ha preso. –
– Tiel ben, tiel ben. – Quest’è bella peschiera. –
Intanto giunsi a l’amorosa schiera,
dove vaghe trova’ donne ed amanti,
che m’accolson a lor con be’ sembianti. (Poesie musicali del Trecento, a cura di Giuseppe Corsi, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1970, p. 226)
La spiegazione del Passarini si può allora semplificare così: in origine il modo di dire prendere un granchio alludeva all’esperienza di chi agguanta un granchio invece di un pesce, ricevendone – come comunemente si dice – un morso; e ciò per significare che si prende una cosa al posto di un’altra, con conseguenze più o meno dannose.
In conclusione, la soluzione del problema diremmo che è questa. E se qui prendiamo un granchio, pazienza: è sicuramente un granchio piccolo e non comporterà gran danno. Non scordiamoci però del gigante Morgante, che uccide a mazzate una cattivissima balena e muore perché nel mentre, essendosi scalzato per comodità, viene morso nel tallone proprio da un “granchiolino” (Luigi Pulci, Morgante, XX 50, 3).