DOI 10.35948/2532-9006/2025.40577
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Una lettrice riferisce di essere stata ripresa perché aveva detto breve durata; secondo chi l’ha corretta, poiché durata contiene già l’informazione che si tratta di tempo, non sarebbe opportuno ripetere questa stessa informazione nell’aggettivo, e quindi più opportunamente si dovrebbe dire bassa durata.
Cominciamo col dire che la lettrice è assai credibile quando aggiunge di non avere mai sentito dire bassa durata. Uno spoglio automatico di 10 annate del quotidiano “La Stampa” (1992-2001) trova 397 attestazioni di breve durata e nemmeno una di bassa durata. Nel più recente corpus giornalistico La Repubblica SSLMIT (messo a disposizione dall’Università di Bologna) si rinvengono 629 attestazioni di breve durata, e anche qui nemmeno una di bassa durata. Cambiando genere di produzioni linguistiche, appuriamo che il corpus RIDIRE di testi vari tratti dal web (approntato presso l’Università di Firenze) contiene 2.650 attestazioni di breve durata, e solo 6 di bassa durata. Insomma, gli usi reali confermano che l’espressione usuale in italiano è quella adoperata dalla nostra lettrice, e chi ha cercato di correggerla lo ha fatto a sproposito.
Accanto a questo fatto concreto, può essere interessante riflettere su quali siano le ragioni per cui l’uso conduce a caratterizzare una durata come “breve”. Avremo così anche qualcosa da rispondere alla motivazione esplicita con cui è stato censurato il comportamento linguistico della nostra lettrice, cioè che il trattarsi di tempo è già insito nel concetto di durata, rendendo inopportuno codificarlo nuovamente nell’aggettivo breve.
Che la lingua debba funzionare “all’osso”, non ripetendo mai niente, è opinione ingenua assai diffusa. Riguarda sia quella che Ferdinand de Saussure chiamava la dimensione “sintagmatica” del linguaggio, sia quella che egli chiamava “associativa” (e che Louis Hjelmslev propose di denominare, con maggiore parallelismo, “paradigmatica”). Quello che stiamo discutendo è un caso di ripetizione sul piano sintagmatico, e ci torneremo fra poco, dopo un breve excursus sul piano paradigmatico.
Vi è probabilmente da sempre, nel pensiero sia professionale che spontaneo sul linguaggio, quello che si può chiamare un atteggiamento “analogista” (fin dalla disputa tra le scuole ellenistiche di Alessandria e di Pergamo, più o meno nel I secolo a.C., analogista è chi preferisce e prevede che la lingua funzioni secondo criteri e regole coerenti, anomalista chi preferisce e prevede che nella lingua questi principi siano mescolati a una buona dose di creatività e libertà di innovare), che ritiene vi debba essere molta coerenza nei comportamenti linguistici. Questa impostazione, ad esempio, vuole che una singola funzione, poiché è singola, debba essere svolta da una singola forma, e non da più forme diverse tra cui scegliere liberamente. Uno dei modi di manifestarsi di questa impostazione è il principio tecnicamente chiamato One Meaning - One Form, il quale, inteso in senso normativo, fa pensare che ci debba sempre essere uno e un solo modo (una forma) per dire una cosa (un significato). Ad esempio, chi scrive ha appena ricevuto un messaggio su Whatsapp che dice così:
Naturalmente l’idea che, di due forme più o meno equivalenti, se una è giusta l’altra debba essere errata, è molto lontana dalla realtà linguistica, dove ad esempio “nel caso in cui non corrisponda” e “nel caso in cui non corrispondesse” sono modi di esprimersi entrambi perfettamente accettabili. Come osserva Thornton (2012), quest’ansia di nitidezza normativa, specialmente se la si presenta come un’esigenza estetica, è erede di un atteggiamento che si potrebbe chiamare “manzoniano”, volto a decidere sempre quale sia la parola o la forma (unica) da preferire. Nei casi di maggiore accanimento, il guardiano della corrispondenza biunivoca tra forme e funzioni cerca un criterio per scartare e bandire uno degli elementi “in eccesso” anche in coppie di varianti entrambe corrette (e spesso caratterizzate per gradi di formalità diversi) come perso/perduto, visto/veduto, sepolto/seppellito, vedo/veggo, siedo/seggo, temei/temetti, e simili. Oppure, sostiene che non si debba mai usare un termine di origine straniera se ne esiste già uno italiano con lo “stesso” significato (no a babysitter perché c’è già bambinaia, no a meeting perché c’è già riunione).
Fin qui siamo sul piano paradigmatico, nel senso che di tutto il “paradigma” delle forme potenzialmente disponibili (due forme di una desinenza verbale, due tempi del congiuntivo nello stesso contesto sintattico, due o più termini del dizionario) si reputa debba essercene una sola da cui far esprimere un certo significato. Sul piano sintagmatico, cioè degli elementi linguistici che compaiono insieme nell’enunciato, preferire che non ci sia ridondanza porta a sconsigliare modi di dire colloquiali e poco sorvegliati, ma oggi piuttosto diffusi, come “lo ha messo dentro nella borsa”, o “siamo in condizione di poter iniziare”, o “una giovane ragazza”, dove rispettivamente l’idea di ‘dentro’, quella di ‘potere’ e quella di ‘giovane’ sono espresse ciascuna due volte. Il desiderio di evitare la doppia espressione della temporalità in espressioni come breve durata sembrerebbe appartenere allo stesso tipo di esigenza.
Tuttavia, questa esigenza può risultare più o meno giustificata a seconda dei casi. Nel caso di breve durata non lo è abbastanza. Vediamo perché.
In primo luogo, mentre dicendo sono in condizione di potere si ripete veramente due volte la stessa cosa, in breve durata l’aggettivo si adatta al nome attribuendo alla durata il tipo di modica quantità che le è propria, cioè una modica quantità temporale anziché una modica quantità ad esempio numerica, economica, di pigmentazione o di simpatia; e questa appropriatezza non è esattamente una mera ripetizione. Lo stesso accade in moltissimi altri contesti: ad esempio, dicendo che una persona è mia parente le si attribuisce una caratteristica che può appartenere solo alle persone (un cammello o un cristallo di rocca non possono essere parenti di nessuno). Cioè, parente non significa astrattamente ‘di famiglia’, ma, necessariamente, ‘persona di famiglia’, e quindi a rigore la nozione di ‘persona’ è in qualche modo contenuta nella parola parente. Insomma, nell’enunciato quella persona è mia parente il concetto di persona è “ripetuto”, nel senso che è espresso, esplicitamente o implicitamente, due volte.
Oppure, dicendo che “l’idraulico è venuto in ritardo” si ripete l’informazione che l’idraulico è maschile singolare, incorporandola sia nel sostantivo idraulic-o, sia nel participio passato venut-o (anzi, che sia singolare è codificato pure nella copula è). Si tratta di relazioni di “accordo” fra le parti dell’enunciato, così chiamate per designare la ripetizione dell’informazione morfologica (genere, numero, persona) ad esempio su nome e aggettivo, o su nome e verbo. Quell’informazione è ripetuta assai utilmente, per rendere più facile capire a quale nome è legato sintatticamente l’aggettivo o il verbo (ma anche l’articolo al nome, e così via).
Quando l’accordo è di natura semantica, si parla di “restrizioni di selezione”. Ad esempio, quando si dice che qualcuno ha mangiato, l’informazione che si tratta di un essere animato è sempre presente sia nel verbo che nel nome, perché non si dirà mai che una scarpa ha mangiato, ma il soggetto di questo verbo sarà sempre un essere animato (a meno che il senso del verbo cambi, spostandosi a usi metaforici come “il bancomat mi ha mangiato la tessera”). Cioè, il verbo mangiare restringe la selezione dei possibili soggetti agli esseri animati. Sempre se usato nel suo senso non metaforico, il verbo leggere seleziona oggetti scritti, il verbo marcire seleziona soggetti organici, e così via. Allo stesso modo, vi è selezione di appropriatezza semantica fra nomi e aggettivi: un aggettivo di colore, come verde o scarlatto, non potrà riferirsi a nomi astratti come idea, o a nomi di entità anche fisiche ma senza una superficie visibile come rumore, e salvo sensi traslati un aggettivo come illegale non potrà riferirsi a nomi come roccia o sogno.
La lingua è tutta così, cioè − in particolare per il caso che ci interessa − ha aggettivi specifici per diverse sfere di realtà, e quindi spesso ciò che mette a disposizione degli utenti è questo tipo di aggettivi, che incorporano nozioni di accordo semantico con il nome. Di ciò non sono responsabili gli utenti. Semmai ne è “responsabile” la lingua. Ma una lingua che funzionasse diversamente sarebbe migliore? Cioè, una lingua che evitasse di avere aggettivi dedicati a specifici tipi di entità, e avesse solo aggettivi astrattissimi, che lasciassero la codifica del tipo di realtà interamente affidata al sostantivo, sarebbe più efficace? Questa lingua non avrebbe i diversi aggettivi breve, basso, leggero, economico, con cui dire rispettivamente che le cose sono poco sviluppate sul piano del tempo, dell’altezza, del peso o del costo, ma avrebbe solo l’aggettivo poco, con cui dire che si è fatta poca attesa, che una persona è di poca statura, che un oggetto è di poco peso, o che un acquisto è stato di poco costo. Sarebbe una lingua assai disfunzionale per diversi motivi, di cui il principale è che di ogni entità reale o immaginaria serve poter sottolineare caratteristiche diverse, e non una sola. Ad esempio, una borsa è un oggetto che ha un peso, e quindi per dire che è leggera ci basterà dire poca borsa? Però è anche un oggetto che ha un costo, e allora per dire che è economica basterà dire poca borsa? E ha anche una capienza, dunque per dire che è piccola ci basterà dire poca borsa? Evidentemente no: è molto utile che l’aggettivo contenga l’informazione relativa a quale delle caratteristiche del sostantivo vogliamo descrivere. Il caso di durata non è diverso: serve poter decidere da che punto di vista vogliamo caratterizzare una durata: l’attesa ha avuto durata appropriata, eccessiva, estenuante, lunga, breve, ingiustificata, sorprendente, eccetera.
Si sarà notato che proprio l’aggettivo qui in questione, cioè breve, è in effetti in una certa misura astratto, perché in realtà il suo significato primario non è quello temporale, bensì quello dell’estensione nello spazio. Solo per metafora, da concetto spaziale la brevità diventa concetto temporale. Questa derivazione dei concetti temporali (meno concreti e meno accessibili ai sensi) a partire da quelli spaziali (più concreti e percepibili dai sensi) avviene praticamente in tutte le lingue, come hanno notato ad esempio Lakoff e Johnson (1980), e molti altri. Dunque diciamo che un’attesa è lunga o breve proprio come potremmo dirlo di una strada o di una linea tracciata su un foglio; oppure diciamo che una cosa è avvenuta tempo addietro come se si trovasse dietro di noi nello spazio. Del resto, con la memoria e l’immaginazione (o con la macchina del tempo!) andiamo “avanti” e “indietro” nel tempo. Ci sono culture, come quella Aymara, che concepiscono il passato come situato davanti e il futuro come situato dietro, probabilmente perché il passato lo possiamo conoscere, “vedere”, come ciò che ci sta fisicamente davanti, mentre il futuro ci arriva addosso senza che lo conosciamo, “vediamo”, in anticipo come una cosa che ci raggiungesse da dietro. Ma anche in questi casi la metafora che si attiva sfrutta pur sempre espressioni di senso spaziale per esprimere concetti temporali. Quindi si può dire che breve sia già in qualche misura un aggettivo generico, che non esprime compiutamente la temporalità, perché se si tratti di questa o di spazialità è sempre necessariamente determinato dal sostantivo (ad esempio, pausa o linea). Anche questo ci conferma che breve durata non è affatto una mera ripetizione del concetto di temporalità.
A ulteriore conforto della nostra lettrice, aggiungiamo che la proposta di chi l’ha criticata, cioè di dire bassa durata invece di breve durata, pure se la prima fosse un’espressione usata in italiano, non rimedierebbe al problema che ritiene di segnalare, perché ricorre allo stesso meccanismo di significazione: bassa contiene l’idea primaria − spaziale − di poca estensione in altezza, che può passare a significare poca estensione nel tempo solo per metafora, né più né meno come accade con l’idea di poca estensione in lunghezza espressa da breve. Del resto, in italiano fattori idiomatici hanno fatto sì che basso, partendo dall’idea spaziale di poca altezza, si specializzasse piuttosto per esprimere metaforicamente non la poca durata nel tempo, ma la scarsità in altre dimensioni, come il poco valore numerico (numero, voto basso), il poco costo in denaro (basso prezzo), il poco pregio morale (bassezza, bassa manovalanza), e cose simili, sempre piuttosto lontane dalla sfera temporale.
Nota bibliografica: