Incontri e tornate

Pietro Bembo e Roma, Pietro Bembo a Roma

  • Giuseppe Patota
SOTTOPOSTO A PEER REVIEW - IN ANTEPRIMA

DOI 10.35948/2532-9006/2024.31223

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La strada della cultura, nel Rinascimento italiano, prese una piega particolare, verso la quale conversero tutte le arti: il rapporto fra lingua, letteratura, pittura e scultura fu strettissimo. Gli scrittori, artigiani della lingua, e i grammatici che la regolavano ebbero un dialogo costante con gli artisti, che da parte loro corrisposero: probabilmente, se non ci fossero state le opere degli uni, non ci sarebbero state (o sarebbero state diverse) le opere degli altri. Questo dialogo si praticò in diverse parti d’Italia; ma sicuramente uno dei luoghi in cui fu particolarmente fitto è la città in cui ci troviamo. Siamo a Palazzo Baldassini, dove Pietro Bembo, autore delle Prose nelle quali si ragiona della volgar lingua, la più importante grammatica della storia dell’italiano, trascorse gli ultimi anni della sua vita. Bembo fu amico sia di Michelangelo sia di Raffaello. Si ricordò di loro all’inizio del terzo libro dell’opera che ho appena citato. Qui scrisse che «Michele Agnolo fiorentino et Raphaello da Urbino, l’uno dipintore et scultore et architetto parimente, l’altro et dipintore et architetto altresì», nella città eterna dei papi avevano creato delle meraviglie. Avevano reso la pittura, la scultura e l’architettura della Roma moderna pari alla pittura, alla scultura e all’architettura di Roma antica. Era tempo che prosatori e poeti italiani, imitandoli, facessero altrettanto nel campo della letteratura: rendessero la lingua moderna (quella che lui chiamava la «volgar lingua» e che noi, col senno e la terminologia di poi, chiamiamo a buon diritto l’italiano) pari a quella antica. Quando Raffaello morì, Bembo scrisse per lui un epitaffio latino che, tradotto in italiano, suona pressappoco così: "Qui giace Raffaello: da lui, quando visse, la natura temette d'essere vinta; ora che lui è morto, lei – la natura – teme di morire". L’epitaffio in questione è inciso sulla tomba del grande pittore, che si trova a due passi da qui, in Piazza della Rotonda, all’interno del Pantheon. Chi, uscendo dal Pantheon, guardi davanti a sé, vede un albergo. Oggi si chiama l’Albergo del Sole; quando fu aperto, nel 1467, si chiamava la Locanda del Montone. Sulla sua facciata, in alto a destra rispetto all’ingresso, un’epigrafe simile a quella che abbiamo inaugurato ricorda che poco più di 510 anni fa, fra il marzo e l’aprile del 1513, nella Locanda del Montone soggiornò Ludovico Ariosto.

Anche Ariosto, come Bembo, accomunò in un unico elogio Michelangelo e Raffaello. Lo fece nella seconda ottava del XXXIII canto dell’Orlando furioso, nota come “l’ottava sui pittori”, in cui citò nove pittori del suo tempo, contribuendo, se mai ce ne fosse stato bisogno, alla loro gloria: Leonardo, Andrea Mantegna, Giovanni Bellini, Dosso e Battista Dossi ("i duo Dossi"), Michelangelo, Sebastiano del Piombo, Raffaello e Tiziano, che, aggiunge Ariosto, onora Pieve di Cadore, sua città natale, tanto quanto Sebastiano e Raffaello onorano le loro, Venezia e Urbino.

La lista si apre col nome di Leonardo, ha al centro Michelangelo ed è chiusa, o quasi, da Raffaello, che quando Ariosto era regista di teatro a Ferrara progettò per lui le scene di una commedia. Il nome di Michelangelo, in cui s’incarna l’equivalenza tra scultura e pittura – "a par sculpe e colora" – è scisso in due elementi, "Michel" e "Angel", il secondo dei quali è accompagnato dall’aggettivo "divino":  

… Leonardo, Andrea Mantegna, Gian Bellino,
duo Dossi, e quel ch’a par sculpe e colora,
Michel, più che mortale, Angel divino;
Bastiano, Rafael, Tizian, ch’onora
non men Cador, che quei Venezia e Urbino.

Nell’Orlando Furioso, Ariosto non omaggiò soltanto Michelangelo e Raffaello, ma anche il nostro cardinale. Che l’autore del Furioso considerasse Bembo un’autorità in fatto di lingua è fuor di dubbio. In una lettera del febbraio 1531 gli chiese di aiutarlo a rivedere l’ultima versione dell’opera, che avrebbe pubblicato l’anno dopo; nell’ultimo canto dell’opera (XLVI 15 1-4) lo mette al centro della scena elogiandolo con questi versi:

… là veggo Pietro
Bembo, che ’l puro e dolce idioma nostro,
levato fuor del volgare uso tetro,
quale esser dee, ci ha col suo esempio mostro.

Ariosto coglie perfettamente la dimensione aristocratica delle Prose nelle quali si ragiona della volgar lingua. Ma rimaniamo, ancora per un momento, in Piazza della Rotonda. Il Pantheon che la domina è una delle più importanti testimonianze del mito di Roma antica. Nel Cinquecento questo mito fu celebrato da molti scrittori, ma più di tutti da un fiorentino, Niccolò Machiavelli, che in ogni pagina dei suoi Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio esaltò la grandezza e la virtù politica della Roma repubblicana.

Poco lontano dalla piazza c’è la basilica di Santa Maria sopra Minerva. Bembo è sepolto lì, sotto il pavimento dell’altare, accanto a due papi. Uno dei due è Clemente VII, cioè Giulio de’ Medici, dedicatario delle Prose nelle quali si ragiona della volgar lingua e cugino di Lorenzo (che non è Lorenzo il Magnifico ma suo nipote), che invece è il dedicatario del Principe, scritto da Machiavelli fra il luglio e il dicembre del 1513, qualche mese dopo il soggiorno di Ariosto nella Locanda del Montone. Il cerchio si chiude così.

Pietro Bembo fu prima di tutto un grande esperto di lingue classiche. Aveva studiato il greco a Messina, alla scuola di Costantino Lascaris, il più famoso grecista del tempo; e conosceva così bene il latino che nel 1512 il papa Leone X lo chiamò qui a Roma come Segretario, con l’incarico di scrivere (naturalmente in latino) le lettere e i documenti ufficiali del pontefice.

Comunque, messer Pietro dedicò la maggior parte delle sue energie all’italiano. Nel 1501 e nel 1502 curò per conto del più grande editore dell’epoca – Aldo Manuzio, un quasi romano che si era trasferito a Venezia – due raffinate edizioni del Canzoniere di Petrarca e della Divina Commedia di Dante che ottennero un grande successo di pubblico.

Nella sua attività di curatore, Bembo dovette risolvere centinaia di dubbi grammaticali relativi a forme, parole e costruzioni dell’italiano.
Fin dai primi del Cinquecento, aveva preparato delle schede su questi argomenti, perché si riprometteva di scrivere una grammatica dedicata alla lingua volgare. L’opera gli sembrava necessaria, perché gli intellettuali di tutta Italia erano incerti sul modello di lingua a cui rifarsi e sulle regole da seguire; in più, la donna da lui amata, Maria Savorgnan, gli aveva chiesto di scrivere per lei un libro di regole grammaticali sul volgare, e all’amata è difficile dire di no, come dimostra un passaggio della lettera che Bembo le scrisse il 2 settembre del 1500:

Ho dato principio ad alcune notazioni della lingua, come io vi dissi di voler fare quando mi diceste che io nelle vostre lettere il facessi… Ma quello che avete a fare vi dirò bene io. Amatemi: e siavi la vostra anima e il vostro cuore alquanto caro.

Le noterelle grammaticali di Bembo confluirono nel terzo libro delle sue Prose, pubblicate a Venezia nel 1525, in cui egli sostenne che con i grandi scrittori fiorentini del Trecento il volgare aveva raggiunto un livello di armonia, perfezione e bellezza paragonabile a quello ottenuto da scrittori latini dell'importanza di Virgilio e di Cicerone. Il volgare aveva il suo Virgilio in Petrarca e il suo Cicerone in Boccaccio: agli scrittori italiani spettava il compito di imitare la lingua del primo se intendevano scrivere versi e la lingua del secondo se intendevano scrivere prose.

E Dante? Messer Pietro riconobbe che fu un «grande et magnifico poeta», dotato di una cultura prodigiosa, che però nella Commedia usò forme e soluzioni stilistiche inadatte al verso: accolse parole latine, voci estranee al toscano, arcaismi, termini rari e rozzi, immondi e brutti, sgradevoli; deformò e rovinò parole pure e nobili, altre ne inventò senza obbedire ad alcun criterio. Il poema dantesco viene paragonato dall’aristocraticissimo Bembo a un campo di grano, bellissimo e spazioso, ma infestato dal loglio e dalle erbacce; ancora, viene paragonato a una vite non potata, carica sì di belle uve, ma guastata da foglie, pampini e viticci.

La scelta di Bembo di riportare le lancette dell’orologio della grammatica a circa due secoli prima del suo tempo, attingendo al modello di Petrarca per i versi e di Boccaccio per la prosa, era, per il disegno che lui aveva in mente, del tutto giustificata. Pietro intendeva scrivere – e scrisse – non una grammatica dell’italiano tout court, ma una grammatica dell’italiano letterario da destinare ai letterati; meglio ancora, una grammatica dell’armonia da applicare all’italiano letterario e da destinare ai letterati: il principio ordinatore dell’armonia, assunto dallo studio della filosofia di Marsilio Ficino, nelle Prose è evocato quasi a ogni pagina, da parole che lo richiamano direttamente, come per esempio adornamento, agevole, agevolmente, chiaro, convenevole, convenevolmente, dolce, gentile, grazia, grato, ispedito, leggiadro, leggiadramente, leggiero, mondo, piacevole, piacevolezza, puro, vaghezza, vago e così via.

Quasi tutti i poeti e i prosatori che vennero dopo segui­rono alla lettera queste indicazioni. Così è nato l’italiano, fra Trecento e Cinquecento.
Ho detto "poeti e prosatori" perché quella di Bembo non è una grammatica come quelle che noi siamo abituati a consultare. I suoi destinatari non sono gli studenti, ma gli studiosi e i letterati: è stata ed è una grammatica di difficile lettura e comprensione non soltanto per i lettori di oggi, ma anche per quelli di ieri, per preparati e competenti che fossero. Gli argomenti del libro sono espressi in una lingua elegante e complessa. Con tutto ciò, nei secoli successivi, le norme bembiane vennero applicate prima all’italiano insegnato dai precettori ai figli dei nobili o dai professori nelle classi superiori dei collegi e dei seminari, e poi, a partire dal 1861, all’italiano insegnato nelle scuole del Regno: un italiano che, per varie ragioni di ordine storico e culturale,  continuò a identificarsi a lungo con quello letterario.

Le regole prescritte da Bembo finirono con l’avere una destinazione diversa da quella per cui erano state pensate, e conseguentemente furono decontestualizzate e banalizzate. Questo processo è alla base di obblighi e divieti che potevano avere un senso per prosatori e poeti, ma che erano incomprensibili nell’insegnamento scolastico dell’italiano, come per esempio l’indicazione che i pronomi personali lui, lei e loro non debbano mai essere usati nella funzione di soggetto (per la quale sarebbero disponibili solo le forme egli, ella o essa, essi ed esse), indicazione sopravvissuta fino ai nostri giorni o quasi, nata da un modello che Bembo aveva legittimamente ricavato dall’osservazione delle abitudini linguistiche di Petrarca e di Boccaccio e aveva destinato agli scrittori.

Quando queste regole confluirono nella pratica didattica, contribuirono, insieme ad altri fattori, a definire non più il modello supremo di lingua letteraria in prosa e in versi, ma una sua versione banalizzata: il cosiddetto “italiano scolastico”, che ha a lungo obbligato gli studenti a esprimersi come libri stampati. L’indicazione che prescrive l’uso di egli e proscrive quello di lui, che nel progetto raffinato di Bembo aveva un senso e una collocazione evidenti, ha finito così per essere equiparata a quella, priva di senso, che nell’italiano insegnato e praticato nella scuola ha prescritto (e forse tuttora prescrive) l’uso di volto, inquietarsi, eseguire, recarsi e ha proscritto (e forse proscrive) l’uso di faccia, arrabbiarsi, fare, andare.

Forse, si può andare anche oltre: la "caccia alle ripetizioni", la censura ossessiva della ripetizione della stessa parola o dello stesso gruppo di parole in sequenze contigue, che a scuola spinge gli studenti a ricorrere al vocabolario dei sinonimi più spesso che a quello generale (con conseguenze a volte tragicomiche) sembra un povero relitto di quella ricerca della variazione esaltata da Bembo, sensata in un testo poetico ispirato a Petrarca, insensata in un testo prodotto a scuola.

Curiosa sorte, insomma, quella di Bembo. Se, oggi, il fiorentino del Trecento è la lingua nazionale degli italiani, lo dobbiamo, in buona parte, a lui. Ma a lui – o meglio, a un’estensione indebita delle sue indicazioni a varietà dell’italiano non coincidenti con quello letterario, che era il vero oggetto del suo interesse – dobbiamo anche il fatto che l’italiano insegnato a scuola sia stato a lungo una lingua scritta piuttosto che parlata, chiusa alle innovazioni dell’uso e più vicina al mondo iperuranio della letteratura che a quello concreto della comunicazione quotidiana parlata e scritta.

È un fatto, però, che nel momento più drammatico della crisi spirituale, politica e militare che investì l’Italia nel corso del Cinquecento, in assenza di quell’unità politica che, in Francia, aveva reso lingua dello Stato il dialetto della capitale Parigi; in assenza di quella coesione socioculturale che, in Germania, stava rendendo lingua comune dei tedeschi quella usata da Lutero nella sua traduzione della Bibbia, la proposta classicista di Bembo rese lingua comune degli italiani quella usata da Boccaccio e da Petrarca nelle loro opere letterarie. Grazie alla sua "strategia di soft power" l’Italia, nonostante la presenza armata della Francia prima e della Spagna poi, si rivelò ben altro che un’espressione geografica: prima di diventare una repubblica democratica, fondata sul lavoro, fu una repubblica aristocratica, fondata sull’italiano. Di una tale repubblica letteraria, Roma fu senz’altro una delle capitali.