DOI 10.35948/2532-9006/2024.31222
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Permettete che rinnovi il ringraziamento al Presidente Paolo D’Achille per aver portato a termine in così breve tempo un’idea che caldeggiavamo da anni, ma che non si riusciva a condurre alla conclusione: la collocazione della lapide in memoria di Pietro Bembo, qui a Roma, nel palazzo Baldassini in via delle Coppelle. Non lo dico per piaggeria o per un gioco delle parti. Semmai esprimo sincera ammirazione per chi ha saputo individuare la strada giusta, dopo i tentativi infruttuosi che quasi mi avevano convinto dell’impossibilità di collocare davvero questa targa. Confesso che avevo ormai rinunciato al progetto. Lo consideravo una di quelle occasioni perdute, non certo l’unica idea smarrita per strada durante la mia presidenza. Mi ero rassegnato. Invece improvvisamente, proprio subito dopo la fine del mio mandato, le cose si sono mosse in fretta, e oggi, nella data che avevamo scelto, il 18 gennaio, in coincidenza con il giorno anniversario della morte del cardinale-letterato, abbiamo collocato la targa: non proprio sulla facciata del palazzo, come avrei voluto, dove campeggia la più grande delle due targhe poste in ricordo di Garibaldi. Non sulla pubblica via, dunque, ma in posizione un po’ più riposta, nell’ingresso al cortile interno, e comunque pur sempre in faccia all’altra lapide che ricorda Garibaldi. Due a uno per Garibaldi, dunque. Il Risorgimento la vince sul Rinascimento, ma ora anche Bembo ha un marmo che rammenta al passante la sua dimora tra queste mura, e nella lapide è menzionato Monsignor Della Casa, che, a quanto abbiamo sentito nei discorsi ufficiali delle autorità, difficilmente avrà una targa tutta sua, visto che gli si rimprovera la parte svolta per il Catalogo dei libri proibiti redatto a Venezia nel maggio del 1549, e in genere non viene apprezzata la sua attività inquisitoriale. E come dare torto a chi la pensa così? Ma nel maggio del 1549 il nostro Cardinale Bembo era già morto, mentre si sviluppavano le conseguenze di una stagione della storia europea ben diversa da quella che Bembo stesso aveva potuto vivere, in una Chiesa ancora assai disinvolta, benché ormai avviata alla riforma tridentina.
Bembo morì il 18 gennaio 1547 in questo palazzo in cui ora ci troviamo. Sulla data, la parola definitiva è stata detta dal Mazzucchelli nel XVIII secolo (cfr. la nota 146 nella vita di Bembo del Mazzucchelli, a p. 749 degli Scrittori d’Italia, vol. II, parte II, Brescia, 1760), dopo che altri avevano indicato il 17 e il 20, e un errore (ricavato per influenza di un libro su palazzo Baldassini di cui parleremo più avanti) era sfuggito anche a noi in una bozza della lapide, per fortuna prontamente corretta dalla dottoressa Mancinelli della Soprintendenza Capitolina, a cui va il nostro ringraziamento. La data del 18, segnata alla latina sul marmo che ricopre la sua sepoltura ("obiit XV Kal Feb.", cioè 15 giorni a partire dal 1° febbraio), è accolta del resto da tutti gli studiosi moderni. Sulla causa della morte si è discusso, perché i biografi hanno trasmesso notizie contraddittorie: il Beccadelli ha parlato di una "percossa che dette del capo in una porta", da cui sarebbe derivata una febbre; il Della Casa (che peraltro era lontano da Roma) ha parlato di una caduta da cavallo: "cum equo forte, veheretur? paulum in ostio ad parietem latus offendit". Ad alcuni è sembrato strano che il più che settantenne cardinale se ne andasse a cavallo, già disturbato com’era da un gonfiore alle gambe. L’informatissimo Mazzucchelli abbraccia la tesi che attribuisce a informazioni di Carlo Gualteruzzi: Bembo, andato in una vigna fuori di Roma, volendo rientrare in città a cavallo, si trovò di fronte una porta più bassa di quanto fosse necessario per entrarvi comodamente, e quindi andò a battere in un fianco. "Essendo vecchio ormai, cascò in una febbricella, la quale a poco a poco gravandolo, all’ultimo lo atterrò" (così riporta la nota 141 nella già citata vita di Bembo del Mazzucchelli, a p. 748).
Bembo abitava in questo palazzo dal 6 ottobre del 1544. Il Della Casa aveva affittato per sé questa bella dimora nel cuore di Roma, ma nell’agosto del 1544 aveva ricevuto la nomina a nunzio apostolico a Venezia, la città natale di Bembo stesso, e aveva dovuto partire per la città lagunare. È ben nota la lettera inviata da Bembo, da Roma, a Gerolamo Quirini, all’indomani della partenza del Della Casa per Venezia (3 agosto 1544):
Nostro Sig. [il papa Paolo III] manda a Venezia per Nonzio suo Mons. della Casa, il quale è tanto amico mio, quanto niuno altro uomo, che io in Roma abbia, dal nostro M. Carlo [Gualteruzzi] in fuori. E che egli mio amico sia, ve ne potete avveder voi costì assai tosto, ma incominciate ora da questo, che avendo egli una bellissima casa qui per sua stanzia, della quale paga intorno a scudi trecento l’anno d'affitto, a me la lascia cortesemente senza volere che io ne paghi un picciolo, acciò io l’abiti fino al suo ritorno, e lascialami con molti fornimenti, e con un bellissimo camerino acconcio de’ suoi panni molto ricchi, e molto belli, e con un letto di velluto, e d’alquante statue antiche, ed altre belle pitture, tra le quali il ritratto della nostra Madonna Lisabetta [Quirini], che sua Signoria ha tolto a Messer Carlo. Della quale stanzia penso dovere avere una gran comodità. Questa casa è la più bella e meglio fatta che sia in Roma. Ed avea esso Monsignor infiniti, che l’avrebbon tolta con pagargli l’affitto di molta grazia, ed ha più tosto voluto darla a me senza che io la richiedessi. Mi dà ancora e lascia per questo medesimo tempo una bellissima vigna poco poco fuori della più bella porta di Roma, che è quella del Popolo, senza che io abbia ad avere di lei spesa alcuna. Vedete se io gliene debbo aver obbligo.
La vigna fuori porta è verosimilmente la stessa che fu poi causa indiretta dell’incidente mortale. Quanto al ritratto di cui qui si parla, che il Della Casa si era fatto dare dal Gualteruzzi e che era esposto nella dimora di via delle Coppelle, bisogna ricordare che Bembo era amico di vecchia data dei Quirini veneziani. Corrispondeva con Gerolamo Quirini, e la sorella di costui, Lisabetta Quirini è una presenza importante nel suo epistolario, e l’ultimo dei suoi amori, fino al suo trasferimento a Roma nel 1539. Negli anni padovani, il rapporto con Elisabetta aveva assunto – come scrive Tiziana Tebani nella voce Quirini, Elisabetta del DBI (vol. 86, 2016) – "un ruolo centrale nella vita di Bembo: da Padova iniziò infatti a recarsi con più frequenza a Venezia, rimanendovi per lunghi mesi, intrecciando con la donna un’intima relazione fatta di doni reciproci e confidenze. Bembo le dedicò versi e soprattutto chiese a Tiziano di ritrarla: un ritratto che suscitò l’ammirazione di Pietro Aretino, il quale, spronato dal pittore, compose un sonetto alla dama (Tiziano, L’Epistolario, a cura di L. Puppi, 2012, n. 69) […]. Negli anni seguenti l’amicizia tra Pietro ed Elisabetta, anche per il definitivo allontanamento del letterato divenuto cardinale, perdute le connotazioni amorose, rimase un riferimento importante, tanto da convincere il letterato, seguendo il suggerimento di Elisabetta che gli aveva indicato l’opportunità di abbracciare il volgare, a fare tradurre la sua Historia veneta, come le comunicava nella lettera del febbraio del 1544 (P. Bembo, Lettere, a cura di E. Travi, IV, 1993, n. 2413 [lettera del 7 febbraio 1544 da Gubbio])". Grazie a Bembo, anche il Della Casa, giunto a Venezia, entrò in rapporto con i Quirini. Seguiamo ancora l’esposizione di Tiziana Tebani: «Un’altra figura entrò in quello stesso anno nella vita di Elisabetta: Giovanni Della Casa, che giunse a Venezia in veste di nunzio apostolico nell’agosto del 1544. Egli era già a conoscenza dei meriti e della bellezza di Elisabetta, tanto da essersi fatto prestare da Gualteruzzi il ritratto che Tiziano aveva fatto alla donna e che Elisabetta aveva donato al caro amico di Bembo: Della Casa lo aveva inserito nel camerino della sua dimora romana dove Bembo lo ammirava in qualità di ospite. […] La relazione di Della Casa con Elisabetta costituì una sorta di legame con Bembo, esplicitato attraverso la corrispondenza con il comune amico Gualteruzzi, ma anche dalle lettere del cardinale a Girolamo Quirini. I due carteggi trattano infatti sovente della dama, chiamata “Magnifica”». Purtroppo non possiamo ammirare l’originale del ritratto di cui qui si parla, perché è perduto. Se ne conservano solo alcune copie, ma possiamo almeno essere certi che Bembo si trovava benissimo nella nuova dimora, come testimonia un’altra lettera del 27 febbraio 1546, in cui, ancora scrivendo al Quirini, Bembo spiega di non aver mai pensato di prendere una nuova casa, anche se aveva firmato un contratto, ma non per sé, bensì per l’amico Gualteruzzi, in una sorta di fideiussione o prestando il proprio nome come garanzia: "Io non ho presa la casa di Mons. Di Cipro per me, ma per M. Carlo nostro, il qual avendo fatto M. Goro suo figliuolo Abbreviator de parco majori, avea mestiero d’una casa tale, quale è quella. Hovvi io interposto il mio nome perciò, che altramente non si saria potuta avere. Né arei mai pensato di lasciar la casa di Mons. Legato, se prima non gli avessi ciò fatto intendere, avendolami esso data così cortesemente, come fatto ha, e come mi sovviene avervi altra volta scritto. Dunque non pensi S. Sig. che io sia per lasciarla, se non quando esso a Roma tornerà".
Vorrei ora raccontare brevemente come è nata la nostra idea di collocare una targa commemorativa in questa casa romana. Valdo Spini, presidente dell’Associazione degli istituti di cultura italiani (AICI), il 20 aprile 2017 riunì l’assemblea dell’Associazione proprio qui a palazzo Baldassini, dove ha sede l’Istituto Sturzo. L’Accademia della Crusca fa parte dell’AICI, e dunque mi recai a Roma per partecipare, in rappresentanza della nostra Accademia, che in quel momento mi trovavo a presiedere. Era la prima volta che entravo nel palazzo Baldassini, di cui fino ad allora non sapevo nulla. Il fascino di questa dimora fece subito presa, rafforzato dalla lettura di un testo che mi fu offerto dagli amici dell’Istituto Sturzo, il volume sul Palazzo Baldassini di Marina Cogotti e Laura Gigli pubblicato nel 1995 dall’Erma di Bretschneider. Dal libro, non solo apprendevo che il palazzo era stato abitato dal Della Casa per dieci anni, dal 1533 al 1544, non solo potevo leggere estratti delle lettere di Carlo Gualteruzzi al Della Casa in cui era descritta la vita condotta dal Bembo, la sua preferenza per la sala "piccola" piuttosto che per la "grande" (cioè la predilezione per la sala con le pitture di Polidoro da Caravaggio), e soprattutto la sua simpatia per la "loggia", dove Bembo stava "il giorno a studiare et scrivere et a dare udienza" (Palazzo Baldassini cit., p. 46). Nel Palazzo Baldassini abitò anche un altro letterato del nostro Rinascimento con interessi linguistici non certo banali, cioè Sperone Speroni, che fu qui dal 1574, e ricevette in questo luogo le visite di Torquato Tasso (Id., p. 47). La mia volontà di celebrare Bembo con una targa era rafforzata anche dalla vista delle due lapidi poste in memoria del soggiorno di Garibaldi. Mi costringevano a riflettere sul fatto che il soggiorno di Bembo era stato certamente più lungo, anche se in quest’ultima dimora romana il letterato principe del Rinascimento non aveva lavorato alle opere che lo rendono per noi celebre e insostituibile. La stagione delle edizioni in volgare presso i Manuzio è infatti precedente, come precedente è la stagione della poesia e degli Asolani, e precedente è anche la stesura delle Prose della volgar lingua, e precedente è il lavoro per la storia di Venezia in latino. Verosimilmente, però, la dimora di via delle Coppelle si lega ancora alla versione in volgare di quella storia della Serenissima, che, come abbiamo visto fu sollecitata da Lisabetta Quirini nel febbraio 1544, cioè non molto tempo prima che Della Casa liberasse a vantaggio dell’amico la dimora di via delle Coppelle. Comunque l’epistolario del Della Casa testimonia che gli interessi letterari non erano spenti, e che proprio in questi anni correva uno scambio di poesie in volgare italiano e un confronto poetico tra il Della Casa e il Bembo. Il periodo dal 1544 al 1547 è insomma quello della stagione finale del cardinalato, segnato da speranze piuttosto velleitarie di diventare addirittura papa, speranze coltivate più dai figli, in primis dall’interessato Ludovico, e poco credute dal padre Pietro, che infatti nel 1544 scherzava sulla convinzione manifestata dai figli, ironizzando sul fatto "che voi crediate, ch’io creda d’essere" destinatario di un tale destino. Dichiarava di prestar fede piuttosto a una monaca di Zara tenuta in concetto di santità, tale "suor Franceschina", che aveva raffreddato le speranze, dicendo "ch’io son tanto lontano da quel ch’io credo di me come è lontano il cielo dalla terra".
Concepita l’idea della targa a Bembo durante la riunione AICI del 20 aprile 2017, già il 27 dello stesso mese scrivevo al presidente dell’Istituto Sturzo prof. Nicola Antonetti per coinvolgerlo nell’iniziativa:
Illustre Presidente Antonetti,
sono il presidente dell'Accademia della Crusca. Sono stato ospite dell'Istituto Sturzo il giorno 20 aprile, per l'assemblea dell'AICI convocata da Valdo Spini.
In quell'occasione, bella e importante anche per lo splendido luogo in cui ci trovavamo, sono stato incaricato della lezione che si è svolta nel pomeriggio a palazzo Giustiniani. La mia relazione si è conclusa con la proposta di apporre una targa in ricordo di Pietro Bembo, morto nel 1547 nel palazzo Baldassini, dove abitò a lungo.
Oggi il direttivo dell'Accademia della Crusca ha deliberato quanto segue:
Lapide ricordo per Pietro Bembo. Il Presidente Marazzini propone che sia inoltrata all’Istituto Luigi Sturzo di Roma la proposta di una lapide da porre nel palazzo di Via delle Coppelle a Roma, oggi sede dell’Istituto. In quel palazzo, infatti, visse lungamente e morì Pietro Bembo. Attualmente due lapidi ricordano il soggiorno di Garibaldi in quell’edificio, ma nulla ricorda la presenza del grande letterato, regolatore della lingua italiana nel Cinquecento, lì ospitato da un altro letterato, Giovanni Della Casa. Il Presidente viene dunque incaricato di prendere i contatti con il Centro Studi Sturzo, che ha sede nell’edificio, per concordare - se possibile - le modalità di collocazione di una lapide commemorativa.
Prima di farle avere la proposta ufficiale dell'Accademia, mi sono permesso di preavvertirla, sperando che la nostra iniziativa trovi il suo consenso.
La ringrazio e attendo fiducioso il suo parere, per poi proseguire nell'operazione.
Mi creda suo
Claudio Marazzini
Il 3 maggio ricevevo la cortese riposta. Il professor Antonetti si dichiarava pronto a portare la mia richiesta al Consiglio di amministrazione del suo ente, appena fosse formalizzata dall’Accademia della Crusca, e lo stesso 3 maggio del 2017 invitavo la segreteria della Crusca a preparare la richiesta ufficiale per il Comune di Roma. In due incontri informali al Quirinale, in occasione degli auguri natalizi del Presidente della Repubblica, ebbi occasione di avvicinare la sindaca Virginia Raggi, esponendole il progetto della lapide. Si dichiarò a sua volta favorevole all’iniziativa, facendone annotare al volo gli estremi da un funzionario che la accompagnava. Il 21 dicembre del 2019 era pronta una bozza del testo della targa. Il protocollo della lettera spedita a Roma alla Segreteria della Sindaca porta la data del 23 dicembre 2019 (n. 3017/2019). In realtà, però, la pratica non fece mai progressi, nonostante l’apparente interesse espresso da Virginia Raggi a voce. Tutto rimase fermo, come già ho detto, fino a quando ebbe inizio il mandato di presidente della Crusca di Paolo D’Achille, nel 2023. Nel frattempo, Virginia Raggi non era più sindaca di Roma, l’amministrazione aveva cambiato colore politico. Per fortuna la nuova amministrazione si è dimostrata senz’altro più solerte della precedente, e siamo oggi arrivati alla conclusione felice della vicenda.
Posso dire che il testo della lapide, così come oggi è inciso nel marmo che abbiamo inaugurato, è frutto di un lavoro collettivo, come sempre avviene nella nostra accademia, secondo una tradizione antica, che risale al modo con cui fu realizzato il primo vocabolario. Nel testo che inizialmente avevo sottoposto ai colleghi risuonavano alcune parole di tono un po’ retorico e altisonante che sono state via via eliminate. Il palazzo veniva definito "sacro alle lettere d’Italia", Bembo veniva definito "il Principe dei grammatici". Che il palazzo abbia davvero un significato nella storia delle nostre lettere, mi pare innegabile, dopo che abbiamo fatto i nomi di Della Casa, di Bembo, dello Speroni, del Tasso. Che Bembo sia il maggiore dei grammatici italiani, penso che sia riconosciuto da tutti. Tuttavia la targa definitiva ha una maggior sobrietà che la rende più breve e più misurata: la Crusca deve essere attenta alla qualità delle proprie "scritture esposte", per usare il tecnicismo con cui i linguisti si riferiscono a questo tipo di testi.
In attesa che la memoria di Bembo sia celebrata anche a Venezia, con un’altra targa da apporre su palazzo Bembo sul Canal Grande, il luogo in cui ci troviamo porta a riflettere, come già abbiamo detto, alla conclusione della parabola terrena del grammatico-cardinale. Dopo la caduta da cavallo, Bembo si rese conto della propria fine imminente. Il cardinal Polo lo venne a visitare il giorno prima della morte, "non senza consolazione, vedendolo apparecchiato, e disposto a questo transito con animo veramente pio, e cristiano" (il passo della lettera, diretta al cardinal Cervini, futuro papa Marcello II, è ripotata dal Mazzucchelli, op. cit., a p. 748 nota 142). Bembo lasciava erede il figliolo Torquato, avuto dalla Morosina, e aveva nominato commissari esecutori delle sue ultime volontà l’amico Carlo Gualteruzzi, il suo segretario Flaminio Tomarozzo (che gli premorì nel 1546), e Girolamo di Smerio Quirini, a cui andava una somma di denaro, che però il Quirini lasciò nelle mani di Torquato. Pietro Bembo venne seppellito non lontano da palazzo Baldassini, in un luogo di cui Carlo Dionisotti, nella bellissima biografia composta per il DBI, rileva l’altissimo valore simbolico, perché la tomba in Santa Maria sopra Minerva, posta dietro l’altar maggiore, sta tra i monumenti funebri di due papi che avevano contato molto nella sua vita, Leone X (di cui era stato segretario) e Clemente VII (il dedicatario delle Prose della volgar lingua). La lapide pavimentale porta la seguente iscrizione, senza riferimenti di sorta al merito letterario (niente "principe dei grammatici", nemmeno in questo caso), ma tutta si concentra sul vertice raggiunto nella carriera ecclesiastica:
D O MPetro Bembo patritio venetoob eius singulares virtutesa Paulo III P. M.in sacrum collegium cooptatoTorquatus Bembus P[osuit]Obiit XV Kal. Feb. MDXLVIIVixit an. LXXVI men. VII D. XXVIII
Ben diversa la reazione del Della Casa, che il 22 gennaio 1547, avvisato del grave stato di salute di Bembo, ma ancora ignaro della sua morte, scriveva al Gualteruzzi raccomandando la massima cura della produzione letteraria del cardinale, più importante dei beni materiali: "...sarà offitio vostro di haver cura delle sue compositioni non meno, anzi più, che delle gioie et degli argenti". E infatti di lì a poco Della Casa sarà impegnato a destreggiarsi e far da paciere nella contesa tra Girolamo Quirini e Carlo Gualteruzzi per la scelta del luogo di stampa della Historia veneta, che il Quirini voleva fosse Venezia, il Gualteruzzi voleva fosse Roma, e poi anche per la questione delle eventuali correzioni da apportare al testo in volgare. La disputa sul luogo di stampa, come sappiamo, arrivò persino al Consiglio dei Dieci e si trasformò in un caso politico. Intanto, il 22 marzo 1547 il Della Casa aveva scritto al Gualteruzzi per comunicargli il desiderio di Elisabetta Quirini che la versione in volgare della Historia veneta di Bembo le venisse dedicata, come poi in effetti avverrà, e la richiesta della Quirini si estenderà poi anche a richiedere la dedica delle Lettere di Bembo (e infatti il IV volume è dedicato a lei). Il testo in volgare della Historia sarà stampato a Venezia nel 1552 con dedica alla Quirini firmata dal tipografo Gualtero Scotto, dove si rammenta che il suggerimento alla traduzione in italiano, da realizzare da parte dello stesso autore del testo latino per evitare i danni dei traduttori mestieranti, era venuto proprio dalla dama veneziana. Il merito era suo, perché "per opera di lei [Lisabetta Quirini], la nostra lingua, così illustre, & così puro, & così leggiadro volume partorito ha". Non è certo la prima volta che un’opera di Bembo deve qualche cosa a una donna. Basti pensare agli Asolani dedicati a Lucrezia Borgia e alla prima idea di una grammatica italiana concepita da Bembo su suggerimento della Savorgnan: il 2 settembre 1500 Bembo si dichiara disposto a dare i suggerimenti grammaticali richiesti dall’amata, ma senza deturpare le sue lettere: "Ho dato principio ad alcune notazioni della lingua, come io vi dissi di voler fare, quando mi diceste, che io nelle vostre lettere il facessi. Perché non aspettate che io vostre lettere offenda con segno alcuno, salvo se le offendessi baciandole". Posso aggiungere che una particolare propensione verso Bembo mi è sempre stata suggerita da questa sua profonda gentilezza verso le donne amate: la Savorgnan, poi il pericoloso rapporto con Lucrezia Borgia duchessa di Ferrara, e poi la popolana Morosina, incontrata a Roma sedicenne, che divenne madre dei suoi figli, Lucilio (morto presto, nel 1532), Elena e Torquato, tutti riconosciuti dal padre e da lui amati e allevati. La Morosina morì nel 1535, dopo un lungo rapporto analogo al matrimonio.
Pensando a Bembo, sento che è l’uomo del passaggio tra due stagioni diverse della cultura occidentale, ed un autore di rango europeo, perché tale è stato il petrarchismo, nato sotto l’insegna del classicismo bembiano. È un intellettuale (lo chiamerò così, con termine gramsciano: e chi se lo merita di più, considerando l’interpretazione gramsciana della ‘questione della lingua’, intesa come questione dell’egemonia?) che si è sottratto a qualunque forma di provincialismo e localismo, come mostra la varietà delle città che l’hanno ospitato: la nativa Venezia; Padova, dove stava la sua casa-museo (con le collezioni d’arte, ricostruite, per quanto possibile, in una mostra di alcuni anni fa); la Sicilia: Messina, dove studiò il greco, trovando il tempo per salire sull’Etna, collaborando non meno del Petrarca del Monte Ventoso alla nascita di una ‘letteratura alpinistica’ in raffinato latino; Urbino la splendida, specchio del Rinascimento italiano; la Ferrara di Lucrezia Borgia; Gubbio, sede del suo vescovato; Roma, la città della corte papale. Mi sento vicino a Bembo anche in quanto piemontese, e non perché nei tanti luoghi della sua vita compaia il Piemonte, che certo è del tutto assente, ma perché alcuni degli studi più importanti a lui dedicati ci portano proprio alla scuola piemontese di Vittorio Cian, autore di un libro ancora oggi fondamentale, Un decennio della vita di Pietro Bembo (1521-1531), pubblicato nel 1885, a cui seguirono i “Motti” inediti e sconosciuti di M. Pietro Bembo pubblicati nel 1888 e il libro del 1901 dedicato a Cola Bruno messinese e le sue relazioni con Pietro Bembo (1480 c. – 1542). Grazie al magistero di Cian, si svilupparono gli studi bembiani di Carlo Dionisotti, con l’edizione delle Opere, ancora oggi autorevole, e con la raccolta del Carteggio d’amore (1500-1501) del 1950, con le lettere inedite di Maria Savorgnan, ricuperate nella Biblioteca Ambrosiana di Milano da Monsignor Luigi Gramatica poco prima che finissero al macero, e poi finite alla Biblioteca vaticana e segnalate a Vittorio Cian, che le destinò al Dionisotti. Il 5 gennaio del 1950 Cian, fresco della lettura del Carteggio d’amore, pieno di entusiasmo per quel lavoro dell’allievo Dionisotti, univa alle lodi un commento complessivo sulla figura di Bembo, un bilancio su cui credo valga la pena di meditare (è la lettera 294 del Carteggio Vittorio Cian – Dionisotti, pubblicato nel 2016 da Olschki in una collana dell’Accademia delle scienze di Torino):
[…] la lettura attenta di questo loro carteggio [il carteggio Savorgnan – Bembo], l’impressione avuta di questa avventura del nobile veneziano che con essa preludeva ai suoi Asolani e alle altre consimili avventure, e l’accostare queste sue vicende a quella successione della sua lunga vita, alle tante e tanto diverse altre prove di lui date in campi tanto diversi, non escluso il suo Methodus studiorum, né la sua spedizione giovanile a Messina per apprendere il greco e l’ascensione all’Etna ecc.. tutto questo me lo fa apparire d’un calibro assai maggiore di quanto comunemente si creda, dotato di una versatilità eccezionale, meritevole, in una parola, d’una considerazione ben diversa da quella corrente.
Insomma, grazie al cielo la lapide è stata oggi collocata al suo posto, dove resterà nei secoli, rivolta non tanto ai contemporanei, affannati nella continua ricerca di una ricaduta mediatica degli eventi più effimeri, ma ai posteri, come Bembo avrebbe voluto, perché, come si legge nelle Prose, "non debbono gli scrittori por cura di piacere alle genti solamente che sono in vita quando essi scrivono, […] ma a quelle ancora, e per aventura molto più, che sono a vivere dopo loro: con ciò sia cosa che ciascuno la eternità alle sue fatiche più ama che un brieve tempo". Il messaggio è quanto di più lontano si possa immaginare dalle misere ansie di immediato successo care al nostro tempo, ma esprime il significato più profondo della concezione classica del nostro Rinascimento.