DOI 10.35948/2532-9006/2024.31220
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Rivolgo anzitutto un saluto a tutte le persone presenti. Ringrazio chi ha parlato prima di me: la dottoressa Giulia Silvia Ghia, assessora del I Municipio di Roma Capitale, e il professor Nicola Antonetti, presidente dell’Istituto Luigi Sturzo, che è un po’ il padrone di casa, e ringrazio soprattutto chi scoprirà la lapide, il dottor Miguel Gotor, assessore alla Cultura di Roma Capitale (nonché la sua équipe, tra cui le dottoresse Laura Asor Rosa e Maria Vittoria Mancinelli, che hanno seguito l’iter, insieme alla dottoressa Delia Ragionieri, segretaria amministrativa dell’Accademia della Crusca); un grazie anche alla dottoressa Adriana Capriotti, che ha il ruolo di Direttore Coordinatore presso il Ministero per i beni e le attività culturali: sono loro, infatti, che hanno consentito all’Accademia della Crusca di realizzare questa iniziativa, che era stata promossa e avviata ufficialmente nel dicembre 2019 dal presidente onorario Claudio Marazzini e che allora purtroppo non aveva avuto seguito.
Vi confesso che sono molto emozionato nel parlare in presenza di tante persone autorevoli e anche di tante persone a me care, tra cui mi limito a fare il nome del mio maestro, il presidente onorario dell’Accademia Francesco Sabatini. Le ragioni della mia emozione, ma dovrei piuttosto dire commozione, e al tempo stesso del mio compiacimento, sono molte. Stiamo infatti inaugurando un’epigrafe dedicata a Pietro Bembo, una figura di fondamentale importanza nella storia della lingua, della letteratura e della cultura italiana. La inauguriamo a Roma, nel palazzo in cui Bembo morì, in questo stesso giorno, 18 gennaio, nel 1547 (quasi 5 secoli fa, quindi) e a poca distanza dalla sua tomba, che è nella chiesa di Santa Maria sopra Minerva. Con questa lapide l’Accademia della Crusca sigla forse la sua prima presenza “ufficiale” a Roma, invitando i romani e i turisti di passaggio a ricordare questo grandissimo letterato, che ebbe i natali a Venezia, ma che a Roma, da cardinale, trascorse l’ultima parte della propria vita. Di lui parleremo un po’ più diffusamente nell’incontro che si svolgerà subito dopo la cerimonia, nella Sala Perin del Vaga che l’Istituto Luigi Sturzo ci ha gentilmente messo a disposizione, con il presidente emerito Claudio Marazzini, che ho già ricordato quale primo motore dell’iniziativa, e con l’accademico Giuseppe Patota, che al Bembo ha dedicato di recente alcuni suoi studi importanti, definendolo “la quarta corona” della storia linguistica e letteraria italiana dopo Dante, Petrarca e Boccaccio. Già nel comunicato stampa dell’Accademia si è fatto cenno ai lasciti del Bembo per quanto riguarda l’italiano e lo studio del latino. Aggiungerei anche quelli che si legano alla sua collaborazione, nei primi anni del Cinquecento, con il tipografo Aldo Manuzio, nato nel Lazio, ma attivo a Venezia, che hanno avuto una fortuna europea nella storia della scrittura, come la diffusione dell’apostrofo, un segno paragrafematico ripreso dalla lingua greca.
Prima di concludere questo mio breve intervento, desidero ricordare che nell’epigrafe si cita anche un altro grande letterato, monsignor Giovanni Della Casa, l’autore del Galateo, che mise a disposizione dell’amico Bembo quella che era allora la sua dimora. E vorrei leggere proprio un sonetto di Della Casa, scritto come risposta a un altro di Benedetto Varchi, che indicava appunto Della Casa come “erede poetico” del Bembo defunto, per schermirsi dall’elogio e celebrare invece sia lo stesso Varchi sia soprattutto il grande scomparso:
Varchi, Ippocrène il nobil cigno alberga / che ’n Adria mise le sue eterne piume, / a la cui fama, al cui chiaro volume / non fia che ’l tempo mai tenebre asperga; / ma io palustre augel che poco s’erga / su l’ale sembro, o luce inferma e lume / ch’a leve aura vacille e si consume, / né pò lauro innestar caduca verga / d’ignobil selva: dunque i versi ond’io / dolci di me, ma false udì’ novelle / amor dettovvi e non giudicio, e poi / la mia casetta umìl chiusa è d’oblio; / quanto dianzi perdeo Venezia e noi / Apollo in voi restauri e rinovelle.
I versi non sono di facile comprensione: percepiamo la distanza anche linguistica che ci separa dai personaggi che, in varia misura, stiamo celebrando, distanza che nella lingua della poesia “alta” è ancora maggiore che non in quella della prosa; certo poi il Della Casa non era un poeta eccelso. Ma le lodi del Bembo, il “nobil cigno” nato in Adria, sono ben meritate perché è anche grazie a lui e alle sue Prose, se l’italiano ha trovato, nella letteratura prima ancora che nell’uso comune, quell’unità linguistica che precedette quella politica (a cui rimanda l’epigrafe dedicata a Garibaldi, a cui quella per il Bembo si troverà di fronte) e che rappresenta tuttora un nostro patrimonio nazionale. Un patrimonio che l’Accademia della Crusca ha contribuito e contribuirà ancora, per quello che può, a preservare.