DOI 10.35948/2532-9006/2021.8543
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Ci sono arrivati numerosi quesiti sul termine viciniorità, documentato in vari decreti ministeriali (in particolare dell’Istruzione). Alcuni vertono sul significato, che non risulta chiaro, altri sulla sua legittimità (vista l’assenza di registrazioni lessicografiche), altri ancora su quale sia la forma corretta tra quelle che circolano, che si diversificano nel segmento finale: ‑orità, ‑iorità o ‑iorietà.
Le domande su viciniorità o viciniorietà o vicinorietà, presunto neologismo (cfr. Adamo-Della Valle, Neologismi quotidiani, 2003, con datazione dalla “Stampa” del 2001), dimostrano che questo sostantivo sta diffondendosi nel linguaggio burocratico (specialmente del pubblico impiego). È l’erede dell’aggettivo viciniore (latinismo dal comparativo di vicinus: più vicino), che grazie al GDLI possiamo datare ad almeno il 1673 (Giambattista De Luca, Il dottor volgare): indietro quanto basta perché abbia avuto il tempo di produrre il suo bravo sostantivo astratto di cui la lingua burocratica è sempre ghiotta e di cui oggi ci chiedono conto i nostri lettori.
Come dicono con chiarezza Adamo e Della Valle, con viciniorità si intende “la maggiore vicinanza, l’essere più vicino, con riferimento alla prossimità geografica al luogo di lavoro, come criterio preferenziale per l’assunzione di lavoratori inseriti in una graduatoria”. Più o meno questo stesso significato, riferito però a vescovi e loro competenze, la parola aveva già nel 1774, come si vede grazie a Google libri, in un trattato sulla chiesa locale di Guastalla: “(il vescovo di Reggio) diedesi a credere… non già di aver il titolo di viciniorità già attribuito…al vescovo di Mantova, ma…”. Il suo rapporto concettuale (oltre che etimologico) con viciniore si vede bene da un altro brano settecentesco, tratto da un testo sul Diritto diocesano del Vescovo di Capaccio sul Clero e Popolo di Santangelo e Fasanella del 1786: “I due… avendo ottenuto il Breve di Roma… fecero eseguirlo dal Vescovo di Satriano come viciniore. Della viciniorità furono fatte le pruove”.
Diciamo subito, per chiarire i dubbi di alcuni e correggere anche l’errore di Google, che propone viciniorietà, che la forma corretta del nostro sostantivo è viciniorità. Gli aggettivi, infatti, formano molti sostantivi astratti mediante il suffisso ‑ità applicato alla base (anzian‑o > anzian‑ità), anche quelli in ‑ore come superiore o inferiore o anteriore (da cui superior‑ità, inferior‑ità, anterior‑ità), anch’essi, tra l’altro, originariamente comparativi latini come vicinior-e, da cui dunque viciniorità.
Il suffisso ‑ità si muta in -età per formare astratti da pochi aggettivi in ‑io, la cui base termina in ‑i (come ordinari‑o, ovvi‑o) e il passaggio ad ‑e evita la ripetizione della stessa vocale, per cui da ordinario si forma ordinari‑età e da ovvio ovvi‑età (naturalmente non seguono questa regola gli astratti da aggettivi in cui la i è puramente diacritica, come malvag(i)‑o da cui malvagità). Non si tratta quindi della concorrenza tra due suffissi per astratti deaggettivali, ‑ità o ‑ietà, ma della diversa forma che il suffisso ‑ità assume, diventando ‑età, quando si lega ad aggettivi la cui base finisce nella vocale i. Di questo fenomeno si è già parlato nella risposta del 6 settembre 2019, in cui si notava anche come si verifichino delle sovrapposizioni tra aggettivi in ‑are o ‑ore e aggettivi in ‑ario nella formazione di astratti, per cui a derivati dai primi si applica la terminazione dei secondi (in ‑ietà) come se fosse un suffisso. Uno dei lettori lo ha giustamente notato.
In realtà viciniore ha prodotto già nel Settecento regolarmente viciniorità (lo abbiamo visto), come seriore ha prodotto da pochi decenni seriorità. Il nostro viciniore non ha dunque generato, se non per frequente errore, viciniorietà, e men che mai il pur assai attestato in parecchi testi ufficiali e segnalato da qualche lettore vicinorietà, in cui si perde l’infisso comparativo del latino ‑ior per pressione di vicino (pochissimi per fortuna i casi di vicinorità): una lectio facilior, tanto per restare ai comparativi latini, comprensibile, ma che snatura definitivamente il parto non maneggevole del dotto viciniore.
Per la verità, viciniorità potrebbe anche essere un adattamento italiano del latino vicinioritatem, per altro attestato quasi in contemporanea (nel xviii secolo) con la forma italiana e (in attesa del TLL, giunto alla r) non noto ai dizionari di latino classico né al lessico medievale del Du Cange. Va comunque precisato che, anche come eventuale adattamento di vicinioritatem, la forma italiana corretta sarebbe sempre e solo viciniorità.
Viciniorità, non registrato dai dizionari maggiori, non è dunque un neologismo. È un termine del lessico giuridico amministrativo, nato a quanto pare nel diritto canonico e oggi ripescato dal linguaggio burocratico, specie in quello del pubblico impiego. Nella legislazione e negli atti amministrativi registrati nella banca dati De Jure (consultata per noi da Paola Villani) sono numerose sia la forma viciniorità che la forma viciniorietà, con prevalenza della prima; nella giurisprudenza, invece, è attestata solo viciniorietà e mai viciniorità, a ribadire l’oscillazione notata dai nostri lettori e la forza attrattiva sul nostro astratto del processo che da straordinario porta a straordinarietà.
I problemi di mobilità del personale hanno favorito negli ultimi anni il recupero della viciniorità soprattutto in ambito scolastico, come criterio di assegnazione di un insegnante ad altra sede. In tal caso scatta il diritto della sede viciniore o nel comune viciniore. Se ho ben inteso, sono considerati viciniori i comuni di una stessa provincia, ma non (solo) sulla base della pura distanza dei loro confini ma (anche) di altri parametri. Ad esempio, in una deliberazione del Consiglio di Stato del 1911 (pubblicata in una Relazione del Ministero dei Lavori Pubblici a Roma nel 1912) si precisava che “nel caso di Comuni a territorio vasto e centri sparsi, il carattere di viciniorità va stabilito tenendo presente la zona di territorio più importante, non questo o quel singolo abitato”.
In sostanza, ci sarebbe una diversa vicinanza tra un comune e altri comuni, magari tutti egualmente confinanti con lui, perché si prende a riferimento non il confine, ma i centri più importanti o il luogo più importante a un dato fine. Nella burocrazia scolastica, suppongo, la sede di una scuola. Per altro, nonostante ricerche cui hanno collaborato gentilissime amiche e cari amici, non sono riuscito a trovare una definizione ufficiale dei criteri di viciniorità con cui sono compilate molte tabelle e spesso ho avuto l’impressione che la parola sia semplicemente sinonimo di vicinanza, o al massimo di minor distanza. Quando, ad esempio, viciniorietà appare nel decreto del Presidente della Repubblica n. 209 del 10 aprile 1987, al comma 6, lettera f) dell’articolo 11, dove si fa riferimento a “tabelle di viciniorietà definite sulla base delle distanze reali determinate, a livello provinciale, con riferimento a ciascun comune”, sembra che il significato non sia diverso da quello delle più consuete tabelle delle distanze tra comuni di una stessa provincia. Ma tant’è. La burocrazia ama gli astratti, meno comuni sono e meglio è. Ad ogni modo, la parola viciniorità è formalmente corretta e semanticamente plausibile.