DOI 10.35948/2532-9006/2021.7518
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Sono arrivate varie domande sul femminile di cavaliere. Come si indica una ‘persona che va a cavallo’ o un ‘soldato a cavallo’ se di sesso femminile? E quando una donna viene insignita del titolo di Cavaliere al merito della Repubblica è possibile rendere tale onorificenza al femminile?
Il tema del femminile di mestieri, cariche, professioni tradizionalmente maschili continua ad appassionare i nostri lettori. Questa volta sotto la lente di ingrandimento è finito cavaliere, una parola del lessico fondamentale, nota a tutti gli italiani, che ha una vasta gamma di significati: da ‘chi va a cavallo’ a ‘soldato a cavallo’, da ‘appartenente alla cavalleria’ a ‘membro di un ordine cavalleresco’, da ‘nobiluomo’ a ‘gentiluomo’, a ‘partner di una donna nel ballo’, ecc. Sebbene il suo legame con cavallo sia chiaro anche al parlante comune, si tratta di un gallicismo di epoca antica (documentato, come risulta dal TLIO, in moltissime varianti, tra cui cavaliero, cavaleri, cavallere e cavalliere): la voce, attestata già nella seconda metà del sec. XII, è modellata infatti sul provenzale cavalier e/o sul francese chevalier, esiti del lat. tardo caballarium, che in area italiana ha dato cavallaio o cavallaro, che ha ben diverso significato (‘custode o mercante di cavalli’).
I dizionari che sono soliti registrare il nome femminile sotto il lemma maschile o non forniscono indicazioni, oppure indicano le forme, derivate da cavaliere secondo il processo che viene definito “mozione” (Anna M. Thornton, in Grossmann-Rainer 2004), cavaliera e/o cavalieressa: così fa lo Zingarelli 2021 (che le fa precedere dalla croce che contraddistingue le voci uscite dall’uso), mentre altri dizionari le lemmatizzano autonomamente, sempre marcate come forme arcaiche o scherzose, nel significato di ‘moglie o figlia di un cavaliere’. Il GRADIT le data, rispettivamente, 1596 e av. 1300; in realtà, entrambe sono documentate in italiano antico, la prima, fin dal Trecento, nel senso di ‘colei che difende e sostiene’ o di ‘donna che appartiene alla milizia di Amore’, la seconda, nelle forme cavaleressa (Rustico di Filippi, seconda metà sec. XIII) o cavalleressa (Boccaccio, Decameron), appunto col significato di ‘moglie di un cavaliere, gentildonna’ (cfr. TLIO).
Le due forme si trovano, con valore un po’ diverso, anche in due famosissimi melodrammi: il Don Giovanni di Mozart su libretto di Lorenzo Da Ponte (il povero Masetto, costretto a lasciare Zerlina, che ha appena sposato, in compagnia di Don Giovanni, non troppo rassicurato del fatto che la ragazza resta “in man d’un cavalier”, se ne va dicendole sarcasticamente “Resta, resta! | È una cosa molto onesta: | faccia il nostro cavaliere | cavaliera ancora te”) e il Falstaff di Verdi su libretto di Arrigo Boito (Alice, moglie di Ford, che ha ricevuto da Falstaff una lettera d’amore, la esibisce divertita alle amiche dicendo: “Dunque: se m’acconciassi | a entrar ne’ rei | propositi del diavolo, sarei | promossa al grado di Cavalleressa!”).
Per alcune delle accezioni di cavaliere sopra indicate esistono in italiano dei corrispondenti femminili lessicalmente indipendenti. Nel caso di ‘donna che va a cavallo’ (specie nell’equitazione) è tuttora in uso amazzone (dalle donne guerriere del mito greco); in passato si adoperava in questo senso anche cavallerizza, termine ricordato da un lettore (e citato come sinonimo di amazzone in vari dizionari), che però, morfologicamente, è il femminile di cavallerizzo (dallo spagnolo caballerizo), usato al maschile prevalentemente in ambito circense.
Un altro termine femminile che corrisponde a cavaliere è dama (altro gallicismo di antica data: sec. XIII, nel GRADIT incluso tra le voci di “alto uso” ma non tra quelle del lessico fondamentale), nel senso sia di ‘nobildonna’ o ‘gentildonna’ (si pensi al titolo di una commedia di Goldoni, Il cavaliere e la dama), sia anche di ‘partner di un uomo nel ballo’: per restare in ambito lirico, ricordo che nella Bohème di Puccini (libretto di Luigi Illica e Giuseppe Giacosa), quando i quattro amici in soffitta improvvisano una quadriglia, Rodolfo dice “allegramente” la battuta “Mano alle dame!”, prima di ballare con Marcello.
A proposito di dama, varrà la pena di segnalare che si tratta di una delle non numerose voci in cui il processo di mozione è partito dal femminile e non dal maschile. Abbiamo infatti due derivati documentati già nel sec. XV, ma ormai di uso prevalentemente ironico: damo (scherzosamente si può definire un uomo damo di compagnia), che peraltro in Toscana valeva (ormai l’uso è obsoleto, come mostrano già i dati dell’ALT) anche ‘fidanzato’, e damerino.
Quanto ai titoli onorifici della nostra Repubblica (Cavaliere del lavoro, Cavaliere al merito della Repubblica), a cui si riferisce la maggior parte delle domande pervenute, non ci risulta che la questione del genere sia stata affrontata, né a livello istituzionale, né nella bibliografia specifica sul tema, dalle Raccomandazioni in poi: il nome dell’onorificenza resta al maschile anche quando viene concessa a donne (circostanza peraltro piuttosto rara: finora, come risulta dal sito della Federazione Nazionale Cavalieri del Lavoro, il titolo di Cavaliere del lavoro è stato attribuito a 2.805 uomini a fronte di sole 92 donne).
Come è noto, nel Regno Unito esistono titoli onorifici distinti in base al sesso: Knight o Sir per gli uomini e Dame o Lady per le donne. Anche in italiano, non sarebbe affatto impossibile ricorrere a dama (del lavoro); anzi, devo all’amica Paola Villani la segnalazione di un “precedente” in questo senso: in un vecchio resoconto del Senato (seduta del 25 ottobre 1950), in cui si parla di ordini di cavalierato aboliti che concedevano, in modo truffaldino, titoli onorifici a pagamento, si legge questo passo: “ed offre per l’opere dell’ordine, per il grado di cavaliere o di dama non meno di 25 lire”. Un titolo ufficiale esige una decisione ufficiale, e dunque un intervento di carattere normativo, di natura politica e amministrativa. Non è detto peraltro che questo risolva completamente il problema. All’amica Maria Teresa Zanola, a cui è stata recentemente conferita (aprile 2021) l’onorificenza di Officier des Arts et des Lettres da parte del Ministero della Cultura francese (dopo la nomina nel 2013 a Chevalier di questo “ordine”), devo la notizia che l’Académie française, nella seduta del 28 febbraio 2019, ha approvato un rapporto su La féminisation des noms de métiers et de fonctions, che affronta esaurientemente l’argomento. Ma nel rapporto a un certo punto si legge: «si le Journal officiel recourt à des formes telles que “chevalière”, “officière” ou “commandeure”, celles-ci ne sont pas pour autant reçues dans l’usage» («se il Journal officiel [corrispondente alla “Gazzetta ufficiale”] ricorre a forme come chevalière, officière, commandeure, non per questo esse sono accolte nell’uso»).
Tornando all’italiano, in assenza (o in attesa) di indicazioni ufficiali, possiamo dire che la lingua offre varie possibilità. L’antico femminile cavaliera potrebbe senz’altro essere fruibile, con valore puramente denotativo, in questo senso (con allineamento a coppie come cameriere/cameriera, infermiere/infermiera, ecc.). Ma ci si potrebbe anche limitare, in attesa di una decisione ufficiale, a mutare l’articolo in base al sesso: quindi il cavaliere e la cavaliere. La stessa cosa potrebbe dirsi per commendatore, anche se non ci sarebbe alcun problema di carattere grammaticale a usare commendatrice, registrato soltanto come arcaismo nello Zingarelli e nel GRADIT, per riferirsi a una donna che è stata insignita del titolo. Nel caso di Grand’ufficiale (o Grandufficiale), infine, sebbene i dizionari registrino la forma ufficialessa non solo nel senso di ‘moglie di un ufficiale’, ma anche in quello di ‘donna incaricata di un pubblico ufficio’ e, nell’esercito, di ‘ufficiale di sesso femminile’ (definizioni dello Zingarelli 2021, che data la parola al 1898), il ricorso alla stessa forma usata per il maschile (la Grandufficiale) ci pare senz’altro la scelta preferibile, tanto più che l’aggettivo corrispondente, ufficiale, vale per entrambi i generi grammaticali.