DOI 10.35948/2532-9006/2024.31189
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In uno scritto di qualche tempo fa Piero Fiorelli, decano dell’Accademia che tra qualche giorno d’aprile festeggerà il suo centunesimo operosissimo anno di vita, commentava un sonetto caudato del Bronzino, il celebre pittore fiorentino del Cinquecento, abile a dedicarsi anche a espressioni letterarie:
Sonetto in forma di scritta
Io Agnolo di Cosimo, chiamato
il Bronzin, dipintore, fo fede, ch’io
e Alessandro Davanzati – Dio
gli perdoni – restammo già in Mercato
Nuovo, che quando io era sfaccendato
gli facessi un bel quadro; e eziandio,
ch’e’ mi contò dieci scudi del mio
terreno, a lire sette per ducato,
tutto a buon conto, e lire trentadua
pagò per noi a monn’Antonia, ch’era
già nostra serva; ed hollo creditore
di tutto a un mio libro. E quella sua
pittura è mezza fatta, e quando intera-
mente sarà fornita e ’l compratore
verrà, suo debitore
mi chiamo, per pagargli senz’alcuna
eccezione, a chi mi fia per una
volta ordinato; e niuna
obbligazione intendo aver, se none
come quella ch’io ebbi col Fiandrone
– buona memoria –; e buone
farò le centodua lire a quel tale
che m’imporranno i Sei o l’Uffiziale
di mercanzia; se vale
o varrà più la mia pittura, intero
sarà il resto. E per fede del vero
così confesso e spero
pagare al tempo. E così di mia mano
ho fatto questa scritta, sponte e sano,
in questo dì, che siano
a’ ventun di dicembre nel cinquanta-
quattro in Firenze. Trentadua e settanta
fa centodua, e tanta
è la somma ch’io debbo a lui o a’ sua
eredi o altri tali...................................102.
La forma è quella di un sonetto, se pure “caudato” (cioè con l’aggiunta, alla fine della seconda terzina, di ulteriori terzine, aperte da un settenario e non da un endecasillabo), ma il contenuto è un contratto d’opera e un riconoscimento di debito. Si tratta una scritta, una "scrittura privata" con la quale il pittore riconosce un’obbligazione assunta nei confronti del suo amico Alessandro Davanzati, detto il Fiandrone, ora morto: s’era impegnato a dipingere per l’amico un bel quadro, quando fosse stato libero da altri lavori; e l’amico gli aveva anticipato dieci scudi a titolo d’acconto (pagando una parte del prezzo di un terreno che il Bronzino aveva acquistato) e poi altre trentadue lire che il Davanzati aveva pagato direttamente a monna Antonia per saldare un debito del dipintore; siccome la "pittura è mezza fatta", ma certo non può più essere consegnata al committente, il Bronzino si impegna a pagare la somma complessivamente ricevuta, cioè centodue lire, agli eredi del Fiandrone, una volta che il quadro sia terminato e poi venduto; se dalla vendita si ricaverà di più, il resto rimarrà al Bronzino.
Singolare coincidenza tra lingua poetica e lingua giuridica, una sorta di paradosso per noi uomini d’oggi: la lingua giuridica nel 1554 poteva vestirsi tecnicamente di poesia con rispetto delle forme metriche e delle rime – senza far dispetto né alle lettere né al diritto – e comunicare con facilità non solo ai giuristi. È "una lingua che cinque secoli fa riusciva naturale usare così parlando come scrivendo, così in famiglia come in tribunale, e che senza perdere naturalezza poteva lasciarsi rielaborare nelle forme e nei metri di una poesia regolare". Oggi si potrebbe fare lo stesso?
Torniamo indietro di duecento e più anni: un avviso al pubblico a Prato, 1287. Un banditore va per i luoghi soliti a proclamare che in un certo giorno certi eredi si presenteranno di fronte al podestà per accettare con beneficio d’inventario una certa eredità; chi ha qualcosa da pretendere da quel patrimonio ereditario si faccia avanti:
Messere la potestade fae mectere bando et ricordare che concioe sia cosa che Marsoppino e Puccio (...) siano lasciati rede di ser Piero (...), e quella reditate volliano aprendere con beneficio d’inventario; che qualunque persona avesse a ricevere alcuna cosa dal detto ser Piero per iudicio o per altro modo, o chi volesse contradire alle decte rede inn alcuno modo, debbia conparere e venire dinanzi alla decta podestade giovidie mactina anzi terza. Sappiendo che a quello termine li decte rede aprenderanno la decta ereditate con beneficio d’inventario, secondo ragione.
Senza troppi paradossi questa volta: al di là dei necessari vocaboli ed espressioni tecniche (aprendere [l’eredità] con beneficio d’inventario ‘acquistare il patrimonio con la sicurezza di rispondere dei debiti nei limiti dell’attivo ereditario’; iudicio ‘legato’; ragione ‘diritto in senso oggettivo’), c’è da scommettere che anche allora gli abitanti di Prato ben capirono l’avviso bandito, e gli interessati poterono presentarsi di fronte al podestà per far valere i propri diritti. Se mentalmente si passa un colpo di spazzola sulla polvere del tempo, ci si accorgerà facile facile che il lessico fondamentale è quello d’oggi. Ma oggi probabilmente si troverebbe anche il modo di confondere i poveri cittadini con subordinate implicite di secondo e terzo grado e con il lessico astruso (non tecnico, né necessario) della lingua giuridico-amministrativa dei nostri tempi: o no?
Ancora più indietro: Capua, marzo 960. In un verbale di un processo tutto in latino spiccano 17 parole in volgare che scandiscono il contenuto di una testimonianza:
Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trent’anni le possette parte Santi Benedicti [so che quei terreni, secondo i confini indicati nel documento che mi si mostra, trent’anni li ha posseduti il monastero di San Benedetto].
Non c’è qui solo la prima espressione consapevole dell’italiano nascente (nella forma di un volgare campano), ma anche l’ostentata fiducia nella capacità comunicativa di un volgare che sorgeva allora sotto le sembianze del diritto. Si usa il volgare perché la posizione giuridica del vincitore della causa (il monastero di Montecassino) risulti più evidente e più stabile di fronte a possibili nuovi e diversi contraddittóri.
Insomma, la storia dimostra che, con qualche aggiustamento spesso necessario, si può avere – perché si è avuta – una lingua del diritto capace di arrivare anche ai cittadini poco addentro alle sottigliezze della giurisprudenza e alle asperità del suo linguaggio. Almeno sul versante della pratica del diritto. Ma su quello della legge si potrebbe forse dire una cosa simile.
Ci può aiutare un’occhiata di sfuggita alla nostra Costituzione. Tra l’estate del 1946 e il 22 dicembre del 1947 fu costruita con il lavoro paziente dei costituenti che alla fine avevano imparato a tenere "tra le mani una bilancia per pesare le parole, una bilancia la quale ha una sensibilità che è ancora maggiore di quella dell’orafo" (così il costituente Gustavo Ghidini). Riuscirono con questa acquisita capacità a scrivere un testo che nel 1948, quando la Costituzione entrò in vigore, poté raggiungere il 40% della popolazione, poté cioè essere facilmente capita da una percentuale alta di italiani, trattandosi pur sempre di una legge. Perché scelsero con accuratezza le parole, limitando al massimo quelle tecniche e usando soprattutto i vocaboli più comuni, perché abilmente costruirono i periodi, privilegiando le frasi brevi, perché con estrema perizia retorica seppero legare strettamente il testo, basti pensare alla progressione tematica che caratterizza i primi articoli della carta. E anche quando il compromesso sottostante all’articolo fu difficile da raggiungere, ciò non incise sulla chiarezza della forma linguistica. Emblematico è il secondo comma dell’art. 3, che introduce il principio dell’eguaglianza sostanziale, vero caposaldo per la realizzazione della Giustizia vera (suum cuique tribuere: dare a ciascuno il suo):
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
Insomma, i costituenti riuscirono a fare emergere la novità del secondo comma dell’art. 3 attraverso una piena consapevolezza lessicale e un’attenta costruzione sintattica.
Sicché concordi i giuristi e i linguisti considerano la Costituzione del 1948 un testo normativo modello.
Ci sono leggi recenti, e meno, che sono scritte bene (un esempio classico è il Codice civile), ma in genere la loro qualità di scrittura e di chiarezza è bassa. Ed è stato mostrato molto di recente che oggi le nostre leggi risentono di difetti simili a quelli che caratterizzano la lingua della pratica del diritto, e la loro lettura è sempre più difficile: gli articoli sono lunghi e troppo densi di contenuti, le rubriche non indicano con appropriatezza quanto la norma stabilisce; anche le frasi sono lunghe e spesso caratterizzate dalla nominalizzazione (un solo nome sostituisce un verbo e quindi un’intera frase); il lessico è spesso usato impropriamente; per non dire poi degli eccessivi rinvii e riferimenti ad altre norme.
Quella del diritto è necessariamente una lingua tecnica, ma lingua tecnica non può voler dire lingua comprensibile ai soli specialisti. Sia la lingua della legge, sia quella della pratica del diritto, sia quella dell’amministrazione dovrebbero poter arrivare anche ai cittadini, in primo luogo per ragione di democrazia: non bisogna dimenticare che, ad esempio, le sentenze sono pronunciate in nome del popolo, e la motivazione ha anche la funzione extra-processuale di rendere il processo controllabile dai cittadini. E va anche tenuto conto che il livello d’istruzione in Italia è, purtroppo, tra i più bassi d’Europa.
L’obiettivo si può raggiungere non tanto abbandonando il lessico tecnico, che è necessario proprio ai fini della chiarezza, ma abituando il giurista – sia giudice, sia avvocato, sia funzionario pubblico, sia redattore tecnico delle leggi – fin dal momento della sua formazione a un periodare piano, ma al tempo stesso adeguato alla complessità delle questioni da risolvere. Se la costruzione del periodo è il più possibile piana (non necessariamente semplice: a volte può essere necessario articolare il discorso in subordinate, se si tratta di affrontare un ragionamento complesso), se le frasi sono brevi, se si abbandonano le parole che non esprimono un concetto tecnico, ma servono solo ad alzare il tono del discorso, anche chi giurista non è riesce subito a individuare i tecnicismi; una volta individuati, ha oggi tutti gli strumenti per disinnescarne la complessità semantica.
La capacità linguistica i costituenti se la costruirono seduta dopo seduta, e non disdegnarono neppure di avvalersi della consulenza linguistica di esperti. Oggi è sempre più necessario che una formazione linguistica sia acquisita da tutti i giuristi, non solo perché si possano fare intendere dai comuni cittadini, ma anche per capirsi meglio tra loro in un mondo – quello del diritto – sempre più caratterizzato da specializzazioni e da specialismi, anche lessicali. In questa direzione è necessario che si muovano in primo luogo le università: alcune scuole di giurisprudenza si stanno aprendo anche agli aspetti linguistici del diritto, non solamente a quelli dogmatici tradizionali, nella riscoperta consapevolezza che il primo strumento del mestiere del giurista, accanto al codice, è la scrittura.
Una chiara indicazione in questa direzione ci viene dalla recente riforma del processo civile che ha introdotto anche in questo settore dell’ordinamento il principio di sinteticità e chiarezza degli atti. Con un decreto ministeriale attuativo, il DM 110/2023, sono stati stabiliti criteri di redazione degli atti, limiti dimensionali, e tecniche redazionali. Senza ingabbiare troppo la lingua degli avvocati e dei giudici, la riforma ha anzi fornito gli strumenti per esaltarne le potenzialità perché si basa essenzialmente su un presupposto culturale: sinteticità significa commisurare la lunghezza e la complessità dell’atto (sia della parte, sia del giudice) alla difficoltà delle questioni che si devono affrontare; ed è lo strumento per giungere alla chiarezza, in una sorta di endiadi. E pertanto il giurista fin dalla sua formazione deve abituarsi a usare un linguaggio adeguato sia sotto il profilo lessicale sia sotto il profilo sintattico e retorico: aperto ai termini tecnici, ma non ai “paroloni” che servono solo ad alzare il registro; sicuro nella gestione di frasi brevi e di periodi con poche subordinate, ma pronto ad aumentare la complicazione sintattica tutte le volte che sarà necessario esporre un ragionamento complesso.
Occorre attrezzarsi così nell’interesse dei cittadini, che devono poter comprendere le leggi e la giustizia il più possibile senza intermediari, ma anche degli stessi giuristi, che potranno capirsi con meno difficoltà tra loro stessi, e nell’interesse del sistema giustizia, che anche con la semplificazione linguistica vedrà finalmente attuarsi il giusto processo di cui al rinnovellato art. 111 della Costituzione.
Solo così la lingua del diritto potrà davvero diventare una lingua per tutti: la storia – come sempre – ce lo dimostra.