Temi di discussione

Il dialetto in televisione ieri e oggi

  • Gabriella Alfieri
  • Ilaria Bonomi
SOTTOPOSTO A PEER REVIEW

DOI 10.35948/2532-9006/2024.32240

Licenza CC BY-NC-ND

Copyright: © 2024 Accademia della Crusca



In tempi recenti si è avuto un rilevante incremento della presenza del dialetto nella televisione, e su questo riteniamo opportuno richiamare l’attenzione e fare alcune considerazioni.
Questo incremento si inscrive in una ripresa del dialetto di ampia portata nella società italiana: a partire dagli anni Ottanta-Novanta del secolo scorso, il dialetto ha ritrovato spazi e funzioni in ambiti diversi, come strumento comunicativo, ma soprattutto espressivo, alternativo e aggiuntivo alla lingua italiana, ormai posseduta e usata dalla quasi totalità dei parlanti. In una realtà sociolinguistica di italofonia stabilizzata, il dialetto, prima ostracizzato come codice inferiore alla lingua, viene riabilitato e conquista nuovi ruoli e nuove funzioni nella società. Se la sua vitalità nell’uso comunicativo è ormai decisamente ridotta, e limitata, come si sa, ad alcune aree del paese (il Nord-Est, il Sud), una notevole rivitalizzazione del dialetto ha investito, in misura crescente, la letteratura (narrativa, poesia), il cinema, la televisione, la canzone, i fumetti, e la rete (si veda al riguardo: Sergio Lubello e Carolina Stromboli [a cura di], Dialetti reloaded, Firenze, Cesati, 2020). Una neodialettalità a cui ha contribuito indubbiamente il gradimento da parte dei giovani, che ne fanno una componente importante del loro linguaggio, in funzione espressiva, emotiva e ludica (Maria Silvia Rati, I giovani e l’italiano, Firenze, Cesati, 2023), mostrando di apprezzare l’uso del dialetto particolarmente nella canzone, nella televisione e nel web. In alcuni di questi contesti un certo uso del dialetto era preesistente, ed è aumentato: nella poesia, nella narrativa e, in particolare, nel cinema e nella canzone, ambiti in cui la dialettalità si carica di funzioni nuove, come pure nella televisione. Nel cinema, a un ricorso al dialetto funzionale soprattutto alla mimesi realistica e alla comicità, si è affiancato, se non decisamente sostituito, un uso del dialetto come marca di appartenenza a un gruppo, soprattutto di giovani (si pensi ai trapper napoletani) nella linea di una forte mescolanza di codici con valenze molto differenziate (Fabio Rossi, Lingua italiana e cinema, nuova ed., Roma, Carocci, 2023). E il cinema, nella interconnessione tra i media dei nostri giorni, è strettamente legato alla fiction televisiva, che del dialetto fa un uso molto rilevante, in relazione a gruppi di giovani, in particolare nella realtà napoletana, sulla quale si insisterà più avanti. La componente giovanile gioca certo un ruolo importante anche nella canzone, dove l’uso del dialetto napoletano è assurto alla ribalta della cronaca nell’ultimo festival di Sanremo, con le polemiche sul testo del brano di Geolier. Come hanno mostrato vari studi recenti, le funzioni del dialetto nella canzone si sono ampliate e diversificate rispetto al passato, nella duplice direzione di un uso ludico-espressivo e di un uso ideologico-simbolico, proprio soprattutto del rap e del trap, ampiamente rappresentati a Sanremo 2024. Polemiche hanno accompagnato il napoletano "modificato" di Geolier: ma, oltre all’ovvio rilievo che si tratta di un uso “libero” perché artistico, in cui le parole sono unite alla musica, va sottolineata la valenza ideologica di certi attacchi al cantante, in nome di un presunto napoletano autentico e superiore agli altri dialetti.

La valenza ideologica ha giocato un certo ruolo nella rivalutazione e nella rivitalizzazione dei dialetti, superando la semplice difesa di un’identità locale da salvaguardare, nel segno di un’insofferenza per la dimensione linguistica unitaria: un’insofferenza che ha accentuato, da parte di determinati gruppi e parti politiche, la battaglia per la difesa dei dialetti, anche in ambito scolastico e istituzionale. E da molte persone, specie in rete, dove tale difesa è diventato un tema ideologico in numerosi siti e nei social, e da dove, come è risaputo, derivano molte false opinioni correnti, viene mal intesa la presenza nel patrimonio Unesco della “lingua napoletana” e della “lingua siciliana”, segnalate in quanto lingue a rischio di estinzione (sulla dialettologia “parallela” a quella scientifica, che diffonde in rete false opinioni, ha già richiamato l’attenzione Nicola De Blasi nel suo tema Regioni e dialetti, ottobre 2023).

Prima di addentrarci nella complessa questione del dialetto in televisione ieri e oggi, ci sembra utile riprendere lo spunto da questa "dialettologia parallela" per alcune precisazioni funzionali al nostro discorso. La dialettologia scientifica non solo smentisce l’esistenza del macrodialetto meridionale, ma soprattutto fornisce criteri oggettivi, di natura storico-linguistica e socio-politica, per distinguere tra dialetto e lingua. Nell’evoluzione dal latino parlato che determina la storia linguistica interna, tutti gli idiomi usati nella penisola – detti appunto italo-romanzi – presentano tratti fonetici, morfologici, lessicali e sintattici che ne garantiscono la natura di lingue, dotate di una propria “grammatica”; ma nella storia esterna, condizionata da fattori politici, economici, religiosi e artistici, i destini di quegli stessi idiomi sono divergenti. Mentre il toscano ha sviluppato con continuità sin dal Medioevo le condizioni istituzionali e culturali per diventare “lingua”, e come tale essere normativizzata nel Cinquecento, gli altri volgari si sono fermati al ruolo di dialetti, confinati nella comunicazione privata e quotidiana, e coltivati nella poesia e nel teatro. Siciliano e napoletano, che pur vantano una cospicua tradizione letteraria, non possono considerarsi lingue sul piano politico-istituzionale, in quanto storicamente sono stati subalterni al toscano negli usi pubblici (amministrativo-giudiziario, accademico-universitario, ecc.), anche sotto i regimi preunitari.

Una cosa dunque è il dialetto come "lingua del cuore", che, in quanto veicolo delle tradizioni locali e familiari, fermenta nella memoria e nell’animo di ciascun individuo, un’altra cosa è il dialetto come varietà subalterna a uno standard linguistico destinato a usi scientifici, istituzionali e rituali. Così, se ci si passa l’analogia, altro è il cuore come organo anatomico, oggetto di studio della medicina, altro è il cuore come sede dell’emotività e dell’affettività.

Sulla base di tali presupposti proviamo a storicizzare per cenni il ruolo del dialetto nei primi settant’anni di vita della televisione, seguendone l’evoluzione dagli anni Sessanta ad oggi, in ordine ai cambiamenti sociali, culturali e politici del paese. I macrogeneri in cui il dialetto gioca un ruolo rappresentativo sono intrattenimento e fiction. Nell’intrattenimento – che ci limitiamo a menzionare – la dinamica comunicazione-espressività affidata alla diatopia (variazione geografica della lingua) vede il passaggio dall’intrattenimento acculturante (1954-75) a quello autoreferenziale (narcisistico) (1976-99), per approdare nei primi decenni del terzo millennio a quello fidelizzante della tv-verità.

La fiction, su cui ci soffermiamo, è pervasa dalla funzione mimetica sin dalla paleotv, in cui si ammetteva la tradizionale dialettalità del teatro napoletano di Eduardo De Filippo o genovese di Gilberto Govi, ma negli sceneggiati della teleletteratura si imponeva la scissione tra italiano aulico e farciture dialettali. Se nel Mulino del Po di Bolchi (1963), come nel romanzo di Bacchelli, la prammatica traduzione istantanea in italiano dei pochi proverbi emiliani garantiva comprensibilità e normatività linguistica, nel Mastro-don Gesualdo di Vaccari (1964) l’ipercaratterizzazione ambientale, affidata a una dialettofonia che non sarebbe piaciuta a Verga, suscitava l’insofferenza di pubblico e critica. Achille Campanile osservava sarcasticamente che, in base a tale presunto realismo linguistico, i fratelli Karamazov dell’omonimo sceneggiato avrebbero dovuto parlare in russo! Nella famiglia Benvenuti (1968), prototipo delle serie italiane, si esibiva per la prima volta il continuum sociolinguistico, dall’italiano aulico e dal neostandard dei protagonisti borghesi al dialetto ciociaro della tata, anticipando le modalità della neotelevisione (1976-2000). L’italiano "oralizzato" (Gabriella Alfieri, Ilaria Bonomi, Lingua italiana e televisione, nuova ed., Roma, Carocci, 2024) delle nuove serie, indigene o importate, si distribuiva su tre livelli di marcatezza: monolinguismo italiano lievemente intaccato da diatopia fonetica e da labile diastratia (variazione sociale della lingua) a fini mimetici (Vivere, Centovetrine, Incantesimo, Una famiglia in giallo); continuum di varietà italiane con media marcatezza in diatopia e diastratia, con adeguata mimesi in diafasia (variazione situazionale della lingua) (Don Matteo, Il Maresciallo Rocca, Un medico in famiglia); marcatezza stilistica elevata con ampia variazione sociolinguistica, dall’italiano colloquiale, regionale, popolare, informale trascurato, gergale, a più o meno rilevanti inserti in dialetto (dalla pionieristica Piovra del 1984 alle serie longeve Il commissario Montalbano, Un posto al sole).

Nel 2010 iniziava la cosiddetta post-televisione (Alfieri-Bonomi, volume citato), contraddistinta dalla contaminazione tra emittenza digitale terrestre e piattaforme, nella quale sembra estremizzarsi una nuova modalità di intenso ricorso al dialetto, con risultati di ipercaratterizzazione, in bilico tra espressivismo e documentarismo fotografico. Lo slittamento, come hanno mostrato gli studi sulla lingua del cinema, è parallelo a quello che ha investito il dialetto filmico, dalla caratterizzazione coloristica della commedia all’italiana agli usi marcatamente intenzionali e simbolici dell’idioma locale, motivati dalla "risorgenza" dialettale che è scaturita dalla perdita del dialetto come mezzo primario di comunicazione. Nell’ultimo quindicennio, in sostanza, la fiction ha esasperato la riproduzione mimetica del "paesaggio linguistico", concomitante a quello geografico, e affidata a un parlato sempre più realistico, plurilingue, espressionistico, che, come quello cinematografico, si attesta sul documentarismo, sulla simbolizzazione di dialetti e interlingue (usi incerti della lingua in fase di apprendimento), e sulla enfatizzazione della marginalità.

Da un parlato recitato realisticamente simulato nella neotv, in cui la diatopia si limitava a pochi tratti salienti di tipo intonativo o idiomatico, si è passati nella post-tv a un plurilinguismo ampiamente inclinato verso un substandard emarginante. La prima tendenza è ben rappresentata dalla serie lucana Imma Tataranni, in cui la caratterizzazione espressiva si limita a pronuncia e lessico regionali, senza distinguere tra stili situazionali e stili di parlato, o dalla napoletana Mina Settembre, in cui il dominante italiano regionale delle protagoniste borghesi è contrappuntato dalla dialettofonia o dall’alternanza lingua-dialetto delle popolane. Entrambe le serie orientano la percezione più verso il rispecchiamento che verso la caratterizzazione mimetica dei personaggi e dell’ambiente.

L’estremizzazione dialettale implica inevitabilmente il ricorso ai sottotitoli per garantire la comprensibilità del testo audiovisivo in serie come L’amica geniale o Mare fuori, ispirato al film La paranza dei bambini di Claudio Giovannesi, che non a caso era tratto dal romanzo dello stesso autore di Gomorra. Nella trascrizione audiovisiva de L’amica geniale si ribalta il rapporto che nel testo narrativo contrapponeva un dialetto virtuale, evocato da Elena Ferrante con didascalie metalinguistiche ("disse in dialetto") all’italiano neostandard della cornice diegetica (Giovanna Alfonzetti, Il dialetto molesto in Elena Ferrante, in G. Marcato [a cura di], Dialetto e società, Padova, CLEUP, 2018, pp. 303-314; Rita Librandi, Una lingua silenziosa: immaginare il dialetto negli scritti di Elena Ferrante, in “Kwartalnik Neofilologiczny”, 66, 2/2019, pp. 385-398): nella serie l’interazione dialogica in dialetto (caldeggiata anche dai produttori italoamericani di origine napoletana), differenziata sociolinguisticamente secondo i personaggi, esplicita la dialettalità latente dei romanzi (si veda il saggio di Lorenzo Coveri nel citato volume Dialetti reloaded). In Mare fuori, invece, domina una dialettalità estremizzata e gergalizzata, con qualche riarticolazione, da una serie all’altra, dei registri dialettali e gergali tra narrazione e dialoghi e tra i diversi personaggi.

Accanto alle funzioni espressive che già gli inserti dialettali avevano nelle fiction della neotelevisione, come ad esempio in Un posto al sole, ora è accentuata la funzione mimetica e identitaria. Il fatto che la distribuzione in streaming si rivolga a un pubblico più selezionato e consapevole, molto diverso da quello “familiare” della tv generalista, consente agli sceneggiatori di mostrare anche gli aspetti più crudi della realtà contemporanea, dandone una rappresentazione spesso scabrosa. Ecco che il dialetto irrompe in tv come codice delle subculture urbane e delinquenziali, come il napoletano di Gomorra e Mare fuori, e del recente Clan, che lo alterna all’italiano regionale, o il romanesco di Romanzo criminale. In Mare fuori, in particolare, la radicalizzazione mimetica acuisce e legittima gli aspetti negativizzanti, producendo l’isolamento accentuato e la ghettizzazione anche linguistica di queste comunità marginali. La marcatezza diventa marchiatura socio-ambientale e socio-comunicativa. Proprio Mare fuori con il suo enorme successo ha contributo a una certa fortuna, anche tra i giovani di altre aree d’Italia, del napoletano come linguaggio di caratterizzazione sociale e di gruppo.

Tra i modelli alternativi alla napoletanità estremizzata di Mare fuori c’è il romano di Strappare lungo i bordi (2021), serie animata del fumettista Zerocalcare, alias Michele Rech: il dialetto di Rebibbia, quartiere della periferia romana in cui Rech vive, assume una spiccata funzione introspettiva ma non per questo meno identitaria. L’andamento monodico, per cui l’autore presta la propria voce a tutti i personaggi, con l’unica eccezione dell’armadillo-coscienza critica, doppiato da Valerio Mastandrea, dà un carattere straniante alla serie ma, come rileva Massimo Palermo (Massimo Palermo, Sul romanesco di Zerocalcare, in “Le parole e le cose”, 24 novembre 2021, https://www.leparoleelecose.it), è uno strumento per allineare su un unico registro linguistico tutti i temi trattati, alti o bassi, in una sorta di “personale polifonia”. Si realizza così un uso innovativo del dialetto, non più destinato, come nell’Amica geniale e in Mare fuori, alla rappresentazione della delinquenza o della subalternità, ma all’espressione di una realtà sociale suscettibile di riscatto e integrazione.

Un’ultima notazione va fatta per l’aspetto della fruizione audio-visiva, dal punto di vista sia della produzione sia della ricezione del testo. Innanzitutto, il testo audiovisivo è un tutto organico, che va gustato integralmente: se con la coda dell’occhio si devono seguire i sottotitoli, solo in parte si coglieranno le sfumature fisionomiche e gestuali dei personaggi nel dialogo. Testo visivo e testo verbale, dissociati nella percezione acustica dei dialoghi in dialetto e nella percezione visiva dei sottotitoli, possono andare incontro a una sfasatura percettiva, soprattutto nella parte di pubblico abituata al doppiaggio. Senza dire che la sottotitolatura risponde a esigenze di mercato per rendere il prodotto più appetibile a certo pubblico straniero, amante dell’ipercaratterizzazione dialettale, come nei film di mafia o in Gomorra.

E, infine, in questo mondo liquefatto in cui ci è toccato di vivere, l’impatto diretto nelle fiction con la dialettofonia gergale degli emarginati neutralizza, come le immagini violente e crude dei duelli mortali o delle sale operatorie, la capacità immaginativa, soprattutto dei giovanissimi. Se fiction è relato al latino fingo, come la deprivazione della lettura comporta l’atrofia dell’immaginazione per cui non si sa più “fingersi nel pensier” paesaggi o personaggi, così la trascrizione fotografica di gerghi e dialetti comporta l’incapacità di figurarsi l’espressività di mondi estranei alla nostra esperienza diretta. E si pregiudica la piena godibilità e comprensibilità del testo finzionale. Del resto, la verosimiglianza linguistica del parlato televisivo non si può spingere sino al livello del documentario. Il dialetto presentato annulla il dialetto rappresentato, e il “fantadialetto” criptico sacrifica, come nel fumetto, la propria portata realistica a una stilizzazione falsamente autentica (si veda il saggio di Daniela Pietrini nel citato volume Dialetti reloaded).

Forse, pensiamo, nella fiction televisiva andrebbero coltivati e sviluppati filoni in cui alla riproduzione integrale e gergale del dialetto, da circoscrivere a segmenti della narrazione o a singoli personaggi, si affianchi, anche con la modalità dell’alternanza di codice, la sua giustapposizione all’italiano. Un italiano sociolinguisticamente variato, come quello che effettivamente caratterizza la nostra multiforme realtà parlata, puntando a un italiano regionale differenziato, oltre che geograficamente, anche dal punto di vista sociale e situazionale. Riteniamo in definitiva preferibili nella fiction soluzioni linguistiche che, come in Mina Settembre, Imma Tataranni, Un posto al sole, Strappare lungo i bordi, riflettano la realtà socio-comunicativa senza sacrificare l’espressività e la finalità mimetico-realistica, ma senza esaltare modelli di comunità ghettizzate, prive di qualsiasi prospettiva di riscatto.