DOI 10.35948/2532-9006/2022.17747
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Un lettore ci chiede informazioni riguardo alla corretta interpretazione della voce alfino attestata nei Commentarii di Lorenzo Ghiberti.
Nella formazione e nell’evoluzione di ogni lingua esistono parole ed espressioni che hanno avuto vitalità e resistenza in un determinato arco temporale: un lasso di tempo oltre il quale queste stesse voci hanno stentato a sopravvivere nell’uso scritto, giungendo, se non alla totale estinzione, a diradare notevolmente le loro tracce. Ciò è accaduto anche al sostantivo alfino che, stando alle attestazioni ricavate dalla consultazione degli strumenti lessicografici, ha conosciuto un certo impiego dal XIII secolo sino alla metà del XVI, per poi decadere nelle epoche successive, sino a scomparire quasi definitivamente.
Sia i vocabolari storici dell’italiano sia quelli della lingua contemporanea sono concordi nel definire la voce alfino come ‘alfiere del gioco degli scacchi’. Il più rappresentativo e ricco dizionario dell’italiano odierno, il GRADIT, registra il lemma alfino come sostantivo maschile, seguito dalle sigle OB e TS. Con OB s’intende che la voce è catalogabile come obsoleta, cioè caduta in disuso nella lingua italiana di oggi, mentre con TS si fa riferimento al suo uso tecnico-specialistico, e quindi all’impiego di alfino in rapporto a particolari attività: nella fattispecie, quella ludica del gioco degli scacchi. Quanto al significato della parola, il GRADIT rimanda al lemma alfiere2 ossia al ‘pezzo del gioco degli scacchi che si muove in diagonale’.
Con lo stesso significato, alfino ricorre anche nei vocabolari storici della nostra lingua: il GDLI registra il sostantivo per ‘alfiere (degli scacchi)’ marcandolo come voce antica, e segnalandone la prima testimonianza nel Detto d’amore attribuito a Dante Alighieri e databile al XIII secolo. Sia la definizione sia la data di prima attestazione sono condivise dal TLIO, il vocabolario della lingua italiana delle origini basato sui testi più antichi e rappresentativi dei volgari italiani. Da notare, inoltre, che gli esempi segnalati nel GDLI coprono un arco temporale molto ridotto: l’ultimo di questi è tratto dal Filocolo (1336-1338) di Giovanni Boccaccio. Ciò costituisce un primo dato relativo alla limitata circolazione e fortuna della voce.
Nelle cinque edizioni ufficiali del Vocabolario degli Accademici della Crusca, il lemma alfino compare solamente nella quinta impressione (1863-1923) ed è registrato già come parola antica e obsoleta: “così dicevasi anticamente quel pezzo nel giuoco degli scacchi, che ora chiamasi Alfiere”. Il Tommaseo-Bellini introduce la variante alfido nella definizione per alfino: “Nome anticamente dato al terzo de’ pezzi principali onde si giuoca a’ scacchi, che fu detto anche Alfido, ed oggidì chiamasi Alfiere”.
Quanto all’origine della parola, il DEI, il DELI e l’Etimologico sono concordi nel far derivare alfino dall’arabo al-fīl ‘elefante’ (dove al rappresenta l’articolo determinativo), a sua volta proveniente dal persiano medioevale fīl ‘elefante’. Anche Bruno Migliorini nella sua Storia della lingua italiana (1988, vol. I, p. 164) cita alfino, assieme ad altri termini tipici del gioco quali scaccomatto, rocco e lo stesso scacchi, all’interno di una ponderosa rassegna di arabismi penetrati nella lingua italiana nel corso del Duecento. Come segnala Gianfranco Folena nel suo articolo Alfido, Alfiere (1961, p. 92) l’etimo arabo ha prodotto una serie di varianti nelle lingue romanze: nel francese antico si rintracciano alfin e aufin, nel portoghese e nello spagnolo sono attestate le forme alfim e arfil (per tali e ulteriori riscontri, si vedano: REW [3291]; DEI s.v. alfino; Enrico Zaccaria, L’elemento iberico nella lingua italiana, p. 18, s.v. alfiere2). Anche per l’italiano antico, con alfino convivono le varianti arfilo, alfiro forse dovute all’influsso di quelle spagnole e portoghesi, oltre che a fenomeni di dissimilazione consonantica. A questo elenco, Folena aggiunge anche la forma alfido – segnalata dal Tommaseo-Bellini – per la quale lo studioso fissa la data di prima attestazione al 1591 nel Figino overo Del fine della pittura del poeta e storico mantovano Gregorio Comanini.
Folena elenca un’ulteriore rosa di varianti che si somma a quelle appena ricordate. Riprendendo le sue parole, a “incroci e reinterpretazioni fantasiose” si devono ascrivere le voci dalfino, delfino, dolfino e, sul fronte delle lingue straniere, il francese dauphin e il portoghese delfim. E in effetti il sostantivo delfino (assieme alla variante dalfino) è registrato nel GDLI con il significato di ‘alfiere nel giuoco degli scacchi’: al solo esempio tratto dal volgarizzamento trecentesco della Tavola Ritonda (cfr. GDLI, s.v. delfino5), si possono aggiungere gli ulteriori riscontri quattrocenteschi segnalati da Gastone Pettenati nel suo articolo A proposito di due ispanismi cinquecenteschi (1961, p. 9).
Dunque, attorno al sostantivo alfino, originatosi per via diretta dall’etimo arabo al-fīl, si muove una densa costellazione di varianti quali arfilo, alfiro, alfido e dalfino, delfino, dolfino che condividono il significato tecnico-specialistico in campo ludico di ‘alfiere degli scacchi’. Ma, come abbiamo già affermato, le attestazioni di tutte queste forme si arrestano alla fine del XVI secolo, e precisamente al 1591 con la voce alfido comparsa nell’opera di Gregorio Comanini.
L’uscita di scena di alfino risponde, di contro, al prestigio via via sempre più assunto dal sostantivo alfiere ‘pezzo del gioco degli scacchi’, a sua volta ricostruito su alfiere ‘portabandiere’. Un indizio relativo alla convivenza delle due forme è testimoniato dall’edizione veneziana del Filocolo di Giovanni Boccaccio del 1551, data questa che diventa a tutti gli effetti la prima attestazione di alfiere ‘pezzo del gioco degli scacchi’ (come registrano anche il DELI, il GRADIT e lo Zingarelli 2021). Pettenati rileva come nel testo “si legge alfieri nel primo luogo e alfino nel secondo”, situazione che, ripetendosi nelle stampe successive, si arresta all’edizione Moutier del 1594. In essa si assiste definitivamente al sorpasso della prima forma rispetto alla seconda: lo studioso, infatti, dichiara che alfiere adesso “compare […] in entrambi i luoghi”.
Come si spiega tale sostituzione? Il passaggio dalla forma più antica alfino a quella più affermata di alfiere ‘elemento del gioco degli scacchi’ è condizionato dall’ampia diffusione di alfiere ‘portabandiere’. L’attacco iniziale alf- comune a entrambe le voci giustifica la creazione di una seconda forma alfiere ‘elemento del gioco degli scacchi’ oltre ad alfino e che trae origine dall’accostamento paretimologico con alfiere ‘portabandiere’ derivato dallo spagnolo alférez (è forse utile ricordare anche che, nella cultura occidentale, la figura del portabandiere era sicuramente più familiare di quella dell’elefante). Questa ipotesi è proposta nello studio di Pettenati ed è condivisa sia da vocabolari storici e sincronici quali GDLI e GRADIT, sia da dizionari etimologici come DEI, DELI e l’Etimologico.
Tutt’altra cosa, però, è il significato che alfino assume nei Commentarii (1447-1455) di Ghiberti, opera in tre libri nella quale l’autore mostra sia una diretta conoscenza del sapere artistico-architettonico antico ereditato da Plinio e da Vitruvio, sia una dimestichezza con l’arte toscana dei secc. XIV-XV. Iniziamo proprio dal riportare il passo che contiene la voce:
Una ancora fu trovata, simile a queste due, fu trovata nella città di Siena, della quale ne feciono grandissima festa et dagli intendenti fu tenuta maravigliosa opera, e nella basa era scripto el nome del maestro, el quale Lisippo, era ecellentissimo maestro, el nome suo fu Lisippo et aveva in sulla gamba in sulla quale ella si posava uno alfino. Questa non vidi se non disegnata di mano d’uno grandissimo pictore della città di Siena, il quale ebbe nome Ambruogio Lorenzetti; la quale teneva con grandissima diligentia uno frate […] e cominciommi a narrare come essa statua fu trovata, faccendo uno fondamento, ove sono le case de’ Malavolti, come tutti gli intendenti et dotti dell’arte della scultura et orefici et pictori corsono a vedere questa statua di tanta maravigla et di tanta arte […]. E con molto honore la collocorono in su la loro fonte, come cosa molto egregia. Tutti concorsono a porla con grandissima festa et honore et muroronla magnificamente sopra essa fonte; la quale in detto luogo poco regnò in su essa. Avendo la terra moltissime aversità di guerra con Fiorentini, et essendo nel consiglo ragunati el fiore de’ loro cittadini, si levò uno cittadino et parlò sopra a questa statua in questo tenore: “Signori cittadini, avendo considerato dapoi noi trovamo questa statua, sempre siamo arrivati male, considerato quanto la ydolatria è proibita alla nostra fede, doviamo credere tutte le adversità noi abbiamo, Iddio ce le manda per li nostri errori. Et veggiallo per effecto che da poi noi honoramo detta statua, sempre siamo iti di male in peggio. Certo mi rendo che per insino noi la terremo in sul nostro terreno, sempre arriveremo male. Sono uno di quelli consiglerei essa si ponesse e tutta si lacerasse et spezassesi et mandassesi a soppellire in sul terreno de’ Fiorentini”. Tutti d’achordo raffermarono el detto del loro cittadino e così missono in essecutione, e fu soppellita in su el nostro terreno (Lorenzo Ghiberti, I commentarii (Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze II, I, 333). Introduzione e cura di Lorenzo Bartoli, Firenze, Giunti, 1998, pp. 108-109).
In questo brano, Ghiberti sta descrivendo una statua che, con ogni probabilità, raffigura una Venere Anadiomene – ‘originata dal mare’ –, opera di Lisippo, uno dei più famosi scultori e maestri di bronzo dell’antica Grecia. La statua, probabilmente una copia romana dell’originale greco, era stata ritrovata a Siena intorno al 1345-1346 in seguito agli scavi preliminari per le fondamenta del palazzo Malavolti (nei pressi di Piazza Pianigiani). La bellezza dell’opera fu subito notata e applaudita dagli artisti dell’epoca, i quali decisero di murarla su una delle pareti che costituiscono la struttura della monumentale Fonte Gaia di Piazza del Campo. Ma, secondo la testimonianza del Ghiberti, l’alloggio della statua ebbe vita breve a causa dell’esposto rivolto al Consiglio Generale da un pudico cittadino. In esso, egli aveva definito la rappresentazione scultorea come idolatra, e perciò origine delle ripetute sventure storiche che avevano afflitto Siena e il suo popolo. L’immagine tanto oscena quanto celebrata di una Venere nuda non poteva essere che la causa delle ire di Dio, rappresentate dalle continue tensioni con la nemica Firenze e, pochi anni dopo, dalla terribile pestilenza del 1348. Nelle Fonti di Siena e i loro acquedotti (1906, p. 25) si legge che, effettivamente, il Concistoro del Consiglio Generale deliberò la distruzione della statua il 7 novembre del 1357: la demolizione, però, non avvenne. Di fatto, la scultura fu tolta e posizionata in un altro luogo che ancora oggi rimane misterioso.
Ritorniamo, adesso, sulla parola alfino: essa è utilizzata da Ghiberti in riferimento alla descrizione, molto generale, della statua di Venere: nell’immagine, la gamba nuda e portante doveva poggiare su un supporto definito come alfino, il quale individua quindi un preciso elemento artistico della composizione scultorea. Il contesto, però, non favorisce in alcun modo l’interpretazione semantica di alfino come ‘pezzo del gioco degli scacchi’: è certo che la parola impiegata da Ghiberti assuma un significato differente.
È possibile rintracciare qualche informazione sul senso della voce in alcune edizioni dei Commentarii: nel volume dedicato ai Prosatori volgari del Quattrocento (1955, p. 346) e in corrispondenza del passo contenente la forma, il curatore Claudio Varese inserisce una nota a piè di pagina nella quale ad alfino è affiancata la voce delfino. Anche nella sua Storia di Siena dalle origini al 1559 (1987, p. 22), Luca Fusai, riportando il passo di Ghiberti, commenta la parola alfino internamente al testo e inserendo tra parentesi la parola delfino. L’equivalenza semantica tra le due voci, ricostruita in base al contesto, autorizza i curatori dell’edizione dei Commentarj (1846, p. xiii) alla sostituzione di alfino con delfino: la seconda forma, infatti, è direttamente inserita a testo, mentre solo in nota è possibile recuperare la prima.
Alla luce dei riscontri appena ricordati, pare evidente che la voce alfino in riferimento alla descrizione della statua di Venere assuma il significato di ‘delfino’, specializzandosi così come un tecnicismo artistico che individua un elemento ben preciso dell’immagine scultorea della dea, e in particolare quello in marmo raffigurante un delfino (simbolo, assieme alla più nota conchiglia marina, della nascita di Venere) che supporta il corpo della divinità. Di tale iconografia si hanno svariati esempi sia nel campo della scultura marmorea sia in quello della statuaria metallica: per esempio, l’ipotetica ricostruzione della Venere su delfino di Lisippo, oppure questa statuetta di Venere e Cupido su delfino, opera di Gregor Johan van der Schardt (1530-1581) conservata al Museo di Capodimonte di Napoli:
Mentre si hanno molte e sicure attestazioni riguardo alla corrispondenza semantica in ambito ludico tra alfino e delfino nel senso di ‘pezzo del gioco degli scacchi, alfiere’, quanto al campo artistico non sono reperibili (se non limitatamente al solo contesto ghibertiano) altri esempi scritti relativi all’uguaglianza di significato tra alfino e delfino nel senso di ‘delfino’, e men che meno di ‘elemento scultoreo che costituisce parte della struttura della statua di Venere’. Si potrebbe quindi affermare che, con questo specifico significato artistico, il termine alfino ricorra, per una sola volta, esclusivamente nei Commentarii: si tratterrebbe – sino a ulteriori riscontri emergenti da altre fonti per ora sconosciute – di un hapax legomenon, ossia di una parola documentata un’unica volta nell’intero corpus scritto di una lingua, nel lavoro di un singolo autore e in una singola opera autoriale. Evidentemente, la sinonimia tra alfino e dalfino nel senso di ‘alfiere degli scacchi’ è stata trasferita con riferimento al delfino, indicato come alfino anziché come dalfino.
Ecco però l’insorgere di un dubbio. L’unicità di questa forma potrebbe far pensare a un errore compiuto da chi redige il codice II.I.333 (ex Magliabechiano XVII.33) conservato presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, il solo testimone manoscritto conosciuto che contiene il testo dei Commentarii, e peraltro copia di un originale del Ghiberti oggi inesistente. La caduta occasionale di una lettera o di porzioni grafiche di una parola è fenomeno paleografico molto frequente nella scrittura dei copisti, e niente vieterebbe di considerare alfino come una cattiva variante per dalfino ‘delfino’ di cui si rintracciano numerose attestazioni nella lingua scritta antica (cfr. TLIO e GDLI, s.v. delfino). Oltre all’assenza di alfino nel senso di ‘delfino’ in altre opere scritte e nei dizionari dell’italiano, soprattutto quelli storici, un ulteriore dato di fatto che può dare credito alla possibilità che alfino sia un errore per dalfino è rappresentato dall’unicità del codice che tramanda il testo dei Commentari, che non consente perciò raffronti con altre testimonianze. Infatti, l’esistenza di ulteriori manoscritti avrebbe forse potuto dirimere e chiarire la questione, documentando la presenza in uno o in più di uno di una forma dalfino. Ma, purtroppo, la storia relativa alla trasmissione di quest’opera non ci ha dato modo di poter effettuare nessun confronto.
Nota bibliografica: