Consulenze linguistiche

Trinciar polli e tranciar giudizi

  • Roberta Cella
SOTTOPOSTO A PEER REVIEW

DOI 10.35948/2532-9006/2022.19774

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Copyright: © 2022 Accademia della Crusca


Quesito:

Abbiamo ricevuto due quesiti intorno al verbo tranciare; il primo riguarda l’espressione tranciare un giudizio: è possibile usare anche trinciare un giudizio? Il secondo verte sul participio presente tranciante nel significato di ‘preciso, acuto, incisivo’: è italianizzazione del francese tranchant?

Trinciar polli e tranciar giudizi

I verbi trinciare e tranciare non solo sono sinonimi (significano entrambi ‘tagliare di netto in pezzi più o meno piccoli’), ma condividono la stessa origine francese: trinciare è un adattamento già duecentesco della forma più antica trencher (antenata del moderno trancher), mentre tranciare è un derivato di trancia, prestito novecentesco del francese tranche ‘pezzo, fetta’ (a sua volta derivato dalla forma moderna del verbo trancher). Gli usi con i diversi oggetti dipendono in parte dalla diversa data di introduzione dei due verbi, ma soprattutto dalla normale tendenza dei parlanti a specializzare il significato delle parole che sono largamente sinonime: si trincia il pollo e anche il tabacco (il trinciato per antonomasia), ma si tranciano un discorso e un giudizio e si trancia (o si taglia) anche la testa al toro, nel senso figurato di ‘risolvere una questione in modo rapido e definitivo’; si può dire che oggi, in linea di massima, si usa trinciare nel significato di ‘tagliare in pezzi’ e tranciare in quello di ‘recidere di netto’. Nel quadro di tale specializzazione semantica, il giudizio tranciante è quindi quello che ‘chiude la questione perché perentorio e non appellabile’ (senza essere necessariamente acuto o giusto), e il suo impiego è stato certo favorito, nel Novecento, dal modello dell’aggettivo francese tranchant, usato del resto anche in italiano, come prestito non adattato; un pur possibile giudizio trinciante non evoca nell’ascoltatore contemporaneo la nettezza e perentorietà dell’affermazione, quanto piuttosto la capacità di fare a pezzi – come un pollo – il malcapitato oggetto della sentenza.

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