DOI 10.35948/2532-9006/2023.27986
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Alcuni lettori ci scrivono, per lo più dal sud della Penisola, chiedendoci se l’impiego del verbo scambiare riferito a indumenti o tessuti nel senso di ‘perdere colore, stingere’ sia un uso soltanto locale.
In italiano il verbo scambiare ha le sue prime attestazioni tra il XIII e il XIV secolo (Corpus OVI, s.vv. scambiare e iscambiare) e ha fin dall’inizio una duplice accezione: la prima, ‘sostituire un essere vivente o un oggetto con un altro’, può anche includere il senso di cessione vicendevole o di alternanza; la seconda, ‘confondere una persona o una cosa con un’altra’, riguarda, invece, un’identificazione erronea (LEI, s.v. *excambiare). Il verbo, come testimoniano i principali dizionari dell’uso, conserva nell’italiano contemporaneo ancora le stesse accezioni, la prima delle quali si è trasmessa anche ad alcuni tra i suoi più antichi derivati, come l’aggettivo scambievole (‘reciproco, vicendevole’), che risale al XV secolo e ha successivamente prodotto l’avverbio scambievolmente (‘in modo scambievole’) e il sostantivo scambievolezza (‘reciprocità’), o ancora il più tardo scambiabile (‘che può essere scambiato’), che, apparso nel XVIII secolo, può includere anche la prima accezione (‘che si può confondere con altro’). Sono tutte forme ancora vive nell’italiano comune ma non di alta frequenza, a differenza dell’originario scambiare, che appartiene al lessico fondamentale della nostra lingua, cioè alle circa 2000 parole più frequentemente usate (GRADIT, s.v.).
Dal concetto di reciprocità incluso nella cessione vicendevole di qualcosa discende evidentemente anche il significato che scambiare assume in alcune aree centrali e meridionali, ovvero ‘trasferire colore da una stoffa all’altra’ e, per estensione, ‘perdere colore, scolorire’ o ‘stingere’. L’attestazione più antica sembra trovarsi nei versi del napoletano Giulio Cesare Cortese (LEI, s.v. *excambiare) e dovrebbe quindi precedere il 1622, anno della morte del poeta secondo le più recenti ricerche (cfr. Vincenzo Palmisciano, Corrigenda per la biografia di Giulio Cesare Cortese, in “Studi secenteschi”, LX, 2019, pp. 189-199). Nei componimenti del Cortese il verbo appare nella forma scagnare, comune ad altre zone meridionali, dove convive con scangiare e con gli esiti apocopati, scagnà, scangià. Si tratta di forme che hanno seguito una trafila diversa da quella di scambiare, per la quale si è supposta l’esistenza, nel latino di uso vivo, di un verbo *excambiare, derivato a sua volta da cambiare, mentre per gli esiti scangiare/scagnare si presuppongono o il tramite del francese échanger o, più probabilmente, viste le attestazioni tardive, una derivazione con aggiunta di prefisso da cangiare. L’area in cui si rileva il significato legato alla cessione del colore comprende diverse zone del Lazio, della Campania, della Basilicata, della Calabria e della Sicilia, dove ha continuato a mantenere una considerevole vitalità, come conferma la condanna che se ne fa nel repertorio di Idiotismi, voci e costrutti errati di uso più comune nel Mezzogiorno d’Italia pubblicato da Michele Siniscalchi nel 1912 (I ed. Trani, Vecchi, 1889).
Va osservato, tuttavia, che nel XVI secolo è attestato in italiano anche il termine scambiacolore, utilizzato per indicare la ‘caratteristica di certe gemme che cambiano colore a seconda dell’esposizione alla luce’ (LEI), un’accezione non molto distante da quella dall’aggettivo napoletano scagnente, corrispondente all’italiano cangiante e registrato da Ferdinando Galiani (Vocabolario delle parole del dialetto napoletano che più si discostano dal dialetto toscano, Napoli, Giuseppe Maria Porcelli, 1789, p. 86) con la definizione ‘che fa diverso colore secondo i vari punti di veduta’. Tra il Sette- e l’Ottocento, inoltre, in testi riconducibili ai settori della chimica e dell’artigianato, incontriamo in più di un caso il sintagma scambiare colore, di cui riproduciamo per brevità solo pochissimi esempi:
questo liquore non dee in modo veruno scambiare il colore azzurro de’ vegetabili. (Chimica sperimentale e ragionata del sig. Bomé Mastro speziale di Parigi [...] ora per la prima volta tradotta in italiano [...], Tomo II, Venezia, appresso Francesco di Niccolò Pezzana, 1781, p. 536)
L’alcali adunque (dentro a un cotal limite) scambia il colore di giallo in giallo più scuro quanto meno è di alcali nell’acqua. (Opuscoli chimico fisici del farmacista Bartolomeo Bizio, Venezia, dalla tipografia di Giuseppe Antonelli, 1827, p. 248)
Nel dizionario di arti e mestieri l’espressione si lega, tra l’altro, proprio al colore delle stoffe:
Ora immergendo il filato in una soluzione calda di solfato di rame, il primo colore gialliccio si oscura e ne viene una specie di verdognolo, il quale nella seta fa buonissimo effetto. Al contrario l’acetato non fa che scambiare il colore di gialletto in giallo quasi perfetto. (Nuovo dizionario universale tecnologico o di arti e mestieri, Venezia, presso Giuseppe Antonelli, 1845, s.v. melagrana)
I diversi contesti sembrano indicare, in realtà, solo un ricorso a scambiare in luogo di cambiare, senza riferimento al passaggio di colore da una stoffa all’altra o allo scolorire, ma è significativo, e probabilmente di tradizione antica ma poco testimoniata, che in associazione al sostantivo colore compaia preferibilmente il verbo scambiare. Lo leggiamo ancora negli scritti di Gasparo Gozzi, intellettuale e letterato veneziano vissuto tra il 1713 e il 1786, che in un breve testo in prosa, contenuto nella raccolta più completa delle sue opere (cfr. Domenico Proietti, Gozzi, Gasparo, in Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana), scrive: “È egli forse di necessità che quel medesimo Lorenzo non possa un tempo essere magro e un altro grasso e scambiare il colore e l’aspetto delle sue membra?” (G. Gozzi, Opere in versi e in prosa, a cura di Angelo Dalmistro, Venezia, da’ Torchi di Carlo Palese, 1794, 12 tomi, V, pp. 298-299). Sebbene il colore delle membra comporti sempre un graduale passaggio dalle tonalità pallide a quelle più accese e viceversa, anche qui sembra valere un’equivalenza tra scambiare e cambiare; il riferimento però al colorito umano invece che alle stoffe o alle sostanze chimiche, in un testo di natura assai diversa da manuali e dizionari settoriali, ci sembra testimoniare la discreta vitalità di un sintagma fisso che si è andato successivamente perdendo.
Se ci sia un legame tra quest’uso di scambiare e quello che è ancor oggi vivo nell’Italia meridionale non è facile da stabilire: può darsi che una tradizione più ampia e diffusa sia sopravvissuta solo in alcune aree della penisola, acquisendo una diversa sfumatura di significato; è evidente, tuttavia, che solo ricerche più approfondite potrebbero darcene conferma. È certo, in ogni caso, che oggi nell’italiano comune non c’è traccia del significato che il verbo scambiare ha assunto in alcune regioni meridionali: si tratta, infatti, di un regionalismo semantico (o geo-omonimo), di una parola, cioè, che coincide nella forma e nell’aspetto fonetico con un termine dell’italiano standard, ma che non ne condivide, in tutto o in parte, il significato: si pensi, per esempio, a casi come sciocco o stagione, che nell’italiano regionale della Toscana e della Campania significano rispettivamente ‘insipido’ ed ‘estate’. Se dunque ci troviamo a usare, come facciamo di frequente, una particolare varietà di italiano regionale, possiamo anche dire che un abito è “scambiato” o che “si è scambiato”, ma se utilizziamo l’italiano da tutti condiviso, dovremo dire che l’abito è “stinto” o che “si è stinto”.