Consulenza linguistica

Sappiamo fare a rispondere?

  • Matilde Paoli
SOTTOPOSTO A PEER REVIEW

DOI 10.35948/2532-9006/2023.29108

Licenza CC BY-NC-ND

Copyright: © 2023 Accademia della Crusca


Quesito:

Molti lettori ci hanno scritto per chiederci se sia corretto l’uso di saper fare a + verbo all’infinito, “saper fare a guidare”, “saper fare a cucinare”, “saper fare a scrivere”, in luogo di saper guidare, cucinare, scrivere, per ‘essere capaci, essere in grado di…’.

Sappiamo fare a rispondere?

La sequenza che i nostri lettori ci sottopongono “fa storcere il naso” ad alcuni di loro e non solo: in rete, in un forum che si occupa di lingua italiana, è visibile un intervento in cui Chiara, che vive a Ferrara da molti anni, ma non è ferrarese, scrive di aver “notato alcune bizzarrie in uso tra i suoi concittadini acquisiti”; una di queste è

la formula “sai fare a” per “sai” (nel senso di “sei capace di”)
es. “sai fare ad andare in bici?”, ma addirittura “sai fare a fare i cappellacci?” (peculiarità ferraresi?, post sul blog Cruscate, 17/9/2009)

Di tutt’altro parere nella valutazione dell’espressione (citata anche nella forma negativa) è Sandra Z., che dichiara di sentirsi “all’estero” quando si trova “oltre Forlimpopoli”:

C’è un’altra abitudine verbale delle nostre parti che non mi pare diffusa altrove: è il “saper fare a”, in luogo di “esser capaci di”. Ad esempio non si dice quasi mai “non so cucinare” oppure “sai guidare la moto?” ma “non so fare a cucinare” e “sai fare a guidare la moto?”; divertentissimo, poi, a mio parere, è il raddoppio (anche perché doppiamente romagnolo!) tipo “sai fare a fare la piadina”... (La parola più bella, commento in Google Groups it.cultura.linguistica.italiano del 9/6/2005)

Altre testimonianze in rete confermano l’attuale diffusione in area emiliano-romagnola, deducibile anche dalla provenienza dei quesiti, la maggior parte dei quali arrivano da Ferrara, Bologna e Ravenna. L’espressione appare usata soprattutto in testi informali e le rare volte che compare in articoli di media locali, si trova sempre in citazioni dal parlato:

Dalla risposta allegata all’interpellanza, come riferisce Rendine nel nuovo documento indirizzato al sindaco Tagliani, è «evidente come il suo assessore o non sa fare a leggere correttamente oppure “al fa l’och pr’an pagar dazi”» […]. (Rendine e il “mistero” delle telecamere di sorveglianza, Estense.com, 30/4/2018)

[…] la titolare de «La Pescheria del Molo» di Cervia, Cinzia Pirini, è ancora scettica rispetto alla ripresa. «Qui a Cervia, e vale per tutta la Romagna, la gente sa fare a cucinare, le persone non hanno bisogno di ordinare […]». (Cervia, la ristoratrice Pirini, “Quando ho aperto mi hanno detto ‘Porti quello che vuole, vogliamo solo essere coccolati’”, Settesere.it, 7/2/2021)

Che sia un tratto del parlato è evidente, ma sembra altrettanto evidente come non lo si consideri censurabile, anzi appare quasi accattivante come in un filmato intitolato Sai fare a leggere? di Michele Dotti EducAttore di Faenza (Ravenna).

Passando alle testimonianze della tradizione scritta la sequenza saper fare a, variamente coniugata, seguita da un verbo all’infinito non risulta molto frequente (tenendo conto dei limiti delle possibilità di ricerca). Complessivamente nel corpus di Google libri si rintracciano 45 occorrenze pertinenti, di cui 17 nel XIX secolo, 24 nel XX e solo 4 in questo secolo (ricerche effettuate il 28/3/2023). Pressoché tutti gli autori sono di area settentrionale e l’espressione si trova spesso nel dialogato, in testi teatrali, nel parlato riprodotto di romanzi e racconti (non a caso le occorrenze più frequenti sono alla prima e alla seconda persona del presente indicativo).

La prima attestazione – si precisa che abbiamo escluso il saper fare a buon rendere nella Celidora, ovvero il governo di Malmantile (Firenze, Appresso Giuseppe Manni, 1734, giornata VI, ottava CII, p. 231) perché a buon rendere è una polirematica, funziona cioè come se fosse un’unica parola, in questo caso come un avverbio (cfr. GRADIT) – sembra risalire agli anni Settanta del XVIII secolo in un testo di agraria esposto in forma di dialogo:

M. Lo sterco umano è il migliore di tutti gl’ingrassi, e sapete perché non si adopera? perché non si sa farea levargli il cattivo odore e pure è cosa facile; basta mettervi un po’ di calcina viva, che in breve tempo perde la sua puzza, e si trasforma in una terra nera grassissima. (Dottrina agraria ovvero dichiarazione de’ principj dell’agricoltura ad uso de’ contadini, in Milano, Appresso Giuseppe Galeazzi, 1771, capo VI, p. 90)

Il valore dell’espressione è evidentemente “non essere capaci, non riuscire” o anche “non avere le conoscenze utili per”, del tutto simile a quello che assume ancor oggi. Ciò che invece sembra incoerente con le testimonianze odierne è l’origine tarantina del suo presunto autore: nel Catalogo collettivo delle biblioteche del Servizio Bibliotecario Nazionale (OPAC sbn) il testo, privo di indicazione dell’autore, è infatti attribuito a Giovanni Gagliardo (o Gagliardi). A Gagliardo, che, essendo nato nel 1758 avrebbe scritto la Dottrina agraria all’età di 13 anni, sicuramente si deve il Catechismo agrario per uso de’ curati di campagna, e de’ fattori delle ville pubblicato oltre 20 anni dopo (1793, s.l., s.n.), testo che nella struttura (è anch’esso in forma di dialogo) e nei temi ricalca la Dottrina, ma è dichiaratamente a uso specifico degli agricoltori della provincia salentina perché “ogni territorio richiede un libro locale in molte cose differente dagli altri” secondo “le parole le precise parole, che il dotto Parroco Samniatese [sic] premette al celebre suo libro intitolato Saggi di Agricoltura” (p. IX). Gagliardo si riferisce a Giovanni Battista Landeschi nato a Firenzuola in Mugello, in area toscana molto prossima al confine con la Romagna, nel 1721 e al suo Saggi di agricoltura di un paroco samminiatese (in Firenze, per Gaetano Cambiagi, 1775) pubblicato appunto sotto quello pseudonimo. Non è forse da escludere che anche la Dottrina sia opera del Landeschi, che, in quanto parroco costituisce un autore “adatto” a scrivere una Dottrina (che in toscano vale anche ‘catechismo’) e in quanto nato a Firenzuola poteva usare l’espressione (per l’uso di saper fare a + infinito nella Toscana appenninica si veda oltre). Notiamo solo che, nel luogo del Catechismo del Gagliardo corrispondente al passo della Dottrina citato, l’espressione non si trova.

La seconda testimonianza appare in un testo che ci riporta al nord della Penisola, una lettera di Giovanna Maffei, veronese, a Ercole Trotti Estense Mosti datata 1818 (cfr. CEOD Corpus epistolare ottocentesco digitale):

Oh non mi dir più che io so fare a dirti che t’amo, tu me lo dimostri ben altrimenti, e pure, io credo, che più di quello che so far io ad amarti nol sai far nè meno tu, ed è dir molto. (Carteggio Ercole Trotti Estense Mosti - Giovanna Maffei (1817-1827), lettera n. 109)

Ancora alla prima metà dell’Ottocento risale un’altra occorrenza, stavolta di area lombarda, in una lettera di Stefano Stampa, figliastro di Manzoni, in risposta a quella della madre Teresa Borri Stampa, che gli chiedeva di recarsi a Milano perché Giulia Manzoni Beccaria, la madre di Manzoni, stava morendo (morirà il 7 luglio 1841):

Io non so fare per niente affatto a consolar la gente, so fare a tenerli allegri quando hanno voglia... (Alessandro Manzoni e Teresa Stampa: dal carteggio inedito di donna Teresa, a cura di Ezio Flori, Milano, Hoepli, 1930, p. 137; anche in Natalia Ginzburg, La famiglia Manzoni, Torino, Einaudi, 1994, p. 180)

Sempre alla Lombardia rinvia questo testo pubblicato poco tempo dopo sulla rivista milanese “Bazar”, in cui l’espressione viene usata per spiegare una “citazione” in dialetto novarese:

I’n soumma fé noutt nui a stec’n t’i cafè [letteralmente ‘non siamo fatti noi a stare nei caffè’]: così nel suo non cruschevole gergo diceva un contadino dell’Agogna al camerata, […] diceva quel rustico in grossolana favella: Non sappiamo fare noi a stare nei Caffè; anche quel rozzo figlio della natura sapeva dunque che ne’ convegni destinati ai figli dell’educazione ci vorrebbe saper fare a starvi, ci vorrebbe cioè sapervi stare […]. (Nicolò Eustachio Cattaneo, Un indovinello, “Bazar di novità artistiche, letterarie e teatrali”, anno III, n. 98, 9/12/1843, sez. Bizzarrie)

Da questa trafila dal dialetto all’italiano, fatta di traduzioni e aggiustamenti, sembra potersi desumere che la regionalità dell’espressione fosse ben presente all’autore del testo. Forse non possiamo dire altrettanto di un’analoga testimonianza in cui è il dialetto l’oggetto di riflessione:

[…] A stó mond bisogna savè fà a aiutass: A questo mondo bisogna saper fare a aiutarsi […] (Cletto Arrighi [Carlo Righetti], Dizionario milanese-italiano, col repertorio italiano-milanese, Milano, U. Hoepli, 1896, s.v. Aiutà)

Altre occorrenze si trovano in testi scritti in dialetto; all’area veronese rimandano le due attestazioni nelle opere del poeta dialettale Pietro Zenari:

Se van le màrtore dentro al pollajo, / Se i topi corrono per il granajo, /[…] / Sempre continuo, sera e mattina / Van dal Curato che gli confina; / E se non partono, gli sanno dire, / Che non sa fare a benedire. (Pietro Zenari, La cuccagna del curato della campagna, in Id., La cuccagna del curato della campagna con alcune poesie in vernacolo, pp. 7-24: p. 19, Verona, Tipografia di Pier-Maria Zanchi, 1859)

Mat[io] No lè da maraegiàrsine, / Ghè sempre dei galioti. / E a sassinar el prossimo / Dà lori no i ghe abada, / I roba a la pi comoda / Senza saltar la strada, / Ma ci ga un po [sic] de pratica, / Sa fare a domandare / Se ghé dei galantomeni / Da narselo a crompare. (Pietro Zenari, Dialogo tra Matio e Felipo Sul Sòlfaro, in El Solfaro de MatìoZòcaro ossia contrasto tra Matìo e Felipo sul solfarare o no solfarare le vigne, Verona, Tipografia di Pier-Maria Zanchi, 1860, pp. 3-7: p. 6)

Limitatamente al XIX secolo, saper fare a + infinito appare anche in traduzioni da altre lingue:

− Come sai fare a far languire il tuo uditorio, Margherita! (Il visconte di Bragelonne di Alessandro Dumas, 1a versione italiana con note di Francesco Gandini [lombardo], Vol. VI, Napoli, Rondinella, 1852, capitolo C. Le due amiche, pp. 134-145: p. 135)

classici compresi:

Tranquilla Pace di Giustizia figlia, / O di molte città, le somme chiavi / Hai tu di pace e guerra, ed oggi accogli / Il Pitionico onor d’Aristoméne. / A giusto tempo tu quel che più piace / E sai fare a soffrir; […]. (Pindaro, Le odi, versione con note di Emilio Albani, Como, Tip. Nazionale di A. Giorgetti, 1862, Pitica VIII, Ad Aristomene d’Egina Vincitore nel Pugilato, vv. 1-6, p. 136 [Albani era comasco])

E perfino in commenti su quei classici:

Forse potè nuocere a Pindaro da principio l’esser egli aristocratico e conservatore, […] e l’essere insieme ingenuo e sincero da non saper fare a barcamenarsi come Simonide. (Le Odi di Pindaro, dichiarate e tradotte da Giuseppe Fraccaroli, Verona, G. Franchini, 1894, Cap. I, La vita di Pindaro, pp. 1-21: p.9 [Fraccaroli era veronese])

Nel XX secolo, cinque delle opere che riportano l’espressione, sempre in dialoghi, sono di Alfredo Panzini, nato a Senigallia e vissuto a Rimini: “so/sa fare a leggere” (Il regno tuo venga, “Nuova antologia”, fasc. 868, vol. XXV anno 1908, pp. 589-595: p. 589; Manualetto di retòrica: con numerosi esempi e dichiarazioni, 1926, p. 14; Romanzi d’ambo i sessi, Milano, A. Mondadori, 1941, p. 352); “sa/so fare a viaggiare” (Che cosa è l’amore?, Milano, Società editoriale italiana, 1912, p. 39); “sai fare a dare qualche spiegazione” (Viaggio di un povero letterato, Milano, Fratelli Trèves, 1919, p. 232); “sai fare a barare” (Romanzi d’ambo i sessi, cit., p. 435). Troviamo un’attestazione anche in Corrado Govoni, nato nel Ferrarese (“io voglio bene ai miei soldi e so fare a spenderli”, La strada sull’acqua, Milano, Fratelli Treves, 1923, p. 28) e una in Marino Moretti, nato a Cesenatico (“tu non sai fare a stare in città”, Viaggio di nozze, “Nuova Antologia”, vol. CDLXII, 1954, pp. 19-38, I parte: pp. 181-198, II parte: p. 186). Altre testimonianze sono reperibili nelle Novelline popolari sanmarinesi pubblicate e annotate da Walter Anderson (“Acta et Commentationes Universitatis Tartuensis”, Tartu, [s. n.], fasc. I-III, 1927-1933), frutto di inchieste condotte nelle scuole della Repubblica di San Marino e riprodotte parzialmente (16 delle 118 presenti nella raccolta) da Fabio Foresti in Quella nostra sancta libertà: lingue, storia e società nella Repubblica di San Marino (Repubblica di San Marino, AIEP, 1998, pp. 217-230).

Abbiamo poi un’attestazione risalente alla fine degli anni Venti che proviene dall’Astigiano (l’autore è nato a Monastero Bormida):

Aveva interrogato il piccolo Poucet: n’aveva avuto − Sai fare a camminar pel bosco? − Sì, so fare. (Augusto Monti, I sanssôssì (gli spensierati): cronaca domestica piemontese, Milano, Casa editrice Ceschina, 1929, p. 121)

L’area di diffusione dell’espressione si sta quindi definendo meglio: oltre che in area emiliano-romagnola, la troviamo nel Piemonte orientale (Astigiano), in Lombardia e nel Veneto occidentale (Veronese).

Alcuni dei quesiti che abbiamo ricevuto provengono dalla Toscana nord-occidentale; proprio per quest’area troviamo riscontri in due opere del lucchese Piero Pacini pubblicate da Niccolò Tommaseo:

«Olio e fuoco – replicava Cecco – e si cuoce un vitello». «Lo mangerete come sarà». «Oh! noi, guarda un po’, lo mangeremo buono; perché, se tu non sai fare a friggere, so far io. Su, amici, in cucina… » (Pietro Pacini, ‎La fidanzata del calzolaio, per cura e con prefazione di Niccolò Tommaseo, Milano, Giacomo Agnelli, 1870, cap. V, p. 63)

Andiamo! vediamo un po’ se mi riesco [sic] fare da medico: vediamo un po’ se so fare a rattoppare un uomo come rattoppo le pentole! (Pietro Pacini, Il parroco vigilante, in Racconti piacevoli a uso del popolo …, pubblicati da Niccolò Tommaseo, Milano, Giacomo Agnelli, 1870, pp. 207-259: p. 254)

Ancora un grande della nostra storia culturale, Giovanni Pascoli, nella sua raccolta Fior da fiore. Prose e poesie scelte per le scuole secondarie inferiori (Milano-Palermo, Sandron, 1901) promuove un altro autore lucchese, Idelfonso Nieri:

«O Signore, vi ringrazio che almeno lui sa fare a scrivere! O Gesù, vi ringrazio che lo mandavo a scuola, e ora può scrivere alla su’ mamma!» (61 Una madre che ha il figliolo soldato di Idelfonso Nieri, in Giovanni Pascoli, ‎Fior da fiore, Roma, Remo Sandron, 19247, pp. 56-57: p. 56; già in I. Nieri, Cento racconti popolari lucchesi, Firenze Giusti, 19082, pp. 167-170: p. 168)

Sempre alla Toscana amministrativa, ma linguisticamente romagnola, la cosiddetta “Romagna toscana”, rimandano queste due testimonianze riferibili alla località di Marradi; la prima è in una lettera di Dino Campana, nato a Marradi, a Emilio Cecchi:

Caro Cecchi,
le dò parola d’onore che le dico ora pura verità [Non so fare a descrivere quei fiorentini]. Li ho mandati a sfidare 4 volte in due anni senza risultato. (Dino Campana, Le mie lettere sono fatte per essere bruciate, a cura di ‎Gabriel Cacho Millet, Milano, All’insegna del pesce d’oro, 1978, p. 37, [la lettera è datata 13 marzo 1913])

Troviamo la seconda testimonianza nelle parole di uno scolaro marradese riportate in un articolo-racconto di un insegnante negli anni Trenta del Novecento:

Li ho portati in giardino, al sole, […]. Ho mostrato loro anche una piccola aiuola intatta ancora, destinata alle coltivazioni loro, proprio loro. «Io so fare a zappare», ha detto Marco, che si trascina sempre dietro il suo gatto di lana e non ha più paura di me. (Classe prima, S. Bosi-Chechi, Marradi “La nuova scuola italiana rivista magistrale settimanale”, Anno XI, n. 2, 1/10/1933, p. 49)

Proprio nel Novecento l’espressione, almeno in area emiliano-romagnola, comincia, seppur raramente, a essere stigmatizzata:

64. FARE (saper): circollocuzione per nulla elegante e necessaria, nelle frasi: «Sai fare a ballare?». «Io non so fare a nuotare». «Come è bello saper fare a dipingere!»
E perchè non dire: «Sai ballare?». «Io non so nuotare». «Come è bello saper dipingere!» Quanto più brevi, più efficaci e più proprie quest’altre frasi! (Umberto Avogadri, Forme e voci dialettali più comunemente usate dai ferraresi nella lingua italiana, Ferrara, Stab. tip. ditta G. Bresciani, 1901, ‎p. 21)

Come già detto, nel nostro secolo le testimonianze si fanno rarissime; delle quattro totali, tre si trovano in autori emiliano-romagnoli (“Saper fare a comunicare” in Come fare del forlivese Rocco Ronchi, Milano, Feltrinelli, 2012 [senza indicazioni delle pagine]; “so fare a stendere le vele” in Dove nascono i sogni del ferrarese Antonio Bimbo, Lecce, Manni, 2005, p. 42; “so fare a scrivere” in Bella bionda e altre storie Milano, Mondadori, 2010, traduzione di Jack Kerouac, Good Blonde & Others ad opera di Luca Guerneri, nato a Ferrara e trasferitosi a Forlì [senza indicazioni delle pagine]).

La quarta è una conferma della sopravvivenza in area lucchese; si trova infatti in un romanzo del viareggino Giampaolo Simi:

− Ma io non so fare a spiegarlo.
− Stai facendo la furba?
− Se ti ci accompagno, me lo ricordo. Sennò, no. (Figli del tramonto, Bresso, Hobby & work, 2000, p. 331)

Come abbiamo visto, la sequenza non sembra essere avvertita come (troppo) distante dalla norma. Gli stessi nostri lettori sono incerti. In effetti, se leggiamo un testo come quello che segue, ancora di area romagnola, in cui l’espressione si distingue da quelle fin qui riportate solo per l’uso della virgola, la distanza dall’italiano comune sembra ridursi:

Con me c’è anche la mia cara amica Sara Baraccani in qualità di fotografa. Lei sa fare, a cucinare, e infatti un marito ce l’ha, a differenza di me che vado avanti a pizze da asporto e insalate miste. (Frittate romagnole: in cucina con Angela Schiavina, DiRavenna.it, agosto 2014; [testo non più disponibile, il video è presente qui])

Quelle virgole, che isolano l’infinito introdotto dalla preposizione a (a meno che non siano dovute all’insicurezza che la scrittura comporta di fronte a una forma di cui non siamo proprio certi), ci suggeriscono che quel saper fare abbia un valore proprio, quasi indipendente da ciò che segue, come in italiano ha la sequenza quasi identica saperci fare, ovvero ‘essere abile, in gamba, competente’ (GRADIT). In realtà la prima sequenza testimoniata dalla lessicografia in questo valore è proprio saper fare. Già nella terza edizione del Vocabolario degli Accademici della Crusca (1691; così anche nella IV ed. del 1729-1738 e nel Tommaseo-Bellini) s.v. sapere troviamo

§. Saper fare: dicesi dell’Usar modi industriosi per arrivare a’ suoi fini. Latin. calliditate uti, callidum esse, astu contendere.

Segue una citazione dal De’ benefizii (De Beneficiis) di Lucio Anneo Seneca “tradotto in volgar fiorentino da messer Benedetto Varchi” (In Fiorenza, nella Stamperia de’ Giunti, 15742; I ed. 1554): “Colui non è pari a me, ne di virtù, ne di meriti, ma ha saputo fare” (2. 28).

È vero che la testimonianza del Vocabolario della Crusca (e del Tommaseo-Bellini) sembra avere una sfumatura negativa, ma ciò dipende dal contesto. Anche saperci fare, del resto, è ambivalente, tanto che il GDLI definisce l’espressione “essere in grado di agire adeguatamente o di operare con abilità rispetto a una data situazione o attività. - In senso generico: avere destrezza, abilità, tatto, diplomazia, astuzia”. Secondo lo stesso dizionario saperci fare è molto più tardo di saper fare: la prima attestazione risalirebbe infatti alla metà del secolo scorso, in un romanzo del bolognese Riccardo Bacchelli:

A quest’arte bisogna esserci nati, e io capisco che uno non ci sia nato: ma Francesco ha pur mostrato di saperci fare, e come dunque può sviarsene? (Non ti chiamerò più padre, Milano, Mondadori, 1959, p. 198)

La seconda si trova pochi anni dopo in un romanzo del bellunese-milanese Dino Buzzati:

Basta saperci fare. Lui non ci ha saputo mai. (Un amore, Milano, Mondadori, 1963, p. 340)

Saperci fare (o saper fare) in questo senso è comunque usato perlopiù assolutamente, mentre è più raro, ma non impossibile, che sia seguito dall’infinito introdotto da a. Ecco alcuni esempi, il primo dei quali di qualche anno precedente alla prima attestazione riportata dal GDLI (nel secondo troviamo le virgole a isolare l’infinitiva):

Don Onorato contemplò ancora la “figlia”; ebbe un sorriso di compiacimento… Però, come ci sapeva fare a modulare la voce e far la civettuola!... Mah!... Peccato!... Ma, intanto qui la cena se ne va! Esclamò ancora burbero, forse più per farsi ammansire dalla bella creatura. (Angelo Caliari [trentino], La malia di Onorato Pindu, Milano, Gastaldi, 1957, p. 26)

Dunque ci sapeva fare, a incantare le sue fedelissime, che infatti pendevano religiosamente dalle sue labbra. E lui le ripagava fissandole con insistenza negli occhi… (Lio Beghin [padovano], Feroce amore mio, Firenze, Loggia de' Lanzi, 1995)

E lei continua, lentamente, cadenzando parola per parola come chi ci sa fare a predicare: «Ho scelto Lucia perché... perché è la santa a cui hanno strappato gli occhi... e là, su, nel cielo, ha ritrovato altri occhi per vedere... come voglio fare io, lassù». (Cesare Padovani [nato a Novara ma vissuto a Rimini], Da uomo a uomo, Rimini, Guaraldi, 2014, p. 104)

Se ne accorse uno che non viveva del suo, ma che ci sapeva fare a sfruttare gli industriali di allora. Parlo di Gabrilnunzio. (Federico Garberoglio [“lombardo di nascita, piemontese di origini, emiliano di adozione“], Perché non sono scrittore: Manuale ragionato dell'insuccesso, Tiemme edizioni digitali, 2018)

La maggior parte degli autori sono originari dell’area in cui si riscontra l’uso tradizionale di saper fare a + infinito. Potremmo forse azzardare l’ipotesi che la costruzione nel tempo abbia subito una sorta di normalizzazione, la quale, trasformando la struttura in una dislocazione a destra del tipo “ripensamento” che prevede una pausa, anche lieve (rappresentata nello scritto dalla virgola) e una spezzatura della curva intonativa fra il primo e il secondo elemento (cfr. Gaetano Berruto, Le dislocazioni a destra in italiano, in Tema-Rema in Italiano. Theme-rheme in Italian. Thema-Rhema im Italienischen, a cura di H. Stammerjohann, Tübingen, G. Narr, 1986, pp. 55-69: p. 58), ne riduce la ridondanza trasformandone il valore da ‘essere capace’ a ‘essere molto/particolarmente capace’. Successivamente, come abbiamo visto, si è introdotto il ci cataforico che anticipa l’infinito a rafforzare la “rottura” tra le due parti della sequenza.

Concludendo, ai lettori possiamo rispondere che, sebbene la costruzione non sia del tutto incompatibile con le strutture della nostra lingua, essa costituisce un regionalismo che consigliamo di evitare nelle situazioni in cui sia richiesto l’uso dell’italiano comune.

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