Consulenze linguistiche

Perché si dice olio a crudo e non olio crudo?

  • Marzia Caria
SOTTOPOSTO A PEER REVIEW

DOI 10.35948/2532-9006/2022.15696

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Copyright: © 2022 Accademia della Crusca


Quesito:

Diversi lettori ci chiedono perché, nel linguaggio della gastronomia, si usa la locuzione a crudo in riferimento all’olio in luogo dell’aggettivo crudo.

Perché si dice olio a crudo e non olio crudo?

"A cottura ultimata, aggiungete un filo d’olio a crudo".

Càpita spesso di leggere nei ricettari, o di sentire nei programmi televisivi di ambito gastronomico, una frase di questo tipo al termine di una ricetta di cucina, come utile consiglio per completare il piatto e renderlo più saporito.

L’aggiunta dell’olio di oliva a crudo, preferibilmente extravergine (oggi di frequente abbreviato, sia nel parlato che nello scritto, con la sigla EVO), chiude infatti, spesso, la preparazione di molte pietanze, quasi come un “tocco finale” irrinunciabile per condire primi piatti, zuppe e contorni di vario tipo. E il suo uso a crudo, piuttosto che cotto, oltre che rendere l’olio più sano e meno calorico, consentirebbe, secondo gli intenditori, di conservarne inalterate le proprietà antiossidanti e di apprezzarne al meglio il suo caratteristico gusto amarognolo.

La locuzione avverbiale a crudo sembra in effetti essersi cristallizzata nella lingua della cucina, con particolare riferimento all’olio, per sottintendere l’azione del “condire a crudo”, ossia aggiungere, a fornelli spenti, un condimento su una pietanza cotta (es. una zuppa, una pasta, un bollito, una tagliata), o cruda (es. un’insalata, una bruschetta, un’emulsione).

Già nei primi anni del Novecento il noto cuoco romano Adolfo Giaquinto, nel suo ricettario Il mio libro: cucina di famiglia e pasticceria (Grottaferrata, Scuola Tip. Italo-Orientale “S. Nilo”, XI edizione, 1931 [1a ed. 1899], p. 17), suggeriva di mettere l’olio a crudo nella ricetta del Brodetto di pesce per renderlo più gustoso:

Sia che l’olio messo a crudo col pesce dia più buon gusto, sia che il pesce dell’Adriatico sarà più gustoso per natura, il fatto è che questo brodetto nella sua semplicità riesce squisitissimo.

Per dare un esempio più vicino ai nostri giorni, nel libro La cucina di Sonia Peronaci del 2020 (Milano, Cairo, p. 77) si conclude la ricetta della “Pasta fagioli e cozze” con “il prezzemolo tritato e un filo di olio a crudo” [corsivo mio, come nelle citazioni seguenti].

Oltre all’olio, si possono aggiungere a una pietanza, sempre fuori dalla fiamma di cottura, anche altri condimenti, ad esempio il pesto, come consiglia di fare Carlo Cracco nelle pagine dedicate alla cucina della Liguria del suo ricettario A qualcuno piace Cracco. La cucina regionale come piace a me (Milano, Rizzoli Vintage, 2013; si cita dall’ed. Kindle): “la pasta al pesto non andrebbe mai saltata (anche se c’è chi lo fa), perché si tratta di un condimento che è meglio usare a crudo” (si noti la concomitanza di usare).

Ma i manuali di cucina ci offrono, oggi e nel passato, impieghi ancora più ampi dell’espressione a crudo, riferibili alla sfera delle pratiche e tecniche di preparazione che si seguono in cucina. Il sintagma può ricorrere in particolare quando si devono preparare alcuni cibi prima di sottoporli a cottura, per esempio le cozze (o peoci o mitili), che è preferibile aprire “al fuoco” anziché “a crudo” (Dr. Nautilus, Come si cucina il pesce. Saggio di antologia gastronomica marinara, Milano, Società per Edizioni Moderne, 1935, p. 209), o in dipendenza di alcuni verbi tipici nella lingua ‘speciale’ della gastronomia: da passare, che significa in cucina ‘far rosolare brevemente’ o ‘immergere brevemente’ (GRADIT), in un testo gastronomico molto importante della fine del sec. XVIII:

Se volete passare l’erbe a crudo […] mettete un poco d’olio, o butirro in una cazzarola, fatelo scaldare con una cipolletta con due garofani, quindi stemperateci fuori del fuoco due alici passate al setaccio, e metteteci l’erbe ben tagliate, lavate, asciugate, ed in una discreta quantità (Francesco Leonardi, Apicio moderno, Roma, s.t., vol. V, 1790, p. 17);

a marinare, cioè ‘tenere immersa una vivanda, spec. pesce o carne, in una salsa a base di aceto, vino’ (GRADIT):

Prendete un bel pezzo di storione, ed in mancanza una porcelletta, cioè a dire uno storioncino; fatelo marinare a crudo per otto o dieci ore (Vitaliano Bossi, L’imperatore dei cuochi, Roma, Perini, 1894, p. 24);

a friggere:

Baccalà dorato o alla pastella. Si prepara in più modi: cioè si può friggere a crudo o dopo prolessato (Adolfo Giaquinto, Il mio libro cit., p. 145);

a sfilettare ‘separare tenendole intere le parti carnose del pesce dalla lisca centrale e da quelle laterali’ (GRADIT):

Sfilettate a crudo il pesce Sanpietro o, meglio, fatevelo sfilettare dal venditore (Dr. Nautilus, Come si cucina il pesce cit., p. 209);

a tagliare:

A crudo [il baccalà] si taglia a pezzi o s’infarina soltanto e si bagna coll’acqua, o s’infarina e si passa all’uovo, oppure s’intinge in una pastella ben liquida» (Adolfo Giaquinto, Il mio libro cit., p. 145);

Lezione n. 43 “Tagliare la carne a crudo” (Carlo Cracco, Se vuoi fare il figo usa lo scalogno, Rizzoli Vintage, 2012; si cita dall’ed. Kindle; cfr. sopra usare).

Oltre che a crudo possiamo inoltre trovare in alcuni ricettari ottocenteschi la variante (con articolo) al crudo: così, per esempio, nel Manuale del cuoco e del pasticcere di Vincenzo Agnoletti (Pesaro, Nobili, 1834) nel titolo della ricetta della Creme fovettées al crudo (tomo III, p. 109), o in quella dei Marignani in diversi modi, laddove si consiglia di condire i marignani (cioè le melanzane), dopo averli fritti, con una salsa verde da fare cotta anziché “con l’aceto al crudo” (tomo II, p. 199).

Al contrario, quando si voleva indicare la preparazione di un alimento dopo averlo sottoposto all’azione del fuoco si usava in passato l’espressione a/al cotto, per la quale ci viene in aiuto ancora il manuale di Giaquinto (Il mio libro cit., p. 145), con un esempio tratto dalla ricetta del “Baccalà dorato o alla pastella”:

A cotto [il baccalà] si taglia in pezzetti, si fa appena prolessare, quindi si fa asciugare sopra un panno, s’infarina e si passa all’uovo, oppure si immerge nella pastella.

Limitatamente all’aggiunta dell’olio per condire un piatto, l’italiano culinario conosce anche la variante olio crudo: la si legge sia nei ricettari otto-novecenteschi (per es. nel titolo della ricetta “Broccoli con oglio crudo e succo di limone” contenuta nella Cucina teorico-pratica di Ippolito Cavalcanti, Napoli, Palma, 1839, p. 221; nelle Ricette di Petronilla di Amalia Moretti Foggia Della Rovere, Milano, Olivini, 1935, p. 147: “In un tegame di rame, o di alluminio, mettete con olio crudo, sale e pepe (e dal lato del condimento) la bistecca”; nel Piccolo focolare di Giulia Lazzari Turco, Trento, G. B. Monauni, 1947, p. 36, dove si raccomanda di diluire con olio fino, crudo il battuto di basilico con cui condire “alla genovese” la pasta), sia in alcuni più recenti (e autorevoli) libri di cucina, come nella Cucina di casa del Gambero Rosso. Le 1000 ricette di Annalisa Barbagli (nuova ed., Roma, 2002, p. 78), in cui si suggerisce di completare “a piacere con un filo d’olio crudo e con una macinata di pepe” la zuppa dell’“Infarinata della Garfagnana”.

Però, se consultiamo i principali vocabolari della nostra lingua, non troviamo la locuzione olio a crudo ma soltanto olio crudo, e senza nessun riferimento alla cucina: l’espressione indica semplicemente il tipo d’olio d’oliva ‘ottenuto da olive non ancora completamente maturate’ (GDLI, s.v. olio). La definizione data dal GDLI si collega quindi al significato di ‘non maturo, acerbo’ che l’aggettivo crudo ha avuto e può ancora avere comunemente in italiano: si può parlare infatti, oltre che di olio crudo, anche di frutta cruda o di vino crudo, di vino cioè non ancora fermentato, non stagionato. In tale accezione, in riferimento per esempio alla frutta, l’aggettivo ricorre già nell’italiano medievale, come mostra l’occorrenza del poeta aretino Cenne da la Chitarra citata come prima attestazione dal GDLI (s.v. crudo, seconda accezione): “E sorbi e pruni acerbi siano lìe, / nespole crude e cornie savorose”. Con la stessa accezione anche nel Vocabolario dell’Accademia della Crusca, nella quarta e quinta impressione (1729-1738; 1863-1923): “Le frutte è vero, ch’elle son dolci, ma per esser crude, e difficili a digerire non generano molto buon sangue”; e (ma solo nella quinta) anche: “Le frutte che si potranno adoprare, sono le fragole, le ciliege e cotte e crude, gli sparagi, i fichi ec.”. Anche il collegamento tra crudo e il vino risale al medioevo, nel XIV secolo, all’interno del Volgarizzamento toscano del trattato di agricoltura di Rutilio Tauro Emiliano Palladio: “che ti converrebbe o cogliere l’acerba insieme colla matura, e così avresti il vino crudo ed aspro; o fare aspettare quelle quell’altre, e questo sarebbe dannoso” (cfr. TLIO). Altre attestazioni si trovano nel Vocabolario dell’Accademia della Crusca, già dalla prima impressione del 1612: “Similmente il vino delle rosse uve fatto, quando nel principio ancora è crudo, e ’l suo calor mancherà, il colore avrà a bianchezza vicino” (nella seconda e terza impressione, 1623 e 1691, si aggiunge alla fine della citazione, tra parentesi quadre, la glossa “cioè non maturo”); nella quarta, la stessa citazione viene riportata (sempre s.v. crudo), sotto la locuzione vino crudo, con il significato di “non maturo, non fatto”; analogamente, nella quinta, “detto di vino, vale non finito di fare, non ancora ben fatto”.

Nell’italiano contemporaneo, il significato di ‘acerbo’ per crudo, in relazione a cibi, frutti, è registrato nei principali vocabolari dell’uso, ad es. GRADIT, VOLIT (1986-1994), DISC. Rinvia invece al significato di qualcosa che ‘non ha subito operazioni di raffinazione o di finitura’ l’aggettivo crudo usato in riferimento alla birra (Treccani, Thesaurus 2018): la birra cruda, oggi particolarmente apprezzata, è infatti una birra non pastorizzata e non filtrata.

Riprendendo il discorso sull’olio, i dizionari storici registrano una varietà di olio crudo chiamata olio onfacino (o omfacino, omphacino, onfangino), ricavata dalla ‘spremitura delle olive non ancora mature’ e usata per scopi medicinali (GDLI, s.v. onfacino). Lo stesso GDLI lo registra per la prima volta nei testi quattrocenteschi del medico, umanista e scienziato padovano Michele Savonarola: “Di l’olio sapi che più confortativo dil stomaco... è l’olio crudo, zioè facto di olive immature, dicto onfacino”. Altre attestazioni, sempre secondo il GDLI, nel Ricettario fiorentino del 1567: “olio rosato onfangino”; nel Volgarizzamento di Dioscoride del medico e naturalista cinquecentesco di origine senese Pierandrea Mattioli (Dei discorsi… nelli sei libri di Pedacio Dioscoride Anazarbeo della materia medicinale, Venezia, 1585): “Lo olio, che si cava dalle olive immature, il quale chiamano omphacino, ciò è acerbo, è ottimo per l’uso de’ sani, e di questo quello è il migliore che è nuovo, odorato e non mordace”; nell’Herbario novo di Castor Durante del 1602 (Venezia; 1a ed. Roma, 1585): “Quello [olio] che si fa delle olive immature, chiamato omphacino, ha tanto in sé di frigidità quanto vi si gli ritrova del costrettivo”; nella Coltivazione toscana di Vitale Magazzini del 1625 (Venezia): “Alla fine del mese [di settembre] si colgono l’ulive acerbe per indolcire ed anco per fare l’olio vergine onfacino medicinale per le spezierie”; nel Corso d’agricoltura di Marco Lastri (Firenze, 1801-1803): “Gli antichi ebbero ragion di tener l’olio omfacino per cosa delicata e di lusso”; e, infine, nella raccolta degli scritti di Vincenzo Padula, pubblicata postuma con il titolo Persone in Calabria (Firenze, 1950): “S’impiagano malamente le piante, e si hanno olive immature, delle quali non è ancora uso di cavare l’olio onfacino”.

Si tratta di una voce dotta, derivata dal lat. tardo omphacinus, dal gr. ὀμφάκινος, deriv. da ὀμφάκιον, a sua volta deriv. da ὄμφαξ -ακος ‘uva acerba, agresto’. Con lo stesso significato ed etimologia l’aggettivo onfacino, in riferimento all’olio, è messo a lemma (accanto alla variante omfacino) nel Vocabolario dell’Accademia della Crusca, nella quinta impressione, in cui viene confermato il significato di olio “che si spreme dalle olive non ancora mature; acerbo; e dicesi d’olio, adoperato per uso medicinale”, con rinvio per la prima attestazione ancora al Volgarizzamento di Dioscoride, già citato per il GDLI, ma alla versione realizzata da Marcantonio Montigiano nel XVI secolo (Dioscoride Anazarbeo, Della materia medicinale, tradotto in lingua fiorentina per Marcantonio Montigiano, Firenze, Giunti, 1546 o 1547): “L’olio che si cava delle ulive verdi detto onfacino, ciò è acerbo, è, da’ sani usato, per la sanità utilissimo.... Con questo si conciano gli altri olj”. Il Vocabolario della Crusca registra anche il valore sostantivale di onfacino (riferito all’olio) nel passo del testo già citato di Marco Lastri, Corso d’agricoltura: “Più degli altri provarono il detto effetto del gelo gli omfacini; anzi questi, anco dopo d’essere sciolti, lasciarono un certo sedimento”. In maniera simile il Tommaseo-Bellini (1865, online) lemmatizza l’aggettivo onfacino, segnato con la crux a indicarne la desuetudine, con il significato di ‘aggiunto dell’olio che si cava dall’ulive immature’.

Si parla ancora di olio onfacino nella Memoria su i saggi diversi di olio e su della ragia di ulivo della penisola salentina messi come in offerta a Sua Maestà imperiale Caterina II la Pallade delle Russie da G. P., opera pubblicata a Napoli nel 1786 dal medico e agronomo salentino Giovanni Presta e dedicata dall’autore all’imperatrice di Russia Caterina II. Nel suo studio sulla coltura degli ulivi, Presta riprendeva dal passato (in partic. da Teofrasto, Catone, Columella e Plinio) la classificazione di quattro tipi diversi di olio derivati dal grado di maturazione dell’oliva, in cui tra le denominazioni dell’olio onfacino, considerata la più “dilettevole” tra le quattro varietà, c’è proprio l’oleum acerbum o crudum:

Il primo veniva detto dai Greci Onphachinon, ed Omotribes, e dai Latini Oleum acerbum: Æstivum: crudum: spanum; veniva detto in secondo oleum viride: oleum strictivum: oleum ad unguenta; si distingueva poi il terzo col nome di oleum maturum: oleum cadivum: oleum Romanicum: oleum commune; e l’ultimo finalmente appellavasi oleum cibarium (si cita dall’ed. del 1855, Lecce, Per Giuseppe Saverio Romano, p. 24).

Però, ancora oggi alcuni frantoi italiani producono e promuovono tra i loro oli migliori un tipo di olio extra vergine di oliva onfacino (usato anche nella variante omfacino), considerato di altissima qualità perché lo si ottiene da olive raccolte mediante procedimenti meccanici direttamente dalla pianta durante l’invaiatura (l’inizio della maturazione), che garantiscono un olio di particolare pregio e con una bassissima acidità.

A usi molto lontani da quelli alimentari è destinato invece un altro tipo di olio crudo, quello di lino, un olio vegetale ottenuto dalla spremitura di semi di lino precedentemente essiccati o tostati che, a differenza di quello cotto, non viene sottoposto a cottura. Il suo utilizzo è particolarmente indicato per il primo trattamento di un legno, mentre quello cotto è più indicato per il restauro e/o la conservazione di mobili antichi, e impermeabilizzazione di pavimenti in “cotto”. Niente a che vedere, quindi, con la cucina.

Più in generale, l’espressione a crudo nei vocabolari è attestata fin dalla lingua del Trecento, ma anche in questo caso senza nessun legame con la tavola: compare, secondo il TLIO (s.v. crudo), in un documento giuridico in volgare di origine siciliana del 1349 nella locuzione nominale muro a crudo, cioè ‘non cotto, di mattoni non cotti’: “Item casalinu unu muratu di muru a crudu lassau a Sanctu Nicola”; e anche nel Tommaseo-Bellini l’espressione a crudo indica l’”operazione fatta sopra le cose di terra prima di cuocerle”, con rinvio al trattato Dell’historia naturale (Napoli, 1599) del farmacista e naturalista di origine napoletana Ferrante Imparato: “Sono adunque de gli vasi di terra, altri una volta, altri due volte cotti: e altri di loro coloriti a crudo, altri dopo la prima cottura”.

La locuzione italiana a crudo potrebbe essere dovuta a un influsso del francese; in effetti il TLFi, s.v. cru2, registra l’espressione à cru nel senso di ‘in contatto diretto con…’, ‘direttamente su…’, documentata fin dal sec. XIV, nella letteratura cavalleresca (armé a cru), in contesto anche in questo caso ovviamente non di tipo culinario (cfr. Pietro Fanfani e Costantino Arlìa, Il lessico della corrotta italianità, Milano, Libreria d'Educazione e d’Istruzione di Paolo Carrara, 1877, s.v. a, “I nuovi Italiani mangian la costola, la bistecca a’ ferri; non più in gratella! E così per costoro gli spaghetti sono al burro o al pomodoro e non col burro o col pomodoro”).

Come si è già potuto osservare, è oggi possibile incontrare, quando si tratta di condire un piatto con l’olio, entrambe le locuzioni: olio crudo e olio a crudo, tanto nei ricettari stampati quanto nelle ricette consultabili in rete. Ma la locuzione a crudo possiede in cucina una valenza più ampia: è usata sia per indicare l’aggiunta dell’olio o di altri condimenti a una pietanza, sia per la preparazione di cibi da realizzare quando sono ancora crudi o subito dopo averli cotti, tolti dalla fiamma.

In alcuni casi, a distinguere graficamente l’espressione con la preposizione a possono esserci le virgolette, quasi a marcarne il significato particolare, l’uso specialistico che se ne fa in cucina:

Per condire utilizzate sale iposodico iodato, aceto […] o limone, tutti gli aromi, 4-6 cucchiaini di olio extravergine di oliva al giorno, sempre “a crudo” sugli alimenti (Evelina Flachi, La dieta Flachi, Milano, Rizzoli, 2010, p. 53, e-book);

e anche nelle ricette su internet:

L’olio nuovo? Meglio se usato “a crudo” – Fagioli al Fiasco (IlBottaccio.com).

Si tratta di due espressioni che hanno comunque particolare diffusione anche in relazione alle nuove tendenze alimentari che promuovono il consumo di ingredienti naturali e non trattati, tra le quali negli ultimi anni ha avuto un certo riscontro il raw food, la ‘dieta crudista’ (o cucina crudista, cucina a crudo, mangiare a crudo ecc.), così chiamata perché chi la segue assume alimenti non sottoposti a cottura (in particolare frutta, verdure, germogli, fiocchi di cereali, ma anche alimenti di origine animale come uova, pesce e carne bovina), in quanto ritenuti più sani. Nell’ottica di questi stili alimentari l’aggettivo crudo, quando riferito a un cibo, sembra dunque assumere il significato di “naturale”, “genuino”, “non sofisticato o adulterato”. Ecco allora che in alcune diete si consiglia ad esempio “l’integrazione durante i pasti di un cucchiaio al giorno di olio crudo non raffinato, cioè spremuto a freddo” (Paolo Buonarroti, Identikit cancro, Book Sprint Edizioni, 2013, p. 91). E le stesse espressioni di olio crudo e olio a crudo (allo stesso modo di birra cruda citata poc’anzi) diventano persino dei marchi commerciali (i cosiddetti brand): Crudolio è infatti il marchio di una vera e propria linea di oli crudi, che nel sito dell’azienda vengono definiti «“vergini”, perché ottenuti tramite spremitura meccanica e non raffinati da processi industriali» (https://www.crudolio.it); e si pensi ai tanti ristoranti e pizzerie chiamati Olio a crudo, spesso d’altissimo pregio, diffusi sia in Italia sia all’estero.

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