Consulenze linguistiche

“Non se ne può plus!”: i (neo)latinismi e la loro pronuncia

  • Riccardo Gualdo
SOTTOPOSTO A PEER REVIEW

DOI 10.35948/2532-9006/2022.16702

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Quesito:

Molti lettori ci segnalano la pronuncia “all’inglese” di plus.

“Non se ne può plus!”: i (neo)latinismi e la loro pronuncia

Qualche tempo fa, nelle settimane iniziali della pandemia da Coronavirus, l’allora – e tuttora – ministro degli esteri Luigi Di Maio fu rimproverato per aver pronunciato all’inglese la parola virus. Anche se non lo si intuisse dalla forma, basta consultare un buon vocabolario per capire che virus è già del latino, nel significato di ‘succo di una pianta, veleno’; con qualche sforzo in più si può scoprire che i primi esempi della parola in una lingua moderna si trovano alla fine del Quattrocento nelle traduzioni francesi del trattato di chirurgia di Guy de Chauliac, celebre medico vissuto un secolo prima, e che un altro medico francese, Ambroise Paré, ne affermò autorevolmente l’uso a metà Cinquecento per indicare il pus infetto e contagioso di una piaga; un altro latinismo, pus, da cui l’agg. purulento, analogo per formazione a virulento da virus.

È sempre viva la discussione tra chi difende la pronuncia latina (e italiana) di mass media e chi invece parteggia per quella anglicizzante. Virus, media, e anche plus sono parole latine tornate in circolazione in Europa per via colta, mutando significato in modo più o meno intenso rispetto all’antico: il virus non è un veleno, anche se può produrre gli stessi esiti funesti; il medium non è uno spazio intermedio, ma piuttosto uno strumento, un veicolo. L’avverbio latino plus ha sostanzialmente lo stesso significato dell’italiano più, che ne deriva; ma l’uso cui fanno riferimento i lettori corrisponde a un sostantivo neutro – ‘un di più, qualcosa in più’ – e arriva nella nostra lingua modernamente attraverso altre lingue, per l’appunto il francese, l’inglese e il tedesco.

È probabile che l’origine remota vada cercata negli inventari e nei registri contabili e notarili, dove plus, preso pari pari dal latino, era scritto prima di menzionare un oggetto che si aggiungeva all’elenco, come item ‘ugualmente, inoltre’. E proprio come item, che più tardi è stato sostantivato per indicare ogni singolo elemento di un elenco, plus è stato usato per ‘qualcosa in più’, un’eccedenza, o – in senso positivo – un valore aggiunto. È proprio ‘valore aggiunto’ la spiegazione che la versione informatizzata del Trésor de la langue française dà della parola composta plus‑value, all’origine dell’italiano plusvalore. Già a fine Settecento (ma ve ne sono esempi anche più antichi), nel linguaggio economico plus-value (femminile, value corrisponde all’italiano valuta) è l’aumento di valore o di rendimento di un bene per ragioni di mercato. All’accezione “liberale” si aggiunge poi quella della teoria marxista, dove al plus-value francese corrisponde il tedesco Mehrwert a indicare la differenza tra il costo della forza lavoro di un operaio e il prodotto che ne ricava il capitalista.

In plus-value plus – ormai del tutto francesizzato – assume già la funzione di un prefisso, e il modello francese attecchisce presto anche in italiano, dove plusvalenza ‘aumento del valore di un bene rispetto al suo costo’ è già usato nel 1863 dal quotidiano milanese “La Perseveranza”, come segnalò Andrea Masini, mentre plusvalore sarà registrato nel 1905 da Alfredo Panzini nel suo Dizionario moderno (cfr. le rispettive voci del DELI). Pochi anni dopo Vilfredo Pareto scrive, separando, plus valore (cfr. GDLI, Supplemento 2007), e così fa anche Luigi Sturzo, come si ricava da una ricerca nella banca dati del VoDIM (Vocabolario dinamico dell’italiano moderno e contemporaneo). Per plusvalenza Luigi Einaudi propose nel 1948 l’italianizzazione sopravalore, che tuttavia non ha avuto fortuna. Plusvalenza, soprattutto con il plurale plusvalenze, è entrata stabilmente nei testi di legislazione economica, dove almeno dagli anni Novanta del secolo scorso si trova anche l’aggettivo plusvalente (beni plusvalenti, in diritto tributario), ancora poco presente nei dizionari dell’uso; noto però che l’ultimo aggiornamento dei Neologismi Treccani registra l’aggettivo e sostantivo plusvalente per un giocatore di calcio il cui valore di mercato attuale sia superiore a quello che aveva in precedenza.

Sempre prendendo a modello il francese, ma probabilmente con la complicità di inglese e tedesco, nella lingua dell’economia il plus è stato presto affiancato dall’opposto minus ‘meno’ in minusvalenza. Su quest’ultima parola la lessicografia italiana è stata finora parca di indicazioni: la registra solo il Supplemento 2004 del GDLI, con un esempio del 1983, tratto dalla rivista “l’Espresso”. Ma le più aggiornate risorse digitali, e la ricerca di singoli studiosi, offrono indicazioni che sollecitano ulteriori approfondimenti: nella banca dati ArchiData, che raccoglie retrodatazioni lessicali sempre per il progetto VoDIM, Gianluca Minetto ha inserito un esempio di minusvalenza dalla terza edizione (Napoli, 1858), del trattato di diritto civile internazionale Dell’uso e autorità delle leggi del Regno delle Due Sicilie considerate nelle relazioni con le persone e col territorio degli stranieri di Nicola Rocco; grazie alla riproduzione della pagina, si scopre due righe dopo anche plusvalenza:

E se pur accada che il valor de’ beni ereditarii d’un dato paese sia al / di sotto della somma de’ debiti, la minusvalenza di quelli sarà appareggiata con la plusvalenza di quegli altri beni che son altrove.

Dunque la coppia circolava già tra gli specialisti almeno dal 1858.

Perché penso a una trafila francese? Perché nel lessico economico francese a plus-value si affiancava già da tempo moins-value: è probabile, ma andrà verificato, che gli economisti italiani abbiano preferito minus-, forse ispirandosi ad altre lingue europee, a un possibile *menovalenza (o sottovalore, per seguire l’esempio di Einaudi).

Come si vede, le sorti moderne del latino plus seguono vie impreviste e non sempre lineari attraverso il lessico colto europeo, con influenze incrociate: in tutte le parole fin qui considerate la pronuncia è oggi senz’altro quella latina. Come si spiega quella anglicizzante di plus segnalata da alcuni lettori?

Diciamo intanto che il Vocabolario Treccani lemmatizza plus spiegando che è usato “anche per imitazione dell’uso ingl. e ted.” al posto di più “per indicare un’eccedenza, un incremento […] o per indicare il segno di +”, e informa che in radiologia l’espressione immagine di plus indica l’estroflessione di un organo cavo, come lo stomaco e il duodeno, dovuta a un’ulcera. Suggerisce dunque che la fortuna di plus sia stata incoraggiata dal modello angloamericano, ma – limitandosi agli usi specialistici (economico, matematico e medico) – non dice qualcosa che il parlante può facilmente intuire e che trova conferma nella consultazione di un qualsiasi corpus d’italiano contemporaneo: l’uso dilagante di plus per ‘di più, valore aggiunto’ è trascinato potentemente dalla lingua pubblicitaria. Prendo, tra i molti possibili, un esempio dal “Corriere della sera” del 1996: “[…] una BMW serie 5 con cinque plus. Il primo è il design”. Quando si passa ai messaggi orali, veicolati da radio e televisione, è facile che plus sia pronunciato [plʌs] (o più probabilmente [plas], semplificando il vocalismo angloamericano).

La tendenza all’anglicizzazione è confermata dalla vicenda di un’ultima parola, imparentata con plus e con i suoi derivati moderni: surplus. Il prefisso sur-, sviluppo del latino super, manifesta a colpo d’occhio l’origine francese della parola, cui tuttavia Bruno Migliorini, registrandola nell’Appendice (1950) al Dizionario moderno del Panzini, attribuiva un passaggio attraverso l’inglese. In effetti il surplus diventa d’uso comune a proposito dei beni economici in eccedenza derivati all’esercito statunitense dall’economia di guerra: lo confermano le attestazioni più antiche dei nostri dizionari etimologici e storici, che oscillano tra il 1948 e il 1949. Così il Vocabolario Treccani dà senz’altro come prima pronuncia quella inglese, e propone perfino il plurale surpluses, pur registrando l’origine francese e la diffusa pronuncia surplùs “per condizionamento del francese”. Ma di nuovo la banca dati VoDIM scombina un po’ le carte: surplus trova una precoce attestazione nella “Gazzetta piemontese” del 1887, a proposito di un “surplus nelle entrate” per “cento milioni di dollari”, un’altra dalla “Stampa” del 1947: «109 milioni dal Fondo Fea, e 70 milioni dai “surplus” dell’esercito alleato» e infine il raro anglicismo surplusage in una citazione inglese negli Scritti giovanili del critico d’arte Roberto Longhi (1912-1922).

Provo a tirare le somme: che plus sia un latinismo è fuor di dubbio; tuttavia il suo uso recente si deve alla pressione combinata del francese e dell’inglese, con l’interferenza del tedesco di Marx per l’accezione specifica di plusvalore nella sua opera e nel pensiero economico marxista. La parola circola a lungo prevalentemente per iscritto e in testi specialistici, in primo luogo economici e poi anche d’altre discipline, ma arriva nell’uso comune in anni più vicini a noi e certamente attraverso l’angloamericano; questo spiega la diffusione della pronuncia anglicizzante, che ormai colpisce indiscriminatamente i latinismi e gran parte dei forestierismi di altra origine, così come in passato si pronunciavano alla francese le parole inglesi. Entra così nel novero non solo dei tanti anglo- o eurolatinismi del lessico italiano contemporaneo, ma direi meglio nel gruppo delle parole del linguaggio merceologico, come bonus o premium (chi non l’ha mai sentito pronunciare prìmium?), che poco hanno di latino nel significato attuale, ma del latino conservano la grafia, restando generalmente invariabili al plurale.

Difficile dare un suggerimento che valga per tutte: quando una forma è entrata in circolazione per via scritta, è normale che la pronuncia sia quella alla latina, o meglio all’italiana, posto che non sappiamo con sicurezza come si pronunciasse nel latino classico, del quale peraltro abbiamo perduto l’accento melodico. Se la diffusione avviene attraverso i mezzi di comunicazione sonori e audiovisivi, è alto il rischio che prevalga l’imperante pronuncia inglese, perlopiù statunitense. In questi casi è solo l’uso a decidere: una ricostruzione storica, anche approssimativa come quella che ho tentato in queste righe, può essere d’aiuto a comprendere le radici degli usi attuali, ma non può certo indirizzarli o correggerli.

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