DOI 10.35948/2532-9006/2023.27899
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Una lettrice ci scrive che da qualche tempo le capita di sentire usare la voce narrativa in luogo di narrazione: si tratta dell’influenza dell’inglese narrative o i due termini possono essere “interscambiabili”?
Da qualche anno nel linguaggio politico si fa un largo uso di narrazione o di narrativa. All’inizio c’è la teoria della comunicazione che ha osservato come la costruzione narrativa del discorso sia particolarmente efficace per chi cerca il consenso politico, perché le forme discorsive della narrazione sono più efficienti di quelle logico-argomentative, favoriscono processi di identificazione collettiva, coinvolgimento emotivo, consenso diffuso, come dimostra il formato narrativo dei grandi miti fondativi dei popoli e delle culture. Gli specialisti sostengono che “la struttura narrativa si inserisce meglio nelle necessità di schematizzazione della memoria rispetto ad altre organizzazioni associative del discorso” (Gianluca Giansante, La narrazione come strumento di framing, “Hologramática”, 10 vol. 2, 2009, pp. 21-43: p. 24) e che una proposta politica inserita dentro la narrazione di un evento o una biografia o addirittura un’autobiografia, risulta, grazie ai tratti fantasiosi e avvincenti che sono propri del racconto, più convincente. Ma questo è il significato dato a queste parole dagli studiosi, dagli esperti di comunicazione, dagli assistenti specializzati nel preparare e seguire i discorsi e le autopresentazioni dei leader politici. Costoro non fanno confusione tra narrazione e narrativa, che è quasi solo aggettivo (“costruzione, struttura narrativa”) e se usano narrative si tratta dell’anglismo non adattato come in
L’esigenza di sviluppare il discorso politico su più piani contemporaneamente e il dover innescare il giusto equilibrio tra valutazione razionale e scelta emotiva, trova uno strumento eccellente nella narrative (Chiara Moroni, Dalla comunicazione politica alla narrazione politica: la sfida per i leader di domani, istitutodipolitica.it, 15/9/2011),
che sta appunto per la nostra narrazione. Gli addetti ai lavori ben sanno che l’inglese narrative equivale alla nostra odierna narrazione e non a narrativa (che in italiano, come sostantivo, vale oggi quasi solo come genere letterario (si pensi anche al “teatro di narrazione”, in cui un solo attore racconta i fatti, che non avvengono in scena) o come insieme di narrazioni, di racconti, di romanzi: “la narrativa italiana del Seicento, la narrativa di Calvino”) e quindi evitano la sovrapposizione tra i due termini nei loro lavori, perché, se la fanno, rischiano di essere stigmatizzati dalla loro comunità scientifica.
La confusione tra le due parole italiane, narrazione e narrativa, è invece più frequente e tollerata tra i politici ed è connessa al cattivo uso e all’abuso delle due parole che tra di essi sono diventati frequenti. Intendiamoci: i politici ricorrono spesso a quello che in inglese viene anche detto storytelling, a narrazioni, strategie comunicative di tipo narrativo che si insegnano ovunque, dalle scuole di scrittura a quelle di politica. Acute analisi del linguaggio di leader come Berlusconi e Renzi hanno sottolineato “il racconto di governo come fiaba” (Sofia Ventura), la disposizione narrativa ed emotiva, assai più che logica e argomentativa, della loro comunicazione pubblica. Ma quando i leader politici italiani usano metalinguisticamente narrazione e narrativa, spesso le confondono maldestramente o le adoperano erroneamente come sinonimi. E non credo che la cosa sia da attribuire alla loro conoscenza dell’uso antico e oggi desueto di narrativa per narrazione, da Giordano da Pisa a Gioberti (cfr. il TLIO e il GDLI alla voce) né alla familiarità col tecnicismo forense che dà a narrativa il significato di esposizione dei fatti. Il loro errore nasce invece da una competenza linguistica approssimativa che induce a conferire impropriamente a queste parole il significato (in fondo sotteso all’uso retorico che essi fanno delle vere e proprie narrazioni) di rappresentazione, affermazione, interpretazione, versione. Quando il sindaco di una città del Molise dichiara (come si legge su Internet)
bisogna ricominciare a parlare alla gente. Spiegare, per esempio, che l’immigrazione non può essere associata alla mancanza di lavoro. È una narrazione sbagliata, una narrazione di comodo, nella consapevolezza che la gente che non ha la pancia piena non ragiona, perde i lumi della ragione. (Gravina: «Il Movimento non morirà. Il cambiamento? Qui è in atto, a partire dalle nomine», primopiano.it, 4/2/2020)
dice cose sensate, ma usa impropriamente narrazione per presentazione, rappresentazione, interpretazione, affermazione, analisi (del fenomeno delle migrazioni). Dire o insinuare (come farebbero gli avversari del sindaco in questione) che i migranti tolgono il lavoro agli indigeni, non è una narrazione, ma una rappresentazione (distorta o comunque tendenziosa) di un fatto. Di narrativo c’è, forse, solo la sequenza temporale data abusivamente come nesso logico (prima le migrazioni poi la mancanza di lavoro), ma non c’è altro. Una volta si sarebbe detto errore, mistificazione, falsificazione. Oggi si tende a nobilitare il tutto come narrazione. Quando il ministro Di Maio afferma (nel 2018)
«Noi non usciamo dall’euro, noi ci stiamo bene, in Europa. Basta dire il contrario, è una narrazione sbagliata» (Roberto Scafuri, Travaglio e Grillo lo mollano. Di Maio si aggrappa ai No Tav, ilGiornale.it, 28/10/2018)
usa narrazione per interpretazione degli atti e detti del suo governo. La narrazione non c’entra. Non è un caso se nei discorsi dei politici l’aggettivo che spesso accompagna narrazione sia “sbagliata”: ora una narrazione può essere bella o brutta, convincente o deludente, noiosa o coinvolgente, ma non sbagliata, semmai mal fatta. Sbagliata è un’interpretazione, una rappresentazione concettuale, una valutazione, un’affermazione: tutti sinonimi per cui sta, nell’approssimativo linguaggio dei nostri politici, la parola narrazione.
È in questo modesto ambiente linguistico-culturale che è facile imbattersi anche nell’utilizzazione del sostantivo italiano narrativa (magari per pressione, non so quanto conscia, del citato inglese narrative) al posto di narrazione. Quando la (allora) ministra dei trasporti De Micheli dichiarava che “è una narrativa sbagliata che la Liguria sia irraggiungibile” (Caos autostrade in Liguria: disagi e code chilometriche smentiscono la ministra De Micheli, shipmag.it, 31/7/2020) , non solo diceva una cosa (purtroppo per me ligure) troppo spesso non vera, ma sbagliava anche doppiamente parola, perché usava narrativa al posto di narrazione e narrazione al posto di affermazione.
È consigliabile non eccedere in narrazione e ormai oggi sconsigliato confonderla con la narrativa.