DOI 10.35948/2532-9006/2022.18754
Licenza CC BY-NC-ND
Copyright: © 2022 Accademia della Crusca
Ci sono pervenute varie domande sull’espressione d’Egitto posposta a una parola (per lo più un nome), a sua volta preceduta da un che o un quale esclamativo, per indicare incredulità rispetto a un’affermazione o una richiesta precedente, in cui figura la stessa parola.
Molte esclamazioni del parlato, appena se ne scavalchi l’apparente banalità, risultano costituire un nodo di significatività culturali. È anche il caso di quel ma che (o quale)... d’Egitto che ha incuriosito i nostri lettori e che va interpretato in una luce affatto nuova. Si tratta di una formula a cui ricorriamo per smentire l’interlocutore e per revocare in dubbio la sua affermazione, o quanto meno relativizzarla. Un frequente elemento dei modi pragmatici e interattivi cui i parlanti si appellano: eppure, i linguisti gli hanno riservato un’attenzione quanto mai scarsa. Su di esso i riscontri sono rari, e tardivi. E, soprattutto, non forniscono alcuna spiegazione.
Un modo di esclamare che intriga. Che c’entra l'Egitto? Secondo il LEI (1.980 s.v. Aegyptus) “la locuzione che ... d’Egitto fa allusione alla lontananza dell’Egitto e al modo di vivere inconsueto di quel paese”. Ma non c’entra solo l'Egitto quale ‘paese remoto, esotico, favoloso’ e, dunque, nella prospettiva di molte persone, ‘strano e strambo’. Né siamo solo dinnanzi a una tessera di quel particolare atteggiamento mentale per cui le cose altrui, le persone estranee, gli altri popoli, ci appaiono tanto spesso in luce negativa. Dietro il motto stizzito sta, in origine, una ragione culturale più specifica.
La locuzione è rilevabile in un testo in dialetto milanese di Carlo Porta, le Desgrazzi del Giovannin Bongee (1812). Un’altezza cronologica, quella del primo Ottocento, in cui si infittiscono le registrazioni: Cherubini (1814, vol. 1. 134), Tramater (1834) ecc., tanto che nell’esclamazione qualcuno vuol vedere una possibile eco della spedizione napoleonica (1799) in Egitto (cfr. le note recate, in rapporto alle Poesie del Porta, nell’edizione Isella, Milano, Mondadori, 1975, pp. 71, 164, 183, 506). Ma l’espressione è anteriore, visto che affiora per la prima volta nel dizionario bilingue italiano-francese rielaborato dal Veneroni nel 1681. In limine, prima di tentare dei sondaggi, si impone dunque il richiamo all’indicatività di questa datazione, che ci riporta al tardo Seicento e al Settecento.
D'altronde, per l’esperienza storica e per la coscienza condivisa italiana, la spedizione di Napoleone non suscitò né grande interesse né intensa partecipazione emotiva. I francesi ebbero sì a coniare la qualifica égyptien per designare il soldato che aveva combattuto in Egitto (Balzac; TLF 7. 800); ma, per il carattere di fatto episodico e durato pochi mesi, e per non essere stati convolti, gli italiani non immisero nel loro immaginario la spedizione in Egitto. Ricordavano, invece, e come!, quella in Russia; cfr. ticinese e lombardo fa la fin da Napoleon a Mosca ‘fare grandi sforzi e cavarne un pugno di mosche’ (sentita ancora nel 1994, a Lugano): quello sì che, per il senso storico di molti italiani, fu un fatto memorabile. I modi di dire risentono, è ovvio, nella sostanza solo di fatti incisivi sull’esperienza condivisa o che durano o si ripropongono con frequenza alla coscienza comunitaria.
È necessario dunque prescindere da Napoleone come formante di base. Accludi, per l’area lombarda, anche quel che diceva il Monti nel suo vocabolario comasco (1845, 71): “Che lélor d’Egìt, che fandonie d’Egitto. Si allude con ciò ad alcune superstizioni venuteci da questo paese, delle quali anche ne’ nostri documenti ci rimane memoria. Catechismo della Biblioteca del Comune di Como, secolo XV: Dicono, che neli dì egiptiaci... non è bono comenzare alcuna cosa”. È il Monti (p. 125) ad avvertire che lélora indicava ‘fandonia, menzogna’. Il Monti scrive nel 1845. È pensabile che, se si fosse trattato effettivamente della spedizione di Napoleone, il ricordo ne fosse del tutto spento a pochi anni di distanza?
Si deve, secondo noi, andare in un’altra direzione. Nel motto con cui neghiamo legittimità alle affermazioni o richieste dell’interlocutore, proponiamo di riconoscere la traccia del rifiuto che, come dimensione dell’errore e teoria non veritiera, si diede dell’ermetismo che venne in voga durante il Cinquecento per durare, in parte, anche nel Seicento e Settecento, e che venne collegato appunto all’Egitto e agli antichi egiziani. Sull’ermetismo ampi sono gli studi: vedi a mo’ d’esempio Umberto Eco, I limiti dell'interpretazione (Milano, Bompiani, 1990, pp. 41-99) che reca un’ampia bibliografia. È noto quanto fosse radicata nell’antico Egitto la propensione alle pratiche magiche: basti qui il rinvio a Frazer (Ramo d'oro 1.405), là dove sottolinea l’intensità con cui l’antica cultura egizia ricorreva alla magia. I maghi egiziani si servivano dei mezzi più disparati per impossessarsi del nome della divinità: chi possedeva il nome di un dio ne possedeva anche l’intima essenza, e lo piegava dunque all'obbedienza.
Contro la ripresa di interesse per queste concezioni (in altra prospettiva: infatuazioni) dovevano alzarsi diverse voci, prima fra tutte quella della Chiesa, che deprecò la passione per queste teorie e ne sottolineò l’intima falsità. Un rifiuto di cui ampi strati della popolazione dovevano, almeno nei tratti essenziali, aver notizia, al punto da interiorizzarli e farli diventare un modo di dire, che dura ancora oggi in maniera così salda.
Siamo, con storie d’Egitto e con ma che scuse d’Egitto, dinnanzi all’eco (condivisa, fatta propria dall’oralità) del rifiuto cristiano ed europeo delle interpretazioni ermetiche. Anche le coincidenze cronologiche con la prima attestazione sono significative. Occorre rifarsi al rifiuto sviluppato dalla Chiesa e da altre istanze contro la dottrina di Ermete Trismegisto (il nome greco di Thot), il dio egiziano della scrittura e del sapere, e contro il Corpus Hermeticum che, steso attorno al II secolo d.C., venne riproposto nella Firenze del Rinascimento. Ermete, considerato mago e incantatore, fu messo in connessione con un insieme di pratiche magiche e di dottrine occulte che, in ambito cristiano, fu recepito come disvalore: venne presentato come non verità, come cumulo di cose inaccettabili, inconsistenti. Donde la qualifica di storie d’Egitto che i parlanti avanzarono e avanzano in tono di rifiuto.
Nel Seicento molti studiosi e teologi presero posizione contro l’Egitto come regno dell’idolatria e persino del demonio. Così (ma non è che un caso) il celebre gesuita di Fulda Athanasius Kircher (1602-1680), il quale, trasferitosi a Roma (1635) insegnò matematica, fisica e lingue orientali al Collegio Romano. Nel suo Oedipus Aegyptiacus, edito a Roma nel 1652-1655, accanto a letture fantasiose dei geroglifici, sosteneva che l’idolatria proveniva dall’Egitto; una tesi che, in un periodo di perdurante minaccia dell’ermetismo, sarebbe stata ripresa, ad esempio, nel 1711 dall’abate Banier: nelle sue Explications des fables identificava l’idolatria egiziana con il culto del sole. Del resto, un richiamarsi ai “misteri” egiziani si verificherà anche più tardi, come quando, alla fine del Settecento, il Cagliostro fonda la framassoneria egiziana, anch’essa respinta dagli ambienti ecclesiastici.
Per il seguito forniamo alcune delle varie utilizzazioni che è stato possibile assodare. Ma converrà dire subito come motti e nessi (divenuti) fissi sull’Egitto non si limitino al tipo: avvocato quello? ma che avvocato d’Egitto! Si tenga inoltre presente la visione di matrice biblica di cui si poteva risentire un riflesso in negativo dell’Egitto; e vedi ancora, quasi a formare un altro nucleo, la dimensione esotica dell’Egitto stesso.
Seguendo dunque un procedere tendenzialmente cronologico, si ricorderà, per il fattore biblico, il fatto che esso fu luogo della cattività degli Israeliti. A partire da san Gerolamo, la teologia cristiana interpreta il richiamo all’Egitto quale spazio delle “tenebre” e dell’oscurità: tornare in Egitto o andare in Egitto veniva sentito e detto come un ricadere nelle tenebre e nel paganesimo, era un tornare ad essere prigionieri della menzogna.
Valgano da esempio le allusioni che Fulvio Testi (Ferrara 1593 - Modena 1646), uno degli scrittori che meglio rappresenta la vena sentenziosa e civile che attraversa il Seicento, immette in certe sue lettere. Il 22 agosto 1628 scrive da Modena: “Il signor Duca avea deliberato di mandarmi residente a Napoli e ne avea data parte al signor Principe. Io, che mi vedeva in procinto d'uscire di queste tenebre d'Egitto, m’andava già figurando d’essere in braccio alle sirene...”. In altra lettera, del 30 settembre 1634, annuncia: “Di tutte le particolarità darò distinto ragguaglio a V.A. in viva voce, perché dimani mi porrò in viaggio a cotesta volta, rendendo infinite grazie a Dio benedetto et all’A.V. che fuori di quest’Egitto mi riducano nella terra di promissione” (Fulvio Testi, Lettere, a cura di Maria Luisa Doglio, Bari, Laterza, 1967, vol. l, p. 179; vol. 2, p. 430).
Frequenti le occasioni in cui l’Egitto fu visto come il paese in cui ci si abbandonava alla magia e alla superstizione. La cultura cristiana (per l’Italia il Cavalca, Guido da Pisa, il Passavanti) rifiutava ad esempio in modo categorico la teoria dei giorni egiziaci, “i giorni considerati infausti, la lista dei quali, due per ogni mese, risalente all’antichissimo calendario egiziano, si diffuse in occidente insieme con altre superstizioni della scienza divinatoria e fu accolta nel calendario ufficiale del tardo impero romano, acquistando fede anche presso molti cristiani” (GDLI 5. 66; cfr. “Lingua Nostra” 13. 69 e LEI 1. 974). Una tipologia, questa, che fu molto diffusa in Europa e da cui doveva pure scaturire il castigliano aciago, che, muovendo anch’esso dal latino aegyptiacum, indicava i giorni ritenuti funesti (G. Colón, in “Zeitschrift für romanische Philologie” 78. 69) e, per i francesi, jours égyptiaques (P. Meyer, in “Romania” 6. 3 e TLF 7. 800). Queste credenze venivano rifiutate dalla cultura cristiana e occidentale giacché immettevano un principio di fatalità che si opponeva all’impegno personale e contrastava con la responsabilità del singolo.
Diversa l’area, ma analoga la sostanza di tipo ermetico per altri dati di fatto: in Germania a lungo (fin verso il 1850) vennero chiamati “segreti egiziani” certi libri di magia attribuiti a estensori diversi, tra cui Alberto Magno; cfr. HDA 3. 454 alla voce ägyptische Geheimnisse. Giusta un’ulteriore notizia avanzata in HDA 1. 223, ancora intorno al 1920 in diverse zone della Germania certe superstizioni di segnare il fuoco e altri riti eterodossi erano qualificate di ägyptisch, di egiziane.
Altro fatto che doveva incidere fu la presenza di zingari nei paesi dell’Europa occidentale, presenza che diviene importante a partire dai primi decenni del secolo XV. Con il primo Quattrocento compaiono in Italia e in Francia folti gruppi di vaganti: che spesso si protestano originari del Basso Egitto. La coscienza pubblica avverte per la prima volta la loro presenza a Parigi nel 1427, fatto da cui, tra altro, doveva scaturire quel qualificativo di égyptien, ‘vagabond, bohémien’, che è attestato a partire dal 1453 e tuttora vitale.
Su questo dato “mitico” dovevano pure radicarsi il castigliano ser un gitano, ‘essere uno zingaro’ (da *aegyptianus), e l'inglese gipsy ‘zingaro’, derivato da aegyptius. Il Pulci (Morgante XXVI, 47) scriveva: “Quivi eran Zingani, Arbi e Soriani, / dello Egitto e dell'India e d'Etiopia, / e sopra tutto di molti marrani / che non avevon fede ignuna propria...”.
Ancor alla fine degli anni Ottanta, in Italia e in Francia, ci si imbatteva in maghe e zingare che, risolute, pretendevano di provenire dall’Egitto. Alcuni capi zingari si qualificano tuttora di duca o conte del Piccolo Egitto. Una prova in più, se fosse necessaria, di quanto la cultura subalterna si inarchi sovente sulle lunghe durate.
Ma è tempo di recare almeno alcuni dei dati raccolti in rapporto ad Egitto nel ricorso all'intercalare di rifiuto. Frequenti ad esempio i ricorsi in Porta, ricorsi che furono presenti a diversi autori lombardi; essi, peraltro, avevano di fronte l’uso condiviso. Che il motto fosse per esempio ben noto ai lombardi è testimoniato nel 1814 dal Cherubini:
Egitt, o Gitt (de), Zucche, Finocchi, Zucche marine, Zucche marinate, Zucche fritte. Sono cose immaginarie, pretensioni sciocche e simili: tutti modi bassi che si usano quando non si mena buono ad uno il suo discorso, o per disimpegnarsi da una categorica risposta. Per esempio: El sarà staa on boeu... Che boeu d’Egitt! Sarà stato un bue... Bue? Finocchi. Cioè: non è stato un bue, mal ti apponi, t’inganni. Il volgo fiorentino direbbe anche più a capello: Che bue de' miei corbelli?
Nel suo repertorio cremonese (1847) il Peri spiegava:
d’egitt suolsi aggiungere rispondendo alla cosa che si nega; per esempio dica uno: vo sragiounèe, voi favellate a disragione: e l’*’altro gli risponde: che sragiounaa d’egitt? Io favello a disragione? Zucche fritte; oppure: che disragione de’ miei corbelli?
Richiamato il piemontese Sant’Albino, vedi, per le parlate parmigiane, le giunte del Peschieri, e altri testi ancora. Nel 1976 registra il Dizionario cremonese: “ma che scüsa d’Egitt, non ci sono scuse!: aggiunto ad un verbo o a un aggettivo, serve per indicarne il contrario”.
Quanto all’immissione in testi stesi in lingua, accanto a Beltramelli, Borgese e Gadda addotti dal GDLI 5. 66, vedi ad esempio, il Demetrio Pianelli, di Emilio De Marchi (1890):
«Uff!» fece il buon padrone, voltandosi per due terzi sui gomiti a guardare nella piazza dove la folla andava agglomerandosi e crescendo. Il Pianelli era stato buon indovino. Palmira aveva proibito assolutamente di dare più un soldo a questa gente bislacca e bisognava ubbidire.
«Senti, ti faccio anche una cambiale, se vuoi.»
«Che cambiale! non posso, perché non ne ho.»
«Sai, son debiti d'onore!»
«Che onore d'Egitto! l'onore è quando si lavora e si paga il lavoro degli altri.»
«C'è onore e onore, Pardi, e spiace sempre di fare una cattiva figura.».
Situazione di dialogo anche nel Perelà di Aldo Palazzeschi (ed. del 1954, p. 20). Si parla delle tre "madri" dell'uomo di fumo: “– Da giovani dovevano essere delle poco di buono. – Delle cialtrone. – Qualche pasticcio ci dev’essere stato. – Quelle vecchiette avevano il ganzo. – Ma che ganzo d’Egitto”.
Un altro brano dialogico si incontra nell’Adalgisa di Gadda:
Non pensarci cara, a certe tristezze, disse Elsa assai triste, con una sincera pietà. «Rasserenati... hai almeno i tuoi figli...»: e un pianto le velò improvvisamente gli occhi. - «Non voglio rasserenarmi, che rasserenarmi d’Egitto», gridò l’altra con una rabbia crescente, facendo volgere chi passava» (Gadda 1988, p. 512).
Più rapido può riuscire il discorso a proposito di altri, più chiari motti, che erano noti attraverso la lettura della Bibbia. Un tale gonfiava le cose, esagerando ad esempio certi suoi disturbi? Si sbottava: sei una piaga d’Egitto, intese le piaghe con cui Dio aveva colpito i sudditi del Faraone, un motto che circolava almeno dal 1370, ovviamente, anche in altre culture: i francesi parlavano delle plaies égyptiaques. In Italia, fino a qualche anno fa, chi era affannato da un molesto prorompeva: ma smettila di annoiare, piaga d’Egitto. Oggi il motto è, quanto a frequenza, in netta regressione. Echi biblici dell’Egitto come paese della prigionia e della perdizione si hanno anche in altre lingue: francese sortir d’Egypte, ‘sortir du monde pour se faire religieux’ (1721), retourner en Egypte, ‘reprendre des habitudes vicieuses’ (1721; FEW 24. 208-209). E sono di riflesso biblico anche il francese regretter les oignons d’Egypte e il tedesco sich nach den Fleischtöpfen Aegyptens sehnen, ‘anelare a un periodo felice che ormai è definitivamente trascorso’: un richiamo a Esodo 16. 3, con l’episodio degli Israeliti che si lagnano di Mosè e di Aronne e rimpiangono le pentole di carne di cui godevano in Egitto (Röhrich 1992 s. v. Fleischtopf). Anche certi inglesi parlano tuttora di to be sick for the flesh-pots of Egypt. Ancora: volver à las ollas de Egipto, come scriveva il Cervantes nel Quijote (parte prima, capitolo 22).
Risposta dura, analoga per tono, a ma che storie d’Egitto, è quella di ma va in Egitto che si butta contro il noioso che si vuol ‘mandare all’inferno’: un’apostrofe che abbiamo per esempio udita ancora nel 1985 a Bologna e nel 1987 a Roma. Anch’essa era improntata alla concezione biblica dell’Egitto come paese della non salvezza, della perdizione, dell’inferno. L’invettiva era corrente in diversi registri polemici dialettali. Ecco ad esempio nel 1869-1874 la Coronedi-Berti (1. 453) scrivere: “Egèt, Egitto. Andar in Egèt, maniera di dire per ‘scomparire’. L'è andà in Egèt, è sparito, è scomparso. Oh, va in Egèt, diciamo a chi c’importuna, licenziandolo sgarbatamente”. Impazienza anche nell’esclamazione comasca e mendrisiotta di va in Egitt per dire ‘ma va all'inferno, va a quel paese’ (1987). Le risponde va in Egit, va al diavolo, testimoniata per Voghera dal Maragliano (1976, p. 211). Lo sfogo eufemistizza va al diavolo e va all'inferno. Si dice pure: va a quel paese e: va al limbo (abbiamo colto al volo anche: va al limbo dei santi padri). Per scherzo o per eufemismo, va al diavolo venne (e viene) trapassato da una destinazione all’altra: va al diavolo, a casa del diavolo, all’inferno, al limbo, va a quel paese. In questa serie si doveva giungere anche a va in Egitto!
Ancora una nota per segnalare come non mancassero altre “risonanze egiziane", quali i racconti che favoleggiavano di principi egiziani “meravigliosi” per pratiche, abitudini e modi di vita. Ampia, tra gli europei, un tempo, la fama del soldano d’Egitto che nel 1187 tolse ai cristiani Gerusalemme e la Palestina: la perdita ebbe una tale eco che ne scaturì la terza crociata (guidata da Federico Barbarossa, Filippo II Augusto di Francia e Riccardo Cuor di Leone). La fama e, nel contempo, la “indefinitezza” del Saladino e del suo mondo erano suscettibili di evocazioni nella chiave del meraviglioso: un’aura di leggenda che rispondeva alla lontananza delle zone orientali e al bisogno di sognare di europei ed europee. Sul Saladino sono scontati rinvii come quelli al Novellino (nov. 114, nov. 25 e 71), a Dante (Inf. IV, 129), e al Decamerone (10. 9). Aggiungi, nella chiave della visione del “paese lontano”, un passo del Pulci (Morgante, XXVI, 111): “Rinaldo so ch’è in paese lontano / ed al presente si truova in Egitto / con Ricciardetto: così Gan m’ha scritto”.
Altro impatto nella chiave del “meraviglioso” è quello dei racconti sulle piramidi (spesso vantate con ampiezza di particolari e enfatizzazioni nel rievocare che facevano viaggiatori e reduci). A lungo le piramidi furono luogo topico nei racconti scritti e nel narrare orale. Valga da esempio un passo come: “Rinaldo le piramide a vedere è andato d’Egitto – gli rispose questo demòne” (Pulci, Morgante, XXV, 122, 1-3; cfr. anche XXV, 202). Come altri, il Pulci menziona più volte l’Egitto (Morgante XII, 75, XV, 110, XIX, 110, 153, XX, 55, XXV, 122, 131, 200-211, ecc.). Vedi inoltre la battuta “se recordelo dell’Armeno che gha’ vendù el lume eterno delle piramidi d’Egitto” (Carlo Goldoni, La famiglia dell'antiquario 3. 3. 46; Folena 1993, p. 685).
Da Folengo e i maccheronici prefolenghiani (1977, 1011) si rileva pure la cavalcata d’Egipto quale viene descritta dall’astigiano Giovan Giorgio Alione (1460-1521):
Hinc multi veniunt simili de sorte brusati
seu malastruti, tantum si scribere possem
de pinchiarolis ceterisque schiapafiglietis
qui vadunt feriis Lugduni breve narrabo.
Proprie tu diceres: – Hec est cavalcata d'Egipto –.
E, come ovvio, di richiami all’Egitto se ne avranno anche nei periodi successivi. Per il primo Novecento basti citare ancora l’Adalgisa gaddiana che ricorda la famosa cattura dell’Ateuco, lo scarabeo nero “che perfino i re dell’Egitto, ma pensa un po’ che epoca superstiziosa in confronto alla scienza del dì d’inkoeu, lo veneravano come un animale sacro, come un pavone...” (Gadda 1988, p. 522).
Nota bibliografica: