Temi di discussione

Ma conta ancora l'italiano letterario?

  • Vittorio Coletti
SOTTOPOSTO A PEER REVIEW

DOI 10.35948/2532-9006/2022.25865

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Copyright: © 2022 Accademia della Crusca


Premessa

Il tema del mese di Vittorio Coletti qui presentato ha una storia che merita di essere almeno accennata. Alla cerimonia di assegnazione del Premio Pavese 2022, il 5 novembre (una riunione della giuria, Gian Arturo Ferrari, Giulia Boringhieri, Chiara Fenoglio, Carlo Ossola, Alberto Sinigaglia, Pierluigi Vaccaneo, oltre al sottoscritto, si è tenuta proprio in Accademia della Crusca ai primi di luglio), mi ha colpito l'intervento del romanziere Michele Mari, che ha lamentato il disinteresse per la tradizione italiana da parte degli scrittori di oggi. Anche a me è capitato di pensare che spesso i modelli cosmopoliti dominanti, prevalentemente anglosassoni, non aiutino molto ad accrescere le qualità della scrittura. Ho poi letto un incisivo intervento di Giorgio Fontana in cui quasi si celebra un processo alla lingua troppe volte sciatta e banale di certa narrativa odierna. Poco prima, a Torino, il 2 novembre, si era svolto un piccolo convegno sul GDLI, il cosiddetto dizionario "Battaglia", e gli antichi redattori di quel mastodontico dizionario di taglio fortemente letterario (ricchissimo di letteratura del Novecento, e oggi presente in libera consultazione negli "Scaffali digitali" del sito della Crusca), nell'occasione, hanno chiesto che quella grande opera, almeno per i primi volumi, venga aggiornata con l'inserimento degli scrittori di oggi, gli autori italiani del nuovo millennio. La loro proposta è stata rilanciata in un articolo sul quotidiano "La Stampa" del 3 novembre firmato da Mario Baudino ("Aggiorniamo il Battaglia con la lingua degli scrittori di oggi", ed. di Torino del 3 novembre, p. 43), poi in un altro intervento di Andrea Parodi sullo stesso giornale ("Il Battaglia è il romanzo della lingua italiana. Salvarlo è difficile ma non impossibile", ed. di Torino del 4 novembre, p. 51), e infine, il 7 novembre, in una puntata della trasmissione radiofonica Fahrenheit. La mia impressione invece era ed è che il "Battaglia" sia un'opera conclusa, legata al momento storico che l'ha prodotta. L'inserimento degli autori del nuovo millennio non avrebbe particolari effetti, perché il contributo degli scrittori alla lingua italiana, assolutamente decisivo per secoli, dalle origini al Rinascimento, e ancora fondamentale fino all'Italia unita, rilevante nel Novecento, è oggi affievolito.

A questo punto, però, il dibattito sull'aggiornamento di un dizionario sfocia in un tema davvero importante: il ruolo degli scrittori rispetto alla lingua italiana di oggi e di domani; e poiché ci sono nostri accademici molto esperti di linguaggio letterario contemporaneo, e tra questi uno in particolare, Vittorio Coletti, autore della Storia dell'italiano letterario (uscita da poco in una Nuova edizione riveduta e ampliata), è ampiamente citato da Giorgio Fontana nell'intervento che ho menzionato poco sopra, ho deciso di sollecitare proprio Coletti, pregandolo di dire la sua sul tema in questione. Con la gentilezza di sempre, Vittorio Coletti ha risposto all'appello. Non ci resta che leggere il quadro che traccia con competenza e informazione. In certi punti mi ha ricordato un celebre libro di Luciano Satta (Matita rossa e blu: lo stato della lingua italiana nell'esame spietato ma scherzoso compiuto su 110 scrittori contemporanei, con prefazione di Indro Montanelli, Milano, Bompiani, 1989); ma, nonostante tutto, Coletti chiude il suo “tema” con una nota meno pessimistica delle mie premesse,

Claudio Marazzini


Ma conta ancora l'italiano letterario?

Gli studiosi dell’italiano contemporaneo ormai trascurano la lingua letteraria, che resta invece centrale nelle loro ricerche sull’italiano ante duemila e soprattutto prenovecentesco. La ragione è nota e comprensibile: la sede in cui la lingua si muove e viene giudicata oggi non è più quella della letteratura e della selezionata comunità degli scriventi colti, ma quella della società dei parlanti e della comunicazione di massa. Se un tempo l’autorevolezza degli scrittori forniva il criterio fondamentale di un selettivo giudizio linguistico, ora l’autorità sta tutta nel largheggiante uso comune e, eventualmente, in quello specialistico dei vari settori della vita pubblica. Nondimeno, le ragioni per dedicare un po’ di attenzione alla lingua della letteratura non mancano neppure nel xxi secolo, anche se, a volte, si ha l’impressione che i primi a non volerle avere siano proprio gli scrittori di professione, che nel secondo Novecento hanno, spesso, così abbassato il livello della loro lingua, facendolo coincidere con quello della lingua comune, da togliere aura e interesse alla loro opera agli occhi (per giunta sempre più tecnologici, sociologici e pragmatici) dei linguisti. Cerchiamo dunque qualcuna di queste ragioni, nella convinzione che ancora ce ne siano, non solo per il raffinato studioso degli stili e variazioni individuali della lingua (come sono alcuni dei nostri maggiori storici della lingua), ma anche per il linguista che cerca in essa tendenze, costanti, comportamenti diffusi.

Cominciamo dalla poesia, la sede della lingua letteraria per antonomasia. La discesa verso la lingua comune, persino nei suoi registri più informali, che aveva caratterizzato gran parte della poesia del secondo Novecento, sta rallentando, credo, e sul finire del secolo scorso e nei primi vent’anni di questo si sono moltiplicati i segni di una rinnovata tensione verso l’innovazione linguistica, l’insofferenza per le costrizioni della norma, l’invenzione neologica. Se, sulle prime, lo scarto (come si diceva una volta) dalla medietà corrente si era concentrato soprattutto nella testualità (riduzione di coerenza, in certi casi anche di coesione, libera associazione di immagini, come nelle suggestive poesie di Cesare Viviani e Milo De Angelis), nel xxi secolo ha puntato più decisamente verso la grammatica e il vocabolario. Ecco allora la diffusa riduzione o il trattamento libero dei segni paragrafematici (attacco di componimenti con minuscola, assenza di punti fermi di conclusione) ed ecco, soprattutto, la devianza lessicale dal vocabolario comune: ora in dosi misurate, come in Enrico Testa, che allarga il già ricco lessico botanico e zoologico della poesia moderna, fa spazio a dialettismi e persino agli escalofonisti, gli arrampicatori sociali stigmatizzati da papa Francesco, e all’ichetisfera (cielo delle suppliche); ora in dosi massicce e quasi sistematiche, come in Eugenio De Signoribus, un poeta che invita letteralmente a nozze il linguista, con ogni genere di lavorazione sui meccanismi di formazione delle parole e di forzature grammaticali (ad esempio la sostantivazione e aggettivazione di verbi, pronomi, avverbi, come in "l’appena luce" "solo un durante", "nel tuo inquieto infinire", "il sempre inizio"). Qualcuno (ad esempio Mariangela Gualtieri) ha puntato anche su deviazioni sintattiche, spingendo la dominante paratassi al limite della totale frammentazione ("Da quel più strano dove/ scaraventati in me. Voce. Sazia. Serenella. Fa’"). La nuova poesia cerca risorse anche nel moderno linguaggio scientifico, tra "orocicli e orosfere", come in Bruno Galluccio o l’adenosintrifosfato di Strumia e continuano i restauri metrici e ritmici iniziati già nel tardo Novecento: al piacere e alla suggestione della rima, almeno verso la conclusione dei componimenti, indulgono, fortunatamente per il lettore che se ne compiace, parecchi autori.

Il secolo scorso si era aperto, in poesia, all’insegna della netta rottura con la lingua poetica di quello precedente. Niente di paragonabile all’inizio di questo, in cui c’è molta continuità col precedente. Ma non mancano, come si diceva, i segni che la discesa della poesia verso l’indifferenza linguistica (tanto esibita e coltivata nell’ultimo scorcio del xx secolo) sia arrivata finalmente ad esaurimento e che l’italiano in versi torni a cercare e allevare una differenza specifica, la creatività, addirittura l’individualità estrema della scrittura in versi, a forzare i confini della norma, per farsi aderente e adeguato a urgenze espressive che la lingua media e standard non riesce più a manifestare né a contenere. In fondo, si è capito che scrivere versi come liste della spesa non ha molto senso e che lo sanno fare bene solo pochissimi (il Montale di Satura, certo Sanguineti). La poesia è sempre stata avida di libertà linguistica (procurandosela tanto avanti, nei neologismi, quanto indietro, nella tradizione e nei dialetti) e consola vederne oggi rinnovarsene i sintomi nei poeti del primo ventennio del Duemila. L’italiano non prenderà magari più parole e grammatica dai poeti; ma la loro regolata (il verso è misura per antonomasia) invenzione è ancora il luogo in cui vedere esposte e valorizzate possibilità della lingua altrove insondate o spente.

Altro discorso richiede l’italiano della narrativa e soprattutto del dominante, straripante (per numero di pubblicazioni, se non di vendite) romanzo. Intanto, lo scarto individuale dalla lingua media vi è per definizione meno cercato e, se lo hanno praticato alcuni autori, si è trattato di isolate e sia pur luminose eccezioni (Gadda, Landolfi, Meneghello, Fenoglio). Per la verità, qualche esploratore della lingua (specie della sintassi) c’è pure nella narrativa del primo ventennio di questo secolo (Moresco, Mozzi, Scarpa), anche se l’invenzione della maggior parte dei narratori ha più scommesso sui formati testuali (lettere, mail, registrazioni stenografiche, circolari, ecc.) che sulla lingua in sé.

A sorpresa (rispetto alla crisi diagnosticata da tutti nel secondo Novecento) hanno resistito e sono addirittura aumentate di quantità e qualità le incursioni nei dialetti e negli italiani regionali, con esibite presenze di materiale linguistico locale in parecchi scrittori (Pariani, Niffoi, Murgia, Fois, Ranno, Magliani ecc.) e addirittura l’adozione di una specie di monolingua dialettale, come il celebre idioletto siciliano di Andrea Camilleri o il campano di Andrej Longo.

Il romanzo del XXI secolo ha anche puntato a sollevare il livello della lingua media, cui inevitabilmente fa massiccio ricorso, con vari accorgimenti e incursioni nel vocabolario. Gli accorgimenti più ricorrenti sono quelli suggeriti dalle scuole di scrittura creativa e sono un po’ a rischio di diventare degli stereotipi. Ad esempio, le lunghe elencazioni di oggetti, come qui in Baricco, maestro e collaudatore delle procedure di scuola: la descrizione delle vivande servite a una colazione in un “giorno normale” snocciola una trentina di cibi debitamente condita di aggettivi

L’ordinario apparato offre pane tostato bianco e bruno, riccioli di burro appoggiati sull’argento, confettura di nove fritti, miele e castagnata, otto tipi di pasticceria […] quattro torte […] coppa di panna montata, frutta di stagione […] rari frutti esotici, uova di giornata […] formaggi freschi più un formaggio inglese […] prosciutto […] a fette sottili, cubetti di mortadella, consommé di manzo, frutta cotta […] biscotti di meliga, pastiglie digestive […] ciliegie di marzapane, gelato di nocciola, un bricco di cioccolata calda, praline svizzere, liquirizia, arachidi, latte, caffè (La sposa giovane, Milano, Feltrinelli, 2015 p.13)

più che un menu il saccheggio della nomenclatura alimentare in un dizionario. Altra risorsa raccomandata dalle scuole e ampiamente sfruttata dagli scrittori è la similitudine: paragoni molto ambiziosi e dettagliati, in cui il comparante schiaccia il comparato sotto il proprio peso e lunghezza:

Vivevano (Fabio e Alice) la lenta e invisibile compenetrazione dei loro universi, come due astri che gravitano intorno a un asse comune, in orbite sempre più strette, il cui destino chiaro è quello di coalescere in qualche punto dello spazio e del tempo (Paolo Giordano, La solitudine dei numeri primi, Milano, Mondadori, 2008 p. 130)

Frequente è pure il ricorso al metalinguaggio, al commento della propria lingua

(fu pervaso da un tale rivolgimento che a me non rimane che rifugiarmi in quella figura retorica che si chiama preterizione) (Michele. Mari, Roderick Duddle, Torino, Einaudi, 2014 p. 240)

e all’esplicitazione delle decisioni d’autore nello svolgimento della trama:

Volevo anche raccontare di Carlo Alberto […] ma ormai Cesco […] ed Ernesto […] sono giunti in cima alla scalinata. È tempo di conoscere Cielo (Michele Mozzati, Quel blu di Genova; Milano, La Nave di Teseo, 2020 p. 78).

C’è, in queste e altre strategie stilistiche, una lodevole ambizione a superare almeno un po’ il piano del basso o medio continuo, della simulazione costante del parlato, propri della narrativa moderna. Ma a volte lo scrittore paga lo scotto di un non perfetto controllo della lingua, come quando uno di loro (non farò i nomi di quelli qui colti in difetto) si innamora della locuzione “complice + nome” per introdurre causali implicite e la ripete eccessivamente o un altro fa reggere dallo stesso ausiliare verbi che ne hanno due diversi

Dopo aver fatto una scenata isterica a tavola con amici, andata a letto col medico del marito, aver spostato ripetutamente i mobili…

Un terzo si concede qualche licenza preposizionale ("avevo distanza con ogni cosa") e un quarto scivola, forse per gusto del significato letterale originario, sul valore testuale di nondimeno ("Nulla era difeso. E Cantor, nondimeno, si percepiva senza protezione"). I più cercano nel vocabolario qualche parola buona per alzare o non tenere troppo basso il tono e possono sia farcela bene che no, come quello che scrive "da qui si dipanavano altre due rampe di gradini" invece che dipartivano o quell’altro che invece di terminò opta per un incongruo si concluse: "la via si concluse in uno spiazzo liso dalle intemperie" e quell’altro ancora che, nel bel mezzo di un periodo in italiano medio ed equilibrato, lascia scivolare una rarità tecnica eccessiva e fuori luogo:

… quello sgomento negli occhi che non è dolore per la persona che ci lascia, ma piuttosto una qualche forma di emmenalgia (sic!) per il dominio che avremmo voluto esercitare su di lei, avendo a disposizione altro tempo per farlo.

Più interessanti per il linguista sono i tentativi di movimentazione sintattica della frase, come quelli sperimentati a fine Novecento da Antonio Tabucchi in Sostiene Pereira e rilanciati nel XXI secolo, esasperando ora la paratassi (in 82 righe di un romanzo di Nicola Lagioia, La ferocia, Torino, Einaudi, 2014 pp. 124-126, ci sono ben 114 frasi coordinate) ora la subordinazione (in un romanzo di Giulio Mozzi, Ripetizioni, tra soggetto e verbo scorrono due pagine, innumerevoli relative e completive). Un veterano ancora attivo nel XXI secolo, Aldo Busi, ricorda che

Il pensiero non è fatto solo di soggetto verbo complemento punto, ci sono anche gli incisi e gli incisi degli incisi (El especialista de Barcelona, Milano, Dalai, 2012 p. 188).

In un modo o nell’altro, nel lessico o nella sintassi, queste procedure testimoniano un nuovo sforzo di elevazione, anche di solennizzazione (magari un po’ a buon mercato) del discorso, come se gli autori sentissero la loro lingua a rischio di impoverimento o eccessivo abbassamento e la lavorassero per tenerla un po’ sopra la linea di galleggiamento della medietà, con una tensione (sia pur moderata) verso l’alto, dopo decenni in cui, nella narrativa, aveva prevalso, come si sa, una spinta verso il basso.

Anche per questa, oggi non più dissimulata, rinata sensibilità linguistica, la narrativa contemporanea va tenuta d’occhio dal linguista, tanto più che la sorpresa formale è sempre dietro l’angolo, come quando lo psichiatra Paolo Milone (L’arte di legare le persone, Torino, Einaudi, 2021) dà al racconto di teneri e autentici episodi della sua vita professionale il formato tipografico e il taglio emotivo della poesia. Senza contare che non mancano autori dal governo linguistico impeccabile, che continuano e rinnovano nei loro libri quella premura per la lingua che era nel romanzo inaugurale della nostra moderna narrativa, I promessi sposi. Nessuno di questi recenti romanzi, forse, sarà più un’autorità in fatto di lingua, come era capitato al capolavoro del Manzoni; ma tutti mettono a disposizione del lettore, oltre alle loro storie e personaggi, un serbatoio di italiano solido e non povero, in cui ci si addestra, mentre ci si diletta.