Consulenze linguistiche

Le parole degli affetti

  • Vittorio Coletti
SOTTOPOSTO A PEER REVIEW

DOI 10.35948/2532-9006/2022.18750

Licenza CC BY-NC-ND

Copyright: © 2021 Accademia della Crusca


Quesito:

Raccogliamo in un’unica scheda le risposte di Vittorio Coletti a una serie di domande che riguardano parole riconducibili all’ambito degli affetti: empatia ed empatico; emotivo, emozionale e pluriemozionale, anaffettivo e anemozionale.

Le parole degli affetti

Empatia, empatico, empatizzare

I lettori ci chiedono conto di una piccola famiglia di parole: quella di empatia, empatico, empatizzare. Cominciamo col dire che sono tutte e tre registrate dai dizionari più recenti. Lo Zingarelli 2021, ad esempio, le riporta, datando il sostantivo al 1900 (ma il GRADIT risale a metà sec. XIX), l’aggettivo al 1987 (con Google libri si può arrivare al 1947), il verbo al 1961 e circolano ampiamente (almeno i primi due) in rete. Dunque parole entrate e accolte a pieno titolo nel nostro lessico, con qualche ritardo e oscillazione solo per il verbo. Empatia è dal greco empàtheia ‘affezione’, ripreso in filosofia come calco del tedesco Einfühlung ‘immedesimazione, identificazione’. In psicologia, designa la capacità di capire e condividere i sentimenti, le emozioni di qualcuno, una comunione affettiva, spesso coltivata e cosciente, con l’altro. Non è sinonimo di simpatia, che, più che una capacità, è una propensione, un’attrazione istintiva per qualcuno o qualcosa. Né si oppone ad apatia, che significa ‘abulia, indolenza’ e il cui contrario è piuttosto euforia. Non sfugge però l’analogia formativa della famiglia, per cui come da simpatia si sono fatti simpatico e simpatizzare (ancorché come calco del francese sympathiser), così da empatia sono derivati empatico ed empatizzare.

Dire di una persona che non è empatica significa, nel linguaggio della psicologia, diagnosticare la sua incapacità ad entrare in sintonia con gli altri e di capirli, spesso a causa di uno specifico disturbo. Oggi si fa largo uso e forse anche abuso di empatia nel linguaggio comune per indicare, con la sua presenza, una generica partecipazione, vicinanza alle vicende altrui e, con la sua mancanza, una altrettanto generica freddezza o distanza o indifferenza. Nel linguaggio forense, insieme con “umiltà” e “sensibilità”, viene ricordata come dote di un bravo giudice e la sua assenza nei confronti delle vittime di qualche reato è un’aggravante.

Inutile dire che questa famiglia di parole è in uso soprattutto in psicologia, nelle relazioni e nelle analisi psicologiche condotte da professionisti. Sono cioè termini il cui ambito e significato sono soprattutto settoriali, tecnici, e quindi precisi, delimitati e definiti da procedure scientifiche svolte in testi formali. Sarebbe preferibile non abusare di empatia in senso generico per simpatia, condivisione emotiva o, in assenza, per insensibilità, distacco o disinteresse: tutte parole che continuano a fare bene la loro parte nel linguaggio comune.

Emotivo, emozionale, pluriemozionale

Alcuni lettori chiedono che differenza c’è tra gli aggettivi emotivo ed emozionale e se questa è connessa al diverso suffisso. Partiamo dall’osservazione che si tratta di due aggettivi calcati su forestierismi, emotivo su fr. émotif ed emozionale su ingl. emotional e che sono entrambi presenti in italiano almeno dall’Ottocento, registrati da tutti i dizionari. Emotivo significa ‘che deriva da emozioni’ (“crisi emotiva”) o ‘che si emoziona facilmente’ (“temperamento emotivo”) e in questo senso è riferito anche a persona e usato pure come sostantivo (“un giovane molto emotivo”; “reazione da emotivo”). Emozionale non è usato come sostantivo ed è riferito prevalentemente a cosa (“stato emozionale”), col significato di ‘dovuto a emozione o che genera emozioni’. Relativamente a cosa, atteggiamento, comportamento, emotivo ed emozionale possono sembrare quasi sinonimi; in realtà, sono perlopiù diversi, come vedremo, e si presentano in combinazioni differenti: “una reazione emotiva” non è “emozionale”. Gli esperti di pubblicità sostengono che emozionale si collocherebbe a metà strada tra emotivo ed emozionante: ma un “video a forte impatto emozionale” è emozionante e certamente non emotivo. Emotivo si muove nei dintorni del soggetto, che subisce (quindi ha valore passivo) l’effetto di emozioni, o di una sua reazione causata da emozioni; emozionale investe invece soprattutto l’ambito dell’oggetto e, se riguarda il soggetto (persona o cosa), ha valenza attiva, propria di chi genera, rivela o trasmette emozioni. Inoltre, mentre emotivo ha una circolazione più ampia e generica, tra il linguaggio specialistico e quello comune (“stress emotivo”, “reazione emotiva”, “sei troppo emotivo”), emozionale è più circoscritto in usi specialistici, tra psicologia (“crisi emozionale”) e tecnica della comunicazione (“marketing emozionale”), in cui, peraltro, sembra spesso un’alternativa dotta e superflua di emozionante, sentito, forse, come troppo comune o troppo espressivo. La differenza tra i due aggettivi in esame è ribadita dai numeri: emotivo circola su Google quasi in 22 milioni di pagine; emozionale in poco più di 4 milioni. Nei romanzi analizzati dal PTLLIN emotivo ricorre più di 30 volte in 22 opere diverse; emozionale solo una volta in una. Anche questi dati puramente statistici dovrebbero indurre a usare emozionale solo o soprattutto in testi e discorsi specialistici e formali, non in testi comuni e in senso generico, ben presidiato da emotivo o da emozionante.

Poiché somiglianze e differenze semantiche sono, come in questo caso, piuttosto sottili e variabili (spesso l’opzione tra emotivo e emozionale è condizionata soprattutto dal sostantivo cui si accompagnano: in psicoterapia, l’educatore che addestra al controllo delle emozioni è emozionale e mai emotivo; e il quoziente emotivo di una persona non è quello emozionale; il benessere è emotivo più che emozionale; nelle tecniche di vendita e di gestione, il manager sarà emozionale, indurrà a emozioni, e non emotivo, che ne è vittima ecc.), si spererebbe di trovare soccorso nella morfologia: la differenza tra i suffissi -ivo e -ale può aiutare? Sembra di no. Se scorriamo la lista degli aggettivi e vediamo la serie congiuntivo e congiunzionale, direttivo e direzionale, nutritivo e nutrizionale, si vede che il suffisso non basta a chiarire le differenze semantiche tra i derivati (conta molto di più l’etimologia della base) e che, in genere, la lingua ha specializzato i due suffissi, per cui raramente aggettivi in -ivo e -ale da base analoga sono davvero sinonimi, come non lo sono costitutivo e costituzionale, correttivo e correzionale, derivativo e derivazionale, distributivo e distribuzionale (si vedano anche le schede su ispirativo e ispirazionale e su ispirativo e ispiratorio, chiarificativo e chiarificatorio). Quindi, neppure la diversità di suffissi può davvero aiutare a definire in astratto, a prevedere differenze semantiche come quelle tra emotivo ed emozionale che solo i contesti, le diverse combinazioni possono aiutare a cogliere.

Un lettore chiede notizia anche di un aggettivo derivato da emozionale, pluriemozionale, di cui ci sono tracce in rete, nel significato ‘che trasmette, attiva contemporaneamente più emozioni’. Formalmente è ineccepibile, come pluridirezionale o plurinazionale. Che serva davvero, ne dubito. Ma non è certo proibito usarlo, se proprio si vuol dire in una parola sola che ci sono o nascono o si producono più emozioni. Per altro, sembra più lessico da annuncio pubblicitario che altro, come in questo comunicato trovato su Google: “Vi aspettiamo ogni giorno al…*, con un unico semplice obiettivo: il vostro benessere in uno spazio polifunzionale, multiculturale e …pluriemozionale”. Usare con cautela, troppe emozioni possono far male!

Anaffettivo, anemozionale

L’aggettivo (anche sostantivato) anaffettivo, ‘che è incapace di relazioni affettive con gli altri’, è ben presente ormai in quasi tutti i dizionari sincronici. Google libri consente di vederne tracce già dal 1935 e non dovrebbe essere difficile risalire ancora più indietro. È composto da a- privativo (che diventa an- davanti a parole inizianti per vocale) e da affettivo, che esiste in italiano dalle origini nel senso di ‘relativo agli affetti, ai sentimenti’. Formalmente, anaffettivo, ‘che non mostra, non prova affetti, sentimenti’, è il contrario di affettivo, ma non lo è semanticamente, perché affettivo riferito a persona non è in uso, mentre anaffettivo è riferito soprattutto ad essa. Anaffettivo si sviluppa in parallelo con l’anaffettività, che in psicologia indica un disturbo della personalità che si manifesta appunto con carenza o assenza di affettività, nell’incapacità di provare e di esternare sentimenti di affetto. Anaffettivo è dunque chi presenta anaffettività e non chi non è… affettivo. Per questo si è affermato anaffettivo e non inaffettivo (che sarebbe stato altrettanto legittimo formalmente e ha comunque circolato già ai primi del Novecento: Google lo attesta nel 1912), che ha risentito della sconfitta anche lessicografica di inaffettività (pur attestato anch’esso all’inizio del XX secolo) ad opera di anaffettività.

Non ci sono quasi tracce, neppure in rete, di aemozionale, segnalato da un lettore; se si cercasse la variante in an- (anemozionale), più frequente nei composti con a- inizianti per vocale (come an-ecogeno), se ne vedrebbero alcune attestazioni, specie in contesti formali, come là dove si parla di disturbi da comportamento dirompente, caratterizzati dai cosiddetti “tratti calloso-anemozionali”. Ma vuoi per l’ambito molto specifico del suo uso, vuoi perché non è propriamente sinonimo del più diffuso anaffettivo (che non è necessariamente privo di emozioni), nella lingua comune, è meglio evitarlo.

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