DOI 10.35948/2532-9006/2022.17743
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Molti lettori ci chiedono se l’espressione aver fatto una malattia (es. Mio figlio ha fatto l’influenza) con il significato di ‘aver avuto una malattia ed esserne guariti’ sia corretta. A questa espressione se ne lega un’altra sulla cui legittimità diversi lettori hanno alcuni dubbi. Si tratta di fare la tosse, una locuzione che sostituirebbe il più comune ‘tossire’ (es. Ho fatto la tosse tutto il giorno).
La lingua italiana è ricca di geosinonimi, espressioni o singole parole che pur denotando uno stesso oggetto o concetto sono diverse a seconda dell’area geografica. Tale diversità dipende principalmente dall’azione del dialetto sull’italiano che si è imposto in una determinata zona. Queste voci, adattate poi alla lingua standard, il più delle volte hanno una diffusione limitata, cioè rimangono confinate all’interno del cosiddetto italiano regionale (come ad esempio l’alternanza calare e buttare la pasta in ambito culinario o i sostantivi cancellino, spugnetta e cimosa in ambito scolastico), ma altre volte, invece, si diffondono sull’intera penisola fino a entrare in italiano, prendendo il posto delle parole toscane della tradizione e perdendo, a volte anche completamente, la loro marca geografica d’origine (è il caso di falegname rispetto a legnaiolo e di cozze rispetto a mitili e muscoli). Fanno parte dell’ampio ventaglio di tali forme regionali anche le due espressioni segnalateci dai lettori, fare una malattia e fare la tosse. Le trattiamo qui di seguito separatamente, guardando la loro distribuzione geografica sul territorio italiano e discutendone la legittimità.
Avere una malattia o fare una malattia
Nell’italiano standard i verbi più comuni che si usano per indicare la contrazione di una malattia sono avere (es. I miei nonni lo scorso inverno hanno avuto una brutta influenza) e prendere/prendersi (es. Mio cugino ha preso/si è preso l’influenza), così come viene riportato tra gli esempi alla voce malattia del Devoto-Oli 2022. I due verbi, però, possono dirsi sinonimi soltanto parzialmente. Infatti, se avere può essere usato con qualsiasi tipologia di malattia (e anche con i diversi sintomi ad essa legati, es. ho la febbre o ho il vomito), prendere si usa per lo più per riferirsi a malattie infettive o virali che possono essere trasmesse (si dirà prendere la varicella e non prendere il diabete; prendere un raffreddore e non prendere il mal di testa). Una malattia o un sintomo possono poi venire a qualcuno (es. Mi è venuta la sinusite) e un virus può contagiare qualcuno (es. L’ebola ha contagiato tutta la popolazione). Ancora, se vogliamo utilizzare un lessico più specialistico, possiamo contrarre una malattia da qualcuno che la trasmette (es. Ho contratto l’herpes, me l’hai trasmesso tu) o, in modo più colloquiale, che l’attacca. Il verbo fare non viene dunque adoperato in questo campo semantico. Tutt’al più nella lessicografia possiamo trovare la locuzione farsene una malattia ‘soffrire intensamente per qualcosa’, che ha però tutt’altro significato.
L’espressione fare una malattia è dunque una “locuzione familiare” (Luca Serianni, L’italiano come lingua d’insegnamento, in L’italiano alla prova dell’internazionalizzazione, a cura di Maria Agostina Cabiddu, Milano, Guerini e Associati, 2017, pp. 111-117: 111) limitata all’italiano regionale. Per capire l’area di distribuzione possiamo fare affidamento al questionario LinCi, che con la domanda n. 36 ‘avere avuto una malattia’ (“Lei dice: aver(e) avuto oppure fatto il morbillo, o in altro modo?”) è in grado di fornirci una cartina di tornasole della diversa distribuzione geografica, limitatamente ai centri urbani indagati, delle espressioni avere una malattia e fare una malattia. Per comodità, abbiamo sintetizzato nella fig. 1 sottostante le risposte degli informatori (si tratta di 12 informatori, differentemente connotati per sesso, grado d’istruzione ed età, per le 31 città investigate), in cui il segnalino blu mostra l’uso dell’espressione fare il morbillo (almeno 2 informatori su 12), mentre quello rosso soltanto avere il morbillo (nessuno o al massimo 1 informatore risponde fare il morbillo).
Fig. 1 - Distribuzione dell’espressione aver avuto/aver fatto una malattia nel territorio italiano secondo i dati LinCi
Come si può vedere, l’espressione aver fatto o fare il morbillo è diffusa maggiormente nel settentrione, precisamente nell’area dei dialetti gallo-italici. Più nel dettaglio, è attestata in Piemonte (le città del questionario sono Alessandria, Biella, Cuneo, Novara e Torino), in Liguria (a Genova) e in Lombardia (a Milano). In molte di queste città, tuttavia, l’opzione avere avuto una malattia è comunque maggioritaria (ad Alessandria 6 informatori scelgono avere, 2 fare, 4 entrambe le forme; a Biella 7 avere, 3 fare, 2 entrambe; a Cuneo 6 avere, 5 fare, 1 entrambe; a Genova 7 avere, 2 fare, 3 entrambe); fanno eccezione Milano (3 avere, 6 fare, 1 entrambe, 2 non rispondono), Novara (5 avere, 6 fare, 1 avere e prendere) e Torino (4 avere e 8 fare). Ne sembrerebbe escluso il Veneto (Verona, dove vi è invece l’opzione aver passato una malattia), ma da un piccolo sondaggio l’espressione con fare risulta usata da alcuni parlanti della provincia di Vicenza, nella stessa Verona e a Padova, ma non a Venezia e a Belluno. Avere una malattia, invece, è maggioritaria in tutto il resto d’Italia: in Emilia-Romagna (Modena), in Toscana (Arezzo, Carrara, Firenze, dove vi è un solo caso di fare ma due informatori dichiarano che l’espressione costruita con verbo fare non è autoctona, Grosseto, Livorno, Lucca, Massa, Pisa, Pistoia, Prato, Siena), nel Lazio (Latina, Rieti, Roma, Viterbo), in Abruzzo (L’Aquila, dove un solo informatore sceglie fare), in Puglia (Lecce; anche qui un solo informatore opta per fare), in Sicilia (Catania) e in Sardegna (Cagliari, Nuoro, Oristano e Sassari: in tutte le città sarde, come a Verona, si attesta anche aver passato una malattia).
Il dettagliato quadro della distribuzione di fare una malattia offertoci dal questionario LinCi lascia in sospeso alcune questioni. Prima di tutto, mancano all’appello alcune regioni: il Friuli-Venezia Giulia, il Trentino-Alto Adige e la Valle d’Aosta al nord, le Marche e l’Umbria al centro e la Campania, il Molise, la Basilicata e la Calabria nel meridione. Inoltre, la malattia usata come esempio all’interno della domanda (cioè il morbillo) potrebbe in realtà aver favorito un uso di fare più esteso rispetto all’effettiva diffusione areale. Infatti le malattie di tipologia virale esantematica, cioè quelle che si manifestano con eruzioni cutanee (es. morbillo, varicella, scarlattina) conferiscono ai soggetti che le contraggono un’immunizzazione a vita e ciò potrebbe in qualche modo giustificare la scelta del verbo fare, che per statuto ben si presta per via della sua semantica generale (Francesco Sabatini lo ha definito appunto un verbo "tuttofare", durante la puntata del Pronto soccorso linguistico del 5/12/2021, in cui ha risposto proprio a una domanda sull’espressione fare una malattia) a sostituire verbi più specifici (si pensi a fare sport invece di praticare, fare i compiti invece di svolgere, fare una torta invece di preparare ecc.), nell’accezione di ‘aver già affrontato e superato quella malattia che pertanto non tornerà più’.
Una ricerca più approfondita su Google libri ci può dunque aiutare a delineare meglio il profilo della questione. Innanzitutto, i primi esempi di questa costruzione risalgono a testi medici di primo Novecento, tutti con nomi di malattie virali esantematiche. Riportiamo qui quello più antico reperito:
Ha fatto il morbillo e la tosse asinina. È malata da un anno della presente affezione, che insorse subdolamente e poi - d’un tratto - prese un andamento rapido. (Stefano D’Este, Contributo alla batteriologia e al trattamento chirurgico dell’empiema pleurico, «Il Morgagni», 47, 1905, pp. 33-64, a p. 44)
Anche in letteratura possiamo trovare esempi dalla prima metà del Novecento, ma principalmente in autori che provengono dall’area settentrionale e sempre con le malattie già citate:
Il medico anzi gli dice: «Tu hai l’immunità come uno che ha fatto il vaiolo». (Alfredo Panzini, Il padrone sono me!, Roma-Milano, Mondadori, 1922, p. 39; lo scrittore e lessicografo nacque a Senigallia, nelle Marche, ma trascorse la giovinezza a Rimini e si laureò a Bologna)
ROSANNA - È dietro a fare i compiti. REMITTENZA - Lo affaticano troppo quel bambino. LEONTINA - Troppi compiti, troppi compiti. REMITTENZA - E poi ha appena fatto il morbillo. SEMINARA - Il mio, oltre il morbillo, ha fatto rosolia, scarlattina, varicella, orecchioni, pertosse e un po’ di febbre melitense. Eppure è primo della classe. ROSANNA - Oh poverino. LEONTINA - Il morbillo, ai miei due, glielo faccio fare in Svizzera. MARTINA - Perché in Svizzera è di qualità migliore? LEONTINA - Cara te, c’è un’igiene, in Svizzera! (Dino Buzzati, L’uomo che andrà in America, Milano, 1968; lo scrittore nasce a San Pellegrino di Belluno, ma trascorre parte della sua vita a Milano)
«Massì, ma figurati.» Mariolina è sulla porta con una fetta di pane in mano: «Io l’ho fatta la varicella?» «Sì, quando avevi quattro anni». (Gianni Farinetti, Un delitto fatto in casa, Venezia, Marsilio, 1996; lo scrittore è di Bra, in Piemonte)
Anche i pochi esempi con nomi di malattie di altro genere possono essere quasi tutti ricondotti all’area settentrionale (ma, a parte il nome generico malattia, si parla sempre di malattie virali, tranne la polmonite, che può avere anche un’origine batterica):
Ero forte, e ringraziando il Signore non ho mai fatto una malattia (Solinas Donghi, L’uomo fedele, Milano, Rizzoli, 1966, p. 64; la scrittrice è nata a Riccò, vicino Genova)
L’influenza attacca chi è debole di polmoni, riguardati, Leto. Hai già fatto la polmonite da bambino, quando facevi sci-sci. (Leonida Repaci, Storia dei Rupe: tra guerra e rivoluzione, Milano, Mondadori, 1969, p. 508; lo scrittore nasce a Palmi, in provincia di Reggio Calabria, ma termina gli studi a Torino)
Un giorno che la tosse era forte, si chiamò Odello e si venne a sapere che aveva fatto la polmonite da in piedi. E quando Manera venne a temere che quella vecchia strega avrebbe sotterrato tutti, la Durando mori, a mezzogiorno giusto. (Beppe Fenoglio, L’affare dell’anima e altri racconti, Torino, Einaudi, 1980, p. 50; l’autore nacque ad Alba)
Forse ha fatto la polmonite perché aveva molta febbre e tosse. Ora è aiuto cuciniere. Sta sempre accanto al fuoco, seduto su un tronco, a pestare il caffè nella gavetta con il calcio del moschetto. (Mario Rigoni Stern, Storie dell’altipiano, Milano, Mondadori, 2003 p. 481; l’autore è di Asiago)
E così anche oggi all’interno della stampa:
“Le scuole – dice il professor Crovari – sono la catena di trasmissione più importante del virus, perché i bambini non hanno mai, o quasi mai, fatto l’influenza perciò non sono immuni. Speravamo che la chiusura delle scuole per le feste natalizie riducesse il numero di casi, ma non sempre è successo. A Genova, ad esempio, ma anche in altre città, sono invece aumentati” (Bevande calde e qualche aspirina, repubblica.it, 27/12/1995; il professor Crovari era allora Direttore dell’Istituto d’Igiene e Medicina Preventiva dell’Università di Genova)
Milano - è arrivata l’influenza. Il picco epidemico, che metterà a letto due milioni e mezzo di italiani, molti dei quali bambini, è previsto tra tre settimane. […]. Chi ha già fatto l’influenza nel 2004 risulta, quindi, protetto. (Carlo Brambilla, Influenza, è arrivata la Shanghai. In tre settimane sarà epidemia, repubblica.it, 5/1/2005)
Con grande tristezza un giudice di Siracusa, su parere di esperti Internazionali da [sic] certezza alla nostra ipotesi, il giovane militare morto dopo il vaccino è morto perche’ [sic] aveva fatto il covid senza accorgersene, aveva tanti anticorpi ed ha avuto una reazione ARDS (adult respiratory distress syndrome) su base immunitaria, che l’hanno portato a morte [sic], nessuna trombosi e non era colpa del vaccino (Antonio Mazzone, Chi ha avuto il Covid dopo un anno non si ammala più, quotidianosanita.it, 3/6/2021; l’autore è Direttore di Dipartimento di Area Medica ASST Ovest Milanese)
“[…] Ecco perché è doveroso che chi ha già fatto il Covid si sottoponga all’iniezione entro sei mesi aggiungendo all’immunità naturale quella artificiale del vaccino che rafforza ancora di più il sistema immunitario”. Questo anche perché resta l’incognita delle varianti. (Manuela D’Alessandro, La ricerca che dimostra come sia quasi impossibile riammalarsi di Covid, agi.it, 3/6/2021; la frase è detta da Nicola Mumoli, direttore di Medicina Generale Magenta dell’ASST Ovest Milanese)
Concludiamo questa rassegna con due esempi da uno scritto di Roberto Burioni, nato a Pesaro, e da una dichiarazione di Mario Monti, ex presidente del Consiglio, nato a Varese:
In altre parole, il vaccino non solo protegge i bimbi dal morbillo e dalle sue complicazioni, ma anche dai guai derivanti dalle malattie respiratorie e intestinali che si possono contrarre per anni dopo aver fatto il morbillo. (Roberto Burioni, Il vaccino non è un’opinione, Milano, Mondadori, 2016)
“A febbraio ho avuto il Covid, un anno fa sarei potuto morire”. A confidarlo ai microfoni di Un giorno da Pecora su Rai Radio1 è l’ex presidente del Consiglio Mario Monti. Rispondendo a una domanda sulle vaccinazioni anti-coronavirus ha detto: “Io non l’ho ancora fatto perché ho 78 anni e non 80 e quindi non l’ho ancora potuto ricevere. Però sono stato compensato perché ho fatto il Covid, a metà febbraio” (Covid, Mario Monti: “Ho avuto il coronavirus, un anno fa sarei potuto morire”, repubblica.it, 19/3/2021)
La locuzione sembra essere dunque principalmente d’area settentrionale e si può supporre che il suo uso inizialmente fosse limitato alle classiche malattie virali esantematiche. Oggi il suo impiego è in crescita non solo in termini di frequenza ma anche in termini di semantica, cioè si trovano esempi anche con malattie infettive, la cui immunizzazione è soltanto temporanea, come per es. COVID-19, influenza, ecc. Tuttavia le perplessità di alcuni lettori sull’uso di questa espressione possono ricordare una dichiarazione, ironica certamente, dell’attore e commediografo romano Ettore Petrolini:
Ad una damigella che disse un giorno al bravo attore romanesco Petrolini: «Mio fratello ha fatto la bronchite» pronto questi replicò: «E che? tu’ fratello fa er bronchitaro?». Diede argutamente una lezione di parlar proprio alla damigella. (Giuseppe Gallico, Pensiero ed espressione: nozioni di stilistica, Torino, Petrini, 1957, p. 29; il suffisso romanesco -aro, come l’italiano -aio, forma nomi d’agente)
Tossire o fare la tosse
All’origine dell’espressione fare la tosse, in cui il verbo fare, semanticamente generico, trasferisce il carico semantico sul sostantivo (sulla poliedricità di fare rimandiamo alla risposta se hai fatto primo, hai fatto prima), possiamo supporre un’analogia con le coppie fare uno sbadiglio/sbadigliare, fare uno starnuto/starnutire. Tuttavia, mentre sbadigliare e starnutire possono esprimere un’azione isolata o senza continuità (lo dimostra anche, nella perifrasi con fare, l’articolo indeterminativo, che potrebbe essere interpretato anche come numerale), tossire implica un’azione iterata (non si può dire *fare una tosse, ma tutt’al più fare un colpo di tosse). Un’altra motivazione all’origine dell’espressione potrebbe risiedere nella volontà di evitare la coniugazione di un verbo in -ire perché si è incerti se aggiungere o meno -isc- alla radice nelle tre persone singolari e nella 3ª persona plurale del presente indicativo e congiuntivo e alla 2ª dell’imperativo (i bambini tossiscono o *tossono?).
Come per fare una malattia, anche questa espressione può essere ricondotta all’italiano regionale. Stavolta, però, ci troviamo nel meridione così come ci indica l’AIS (Atlante linguistico ed etnografico dell'Italia e della Svizzera meridionale) alla carta 693 [tossire, tosse]. Gli unici esempi di fare la tosse in dialetto, che qui riportiamo con una grafia semplificata rispetto a quella usata dall’AIS, si trovano in Basilicata, a Ripacandida (PZ), punto 726, fà la tóssë, a Castelmezzano (PZ) - 733 fà u tussë, a Matera (MT) - 736 fà la tóss e in Puglia, a Spinazzola (BT) - 727 fà la tóssë, a Ruvo di Puglia (BA) - 718 fà la tóssë, a Bari (BA) - 719 fà la tóss, ad Alberobello (BA) - 728 fé la tóssë e a Palagiano (TA) - 737 fà la tóss. La distribuzione attuale potrebbe tuttavia essere più estesa e abbracciare anche altri dialetti dell’Italia meridionale. Chiedendo ad alcuni parlanti del sud d’Italia, infatti, l’espressione risulta attestata anche in Campania (perlomeno a Napoli e a Salerno).
Su questa espressione possiamo aggiungere poco altro. Per ora sembra avere una diffusione piuttosto limitata: non ne abbiamo trovato tracce negli archivi della “Repubblica” né del “Corriere della Sera” (le stringhe cercate sono fare la tosse, fa la tosse, fatto la tosse, fanno la tosse e facevano la tosse). Anche su Google libri le uniche attestazioni rilevanti sono le seguenti, entrambe provenienti dall’area campana:
Ed è per questo, che io consiglio ai miei polmonitici di bere un largo sorso di acqua zuccherata quando fanno la tosse. (Giuseppe Ria, La polmonite fibrinosa, in “Gl’Incurabili. Giornale di medicina e chirurgia”, 1886 pp. 305-317, a p. 314; Giuseppe Ria era professore privato di clinica medica e di terapia all’Università degli Studi di Napoli e medico ordinario dell’Ospedale degli Incurabili)
Sono quelle testimonianze che riportano la rabbia alla mente di quelli che un tempo erano giovani innamorati, e che sentivano quasi cavarsi gli occhi al continuo tossire delle canapine loro fidanzate (…«loro facevano la tosse e a nuie nci ascevano ll’uocchi ’a fore»). (Luigi Mosca - Pasquale Saviano, La stoppa strutta. Le donne i canti e il lavoro nella tradizione popolare frattese, Frattamaggiore, Cirillo, 1998)
In conclusione
Sia fare una malattia che fare la tosse sono dunque espressioni regionali che potrebbero creare incomprensioni se usate con persone che non condividono lo stesso tessuto linguistico. Naturalmente, nessuno ne vieta l’utilizzo, soprattutto nel parlato di tutti i giorni, ma in contesti formali sono senz’altro da preferire avere una malattia e tossire, alternative comprese da tutti.