DOI 10.35948/2532-9006/2023.27981
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È giunta da qualche giorno al nostro presidente Marazzini la seguente richiesta, da parte della SIAE (Società Italiana degli Autori ed Editori):
Gentilissimo Presidente,
come accennatole stamattina e su indicazione del nostro Presidente onorario Giulio Rapetti Mogol, vorremmo avere dall’Accademia della Crusca una consulenza sul termine paroliere, usato spesso in maniera colloquiale come sinonimo della parola autore. Come le abbiamo spiegato, per il nostro Presidente utilizzare questo vocabolo equivale a sminuire la portata di un’attività creativa e artistica tra le più nobili ma saremmo onorati di avere anche la vostra opinione in merito.
Tale richiesta si aggiunge a quella, pervenutaci vario tempo fa, di un lettore che voleva “sapere quando e come entra in uso la parola paroliere per indicare colui che scrive il testo di una canzone”.
Che il più famoso paroliere italiano, il celebre Mogol, Presidente onorario della SIAE, fosse contrario all’uso del termine paroliere per indicare chi scrive i testi delle canzoni di musica leggera era noto da tempo, come risulta dai brani di due interviste rilasciate a distanza di qualche anno, che riproduciamo:
Dove sta andando la canzone italiana? Mogol, il sommo paroliere di casa nostra, non è proprio ottimista. Sta scrivendo con Oliviero Beha un libro intitolato L’ Italia non canta più per sottolineare che “mai come in questi ultimi anni il divario tra successo e qualità è stato così abnorme”. […] Eppure già prima d’incontrare Battisti, Giulio Rapetti si chiamava Mogol da un pezzo ed era un paroliere di enorme successo. “Non mi chiami paroliere, la prego” protesta. “Io sono solo un piccolo autore. Il termine paroliere sminuisce la nostra categoria. Nel mondo anglosassone ci chiamano ‘lyrics writers’, scrittori di liriche”. (Giuseppe Videtti, Io, Mogol, dico Dio ci salvi dai cantautori, “la Repubblica”, 30/11/1996, p. 37)
Anche rispetto al suo nuovo incarico, Mogol, che inorridisce quando viene chiamato “paroliere” e ribadisce di voler essere definito “autore” (“io vi chiamo giornalisti, mica giornalai”), ha idee molto chiare. (Mogol sarà consigliere del ministro della Cultura: “Il mio impegno per l’arte popolare”, Repubblica.it, 23/2/2023)
Degno di nota, in questo secondo brano, il parallelismo tra parolieri e giornalai (che si oppone a giornalisti), nonostante i due termini abbiano suffissi diversi (-iere e -aio), entrambi usati, accanto all’ormai più diffuso -ista, per indicare nomi di professione (e si può rilevare che il termine spagnolo corrispondente a paroliere è letrista).
Per cogliere la percezione negativa del termine da parte di Mogol, è opportuno rispondere all’altra domanda pervenutaci, e ricostruire la storia della parola, che i principali dizionari italiani datano al 1928, sulla base di un esempio riportato dal GDLI nel Supplemento 2009, che anticipa il passo di Moravia (del 1970) citato nel vol. XII, s.v. paroliere (identica, nelle due voci, è la definizione: “Autore del testo di una canzone di musica leggera; chi svolge professionalmente tale attività”):
G. Giannini [“Kines”, 18-XI-1928]: Pochi versi qualsiasi su una musichetta rubacchiata danno al paroliere enormemente di più di quanto una riduzione cinematografica... dà al riduttore.
A. Moravia, 17-45: Quale verità? Quella dei parolieri di San Remo?
Sul piano dell’etimologia sincronica, paroliere può essere facilmente interpretato come suffissato, da parola + -iere, suffisso tuttora produttivo per indicare i nomi di mestiere, e non sempre con connotazione negativa: se verduriere e verduraio sono (geo)sinonimi, il gelatiere è professionalmente più quotato del gelataio. Storicamente, però, si tratta di un francesismo. Lo documenta il fatto che il termine francese parolier è attestato anteriormente: il TLFi lo data al 1855, riportando anche esempi del 1863 e del 1935, ma la prima registrazione lessicografica è in Émile Littré, Dictionnaire de la langue française, vol. III, Paris, Hachette, 1873, dove si precisa che si tratta di una “parola d’autore”, inventata dal critico e musicologo Castil-Blaze (citato del resto anche nel TLFi) con un valore spregiativo, per indicare l’autore di testi di opere e operette, quello che in Italia si chiama – a partire dai primi dell’Ottocento, e inizialmente anch’esso con valore spregiativo – librettista (vocabolo formato con l’aggiunta di -ista a libretto, nel significato specifico, documentato già dal Settecento, di ‘testo in versi di un melodramma o di un’opera lirica’):
PAROLIER pa-ro-lié s. m. Néologisme. Nom donné par Castil-Blaze aux auteurs des paroles dans les pièces à mettre en musique, parce qu’il prétendait que le poëte y devait être l’esclave du musicien, et fournir seulement des paroles propres à être chantées. (Émile Littré, Dictionnaire de la langue française, vol. III, Paris, Hachette, 1873, s.v. Trad.: “Neologismo. Nome dato da Castil-Blaze agli autori delle parole nei testi teatrali da mettere in musica, perché egli riteneva che in essi il poeta doveva essere al servizio del musicista e fornire soltanto delle parole adatte a essere cantate”]
Dopo aver riportato un exemplum fictum (Un parolier italien) e un passo di Castil-Blaze, il lessicografo commenta:
Le mot parolier suppose que la pièce, en soi, n’a aucune valeur; ce qui est souvent vrai. Mais, appliqué aux auteurs de pièces comme la Vestale de Jouy, la Muette et le Comte Ory de Scribe, le nom de parolier serait un contre-sens. [ibid. Trad. : “La parola parolier presuppone che il testo, in sé, non abbia alcun valore poetico, il che spesso è vero. Ma, se assegnato agli autori di testi come La Vestale di Jouy o La Muta [di Portici] e Il Conte Ory di Scribe, l’appellativo di parolier sarebbe un controsenso”]
Anteriormente alla prima attestazione italiana troviamo il termine francese, al plurale e con riferimento alla Francia, anche in un giornale piemontese:
Maître Ambros a Parigi — L’opera era attesa con una certa impazienza. La giustificava il fatto di essere il libretto di Coppée e la musica dell’elegante autore della Korrigane, Charles Widor. Un’opposizione sorda si era anche manifestata prima della recita, specialmente, al dire di certi giornali, per opera d’un “syndicat de paroliers d’operette”. (Arti e scienze, “Gazzetta piemontese”, 18/5/1886)
C’è, in verità, una precedente attestazione di paroliere in italiano, ma nel senso di ‘parolaio’, ‘linguaiolo’:
Il Gherardini reca altro esempio della Città di Dio, ma nella r. crusca trovasi soltanto intransitivo e accompagnato dal con. L’ho fatto avvertire, per altre voci da me usate senza licenza dei superiori, e per risparmiarmi la noja di appuntarmi ai piuchearciultravanignorantissimi pestiferi e pestilenziali fastidiosi parolieri del conciossiafussecosaavvegnaidioché; becchini della lingua, che vanno razzolando le ossa, ma non saprebbero ricomporle in forma d’uomo e plasmarle di vita. (Filippo Zamboni, Roma nel Mille. Poema drammatico, 2a ed., Padova, Salmin, 1878, p. 435)
Si può aggiungere che in italiano, per indicare, ironicamente, il librettista è documentato – prima ancora che nascesse questa parola, la cui prima attestazione risale al 1836 – anche un derivato da parola, usato più spesso nel senso di ‘chi parla molto e in modo poco concludente’, e cioè parolaio (1817). Sempre a scopo ironico, invece di paroliere, troviamo un esempio di parolante (1965), non a caso contrapposto a musichiere ‘autore della musica di una canzone’. Ecco al riguardo i due esempi riportati nel GDLI:
Pananti, I-32: Il suggeritore ed il copista / si lagnano d’aver quanto il poeta; / abbiam sentito dir fino il lumaio / che non vuole aver men del parolaio.
Brignetti, 3-56: La gente era stata emancipata a migliori garbatezze quali dopo sarebbero stati i quiz, le pacifiche tenzoni di parolanti e musichieri.
Tornando a paroliere, tra i due esempi riportati nel GDLI ce ne sono molti altri; tra i più antichi mi pare interessante questo, tratto da Google libri:
Maestro e paroliere (l’autore dei “versi” è definito per accordo internazionale paroliere) s’incontrano. (“Il Dramma”, XIV, 1938, p. 32)
Un’impennata decisiva nell’uso del termine si ha a partire dagli anni Sessanta (proprio quelli in cui Mogol ha iniziato la sua attività), come dimostra il grafico delle frequenze di Google Ngram Viewer, in cui considero anche il femminile paroliera e il plurale maschile parolieri:
Va detto che dalle occorrenze di paroliere (che comprendono anche quelle del femminile plurale), dovremmo scremare dai dati le occorrenze (che comunque saranno verosimilmente pochissime), in cui il termine indica qualche altra cosa, e cioè:
1) la trasmissione RAI di Lelio Luttazzi del 1962-63 intitolata “Il paroliere questo sconosciuto”, dedicata, peraltro, proprio agli autori di testi di canzoni (cfr. V.B., TV: un servizio speciale e il ritorno del «Paroliere», “Il Corriere della Sera”, 3/7/1963);
2) la rubrica tenuta sull’“Espresso” da Tullio De Mauro, a cui si riferisce questo esempio:
Il mio vecchio amico Tullio De Mauro mi ha fatto l’onore di chiamarmi in causa, nella prestigiosa rubrica Il Paroliere che tiene sull’Espresso (di questa settimana). (Beniamino Placido, Rimini Rimini e la curva sud, “la Repubblica”, 24/5/1989, p. 29);
3) il nome commerciale di un “gioco consistente nel formare parole a partire da lettere dell’alfabeto scritte sulle facce dei dadi” (GRADIT; significato registrato con la data 1986); si tratta della versione italiana del gioco da tavolo inventato dallo statunitense Alan Turoff nel 1970, denominato in inglese Boggle, introdotto in Italia dalla Casa Editrice Giochi qualche anno dopo;
4) alcune rare occorrenze della parola come aggettivo (anche al femminile e al plurale) nel senso di ‘che usa molte parole, che ha un ricco vocabolario’ (ne do un esempio: “la sua superlativa capacità paroliera”, in Ettore Paratore, Il Satyricon di Petronio. Commento, Firenze, Le Monnier, 1933, p. 185).
A parte ciò, il successo di paroliere nella musica leggera si spiega col fatto che, diversamente dalla prassi propria del melodramma e dell’opera lirica (almeno fino a Puccini), il musicista metteva in musica (“intonava”, per usare il termine tecnico) un preesistente testo drammatico in versi (sia pure non rispettandone sempre la metrica e cambiando, omettendo o ripetendo varie parole). Invece, nella canzone,
[…] il procedimento è di solito inverso. È la melodia a essere composta per prima e a offrire l’attenzione del poeta o paroliere una serie di ritmi e accenti che precostituiscono il suo schema prosodico. Il metro, quindi, precede nel lavoro del paroliere ogni altro elemento di lingua poetica, costituisce anzi il modello obbligato, astratto e concreto nello stesso tempo, che sta alla base della composizione. […]
Il nostro paroliere è […] legato fino alla fine allo schema precostituito, desunto dalla melodia, che tra gli addetti ai lavori viene chiamato “maschera” o “mascherina”. Questa pappa, eccipiente neutro, è pronta a ricevere qualunque contenuto di parole. (Fernando Bandini, Una lingua poetica di consumo, in Parole in musica. Lingua e poesia nella canzone d’autore italiana. Saggi critici e antologia di testi, a cura di Lorenzo Coveri, Novara, Interlinea, 1996, pp. 27-35: pp. 27-28)
Questa prassi era normale (e lo è tuttora, anche se molto meno frequente che in passato) nel caso delle cover, cioè delle versioni italiane di canzoni angloamericane (ma anche francesi, spagnole e tedesche), che ponevano non poche difficoltà di traduzione sul piano sillabico, dati i nuovi ritmi sincopati, tanto che «un bravo paroliere, Giorgio Calabrese, lamentava: “Ah, se l’italiano non fosse così povero di monosillabi!”» (Lorenzo Coveri, Per una storia linguistica della canzone italiana, ibid., pp. 13-24: p. 21).
Insomma, al paroliere si richiedono competenze particolari e non c’è dubbio che, data la crescita del peso della musica leggera e della cosiddetta “canzone popolare” nella cultura contemporanea, il termine – così come quello di cantautore (“cantante che interpreta brani da lui stesso composti”; GRADIT, con datazione al 1960) – si è progressivamente diffuso.
Numerose sono infatti le occorrenze negli archivi di alcuni quotidiani: 1.653 nella “Repubblica”, 2.266 nel “Corriere della Sera” e 4.800 nella “Stampa”, in cui si ha l’attestazione più antica:
Nello stesso specchio troviamo con forti percentuali i nomi dei maestri Petralia, Giuliani, Ferruzzi, Mariotti, Culotta, tutti direttori delle varie orchestrine dell’E.I.A.R. che si scambian piccoli servizi tra di loro, quelli degli editori Leonardi, Casiroli, Olivieri, che fanno capo alla Cetra, qualche paroliere, come si dice con vocabolo inventato di fresco (si è sentito il bisogno di riservare la parola «poeta» a gente di altra levatura!) che passa indifferentemente dalla parola alla musica con la massima disinvoltura, e qualche... intruso di larga fama come Mascheroni, Kramer, Bixio, Di Lazzaro che si difendono come possono, con le loro produzioni cioè. (s.s., Cronache del teatro e della radio, “La Stampa”, 21/11/1937)
Di undici anni posteriore è il più antico esempio del “Corriere della Sera”, in cui il termine è usato tra virgolette:
Il tamburo principale della banda D’Affori ha perso in questi giorni la sua baldanza. E non è proprio uno scherzo. Il poeta, per dir così, della canzonetta famosa aveva bisogno, di una rima in “pifferi”. […] Così facendo il “paroliere” senza immaginarlo andava molto vicino alla realtà… (Il tamburo principale nei guai, “Corriere della Sera”, 11/11/1948)
Tra le occorrenze successive, ce ne sono varie in cui paroliere è certamente usato con una connotazione spregiativa o comunque riduttiva, come la seguente:
Tutti i poeti veri ingaggiano un titanico corpo a corpo con la tradizione e anche quando credono di volerla distruggere, in realtà la perpetuano e la arricchiscono. La tradizione non è un bazar o un buffet, né una boutique di pret à porter, dove ognuno può pescare i frammenti che vuole, accozzandoli fra di loro alla bell’e meglio. Ma questo è quello che fanno i canzonettisti, forti del collante della melodia. I testi, quindi, sono quasi sempre messi insieme con i cascami male orecchiati della tradizione alta. Finché il poetico è identificato con la rima baciata, il sole che tramonta e lei o lui, o tutti e due, che se ne vanno lungo la battigia, magari d’inverno e in groppa a un cavallo bianco, lo stereotipo è tale che, non significando più nulla, va benissimo. Ma, se le masse giovanili sono illetterate, non sempre lo sono i parolieri. Alcuni sono di buone letture. Il che spesso è anche peggio. (Giorgio Manacorda, Il paroliere vuole vestirsi da poeta, “la Repubblica”, 6/1/1990, p. 9)
Va invece lasciato da parte quest’altro esempio tratto dalla “Stampa”: qui infatti siamo a Torino, ci si riferisce al sindaco Sergio Chiamparino, poi eletto al Parlamento, e il significato di paroliere è quello di “venditore di parole”, proprio, come si è visto, di parolaio, ma anche del francese parolier, che nel TLFi ha un’altra entrata con questo significato (simile a quello della più antica attestazione di paroliere in italiano, riportata sopra):
Il nostro sindaco forse studia da primo ministro. Non è dato sapere se si stia già impratichendo nella mansione di paroliere, ma si sa che ha alzato gli occhi e gli è sfuggito un grido di dolore alla vista delle tende di nailon svolazzanti o tristemente pendule nei cortili torinesi. E pensando all’evento olimpico che ormai incombe, ha esortato noi tutti a uno scatto d’orgoglio in nome dell’esteticamente corretto. (Margherita Oggero, Sindaco, lasciaci le tende, “La Stampa”, 31/12/2005)
In molti altri esempi giornalistici il termine ha valore puramente denotativo, come nel caso seguente:
È morto a Los Angeles per insufficienza cardiaca il paroliere e compositore americano Sammy Cahn, autore dei testi di canzoni famosissime per cantanti come Frank Sinatra e Dean Martin. (Morto Sammy Cahn autore per Sinatra, “la Repubblica”, 17/1/1993, p. 33)
Possiamo concludere con un esempio che forse potrà far riconciliare il Presidente onorario della SIAE con la parola (visto che questa viene riferita addirittura a Dante!):
Usciti tutti a riveder le stelle e complici i festeggiamenti del settimo centenario, nel 2021 abbiamo scoperto che Dante è anche un paroliere straordinario. I suoi versi sono ultramoderni. Sembrano nati apposta per essere recitati a ritmo su basi, remixati, rappati su groove elettronici. (Nicola Gallino, Dante e l’Inferno con la musica di Vivaldi e Piazzolla, “la Repubblica”, 10/11/2022, p.12)
In ogni caso, anche se paroliere aveva all’inizio un significato ironico o comunque una connotazione spregiativa (così come il francese parolier), oggi non lo ha più, se non in rapporto al contesto in cui figura. Lo dimostra la sua presenza in un documento ufficiale, la Classificazione delle professioni fornita dall’Istat, che, anche nella sua ultima versione del 2023, presenta la seguente sequenza (dal generale al particolare), in cui i parolieri sono posti accanto ai Dialoghisti e distinti da Scrittori e poeti:
2 - PROFESSIONI INTELLETTUALI, SCIENTIFICHE E DI ELEVATA SPECIALIZZAZIONE
2.5 - Specialisti in scienze umane, sociali, artistiche e gestionali
2.5.4 - Specialisti in discipline linguistiche, letterarie e documentali
2.5.4.1 - Scrittori e professioni assimilate
2.5.4.1.1 - Scrittori e poeti
2.5.4.1.2 - Dialoghisti e parolieri
Naturalmente, preferire – nell’uso individuale – una designazione alternativa è del tutto lecito, ed è anche lecito rivendicare per il paroliere il rango di “autore” a tutti gli effetti, e in certi casi di vero “poeta”, se le parole di una canzone sono davvero belle e ben riuscite. Questo serve anche a ribadire il ruolo non sempre gregario rispetto al compositore della musica. Non sembra tuttavia possibile, allo stato attuale, sostituire la parola in tutte le occasioni, perché ormai il radicamento è molto forte, e vasta la sua diffusione, anche in contesto tecnico (come mostra la categoria ISTAT). Va comunque tenuto presente che la larga diffusione di paroliere ha finito per attenuare e anzi annullare il significato spregiativo che il termine aveva all’inizio, quando è arrivato dal francese.