DOI 10.35948/2532-9006/2022.19773
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Sono arrivate molte domande che chiedono se è corretta la forma imperativale dici, di cui di’ è considerata forma apocopata.
Iniziamo subito sgombrando il campo da un equivoco: come precisa la Grammatica di Luca Serianni (Serianni 1989, I, §§ 242-243), la forma imperativale di II persona singolare di’ non costituisce la forma apocopata di dici, ma è l’esito diretto del latino dic, così come fa’ deriva dal latino fac (le altre due forme monosillabiche di imperativi latini, duc e fer, non hanno invece lasciato tracce in italiano, perché i verbi ducere e ferre non si sono conservati per via popolare).
Mentre nel caso di fa’ (come pure di da’, sta’ e va’) l’apostrofo si può spiegare a partire dalle forme dell’indicativo fai, dai, stai e vai, che nel fiorentino ottocentesco, e poi nell’italiano contemporaneo, si sono affiancate a quelle tradizionali (fa, da, sta e va), in di’ la sua presenza si giustifica solo con l’opportunità di distinguere la forma verbale sia dalla preposizione di, che non viene accentata perché atona (l’accento sintattico cade sulla parola seguente), sia soprattutto dal sostantivo monosillabo dì ‘giorno’, dal lat. diem (che va accentato anche nei composti: buondì, lunedì, martedì, ecc.). Del resto anche l’apostrofo in da’, fa’, sta’ e va’ è funzionale soprattutto per distinguere le forme imperativali di II persona singolare da quelle della III persona dell’indicativo. Ma anche la grafia dì non si può considerare scorretta, ed era anzi frequente nella lingua letteraria del passato, in cui però alla fine ha prevalso di’, che si legge nell’esempio che ho messo nel titolo, tratto dal libretto (di Antonio Somma) dell’opera Un ballo in maschera di Giuseppe Verdi, che costituisce il primo verso della ballata che il tenore intona nel secondo quadro del primo atto (e che ho scelto perché, per l’occasione, potrebbe essere fatto seguire da un secondo verso come “vuoi stare alla norma”, invece dell’originario “il flutto m’aspetta”).
La forma imperativale dici è certamente estranea all’italiano standard e non risulta documentata neppure nella lingua letteraria del passato che ne è alla base; se mai è di’ che poteva essere usato, e non soltanto in poesia, per la II persona singolare del presente indicativo, come segnala, per es., la Teoria e prospetto ossia Dizionario critico de’ verbi italiani di Marco Mastrofini (Roma, De Romanis, 1814, vol. I, pp. 238-241), che cita tra gli esempi “In fé di Dio, tu di’ il vero!” (Giovanni Boccaccio, Decameron, III I 17).
Da qualche tempo, però, dici come imperativo ha effettivamente una certa diffusione, e non soltanto nel parlato, ma anche nello scritto, come dimostrano questi esempi, sia pur isolati.
- Avanti, dici pure la tua. (Ruggero De Ruggiero, Il pretesto, Napoli, Guida, 1999, p. 33)
- Dici a tuo padre che dobbiamo parlare. (Angelo Mellone, La stella che vuoi, Cosenza, Pellegrini, 2018)
C’è anche un’attestazione ottocentesca:
- Scommetto che ti abbia sfiorato la pelle!
- Niente affatto! Se fossi dilettante di novene o di serenate, mi sposerei il violino della signora!
- Dici meglio la signora del violino!...
- Dirò tutto quello che vuoi; ma don Marzio non essendo un provinciale, né un amico vanitoso, finisce sempre come àn finito tutti i giovani di spirito.
(Da Messina al Tirolo. Viaggio di un uomo senza testa compilato da un uomo senza testa, a cura di Raffaele Villari, Messina, Pappalardo, 1867, p. 88)
A mio parere la forma può essere variamente spiegata:
Ma la possibile spiegazione della forma non comporta il suo accoglimento. Frasi come quelle riportate dai nostri lettori che contengono un dici imperativale – “Dici cosa vuoi!”, “Marco, dici la verità!” (in cui peraltro, se tratte dallo scritto, dici potrebbe anche essere un semplice refuso per dicci, cioè ‘di' a noi’, con normale raddoppiamento sintattico del clitico; e questo vale anche per l’esempio di De Ruggiero sopra riportato) e lo slogan “Dici no alle ingiustizie!” – sono da considerare senz’altro scorrette, e non solo nello scritto, ma anche nel parlato appena sorvegliato.