DOI 10.35948/2532-9006/2024.34333
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Parto, in questo mio contributo, da un presupposto – perfino ovvio per tutti noi che lo condividiamo – ma niente affatto scontato nel periodo complicato che stiamo attraversando: quando si parla di scuola, non si parla mai “solo” e “semplicemente” di scuola, perché dall’idea di istruzione che si coltiva e che si porta avanti dipende l’idea stessa di società che si vuole realizzare.
Ce l’hanno insegnato i nostri padri costituenti, ma ce l’ha insegnato anche don Lorenzo Milani, sul cui pensiero ci confrontiamo oggi.
Il nostro obiettivo non è solo ricordare la figura del priore di Barbiana, bensì rilanciare – attraverso la sua memoria – quella che possiamo considerare la sua intuizione più preziosa: ossia che l’istruzione, la parola, la conoscenza sono gli strumenti più potenti che ci siano per emancipare le classi subalterne e quindi per realizzare – autenticamente – quel disegno di società (e di democrazia) che sta alla base della Costituzione antifascista, nata dalla Resistenza.
Ma come, ci sentiamo ripetere spesso, siamo nel 2023 e voi ancora qui a parlare, fuori tempo massimo, di classi subalterne? Senza annoiarvi, mi limito a ricordare che abbiamo: il record di sempre di contratti precari, i salari tra i più bassi d’Europa, la povertà assoluta che è triplicata nell’ultimo quindicennio, oltre il 20% dei lavoratori che guadagna meno di 780 euro al mese (milioni di persone, soprattutto giovani e donne che – ufficialmente, statisticamente, convenzionalmente – sono poveri pur lavorando).
Di fronte a tutto questo, mi viene in mente – in automatico – la lettera che il Ministro dell’Istruzione e del Merito ha spedito direttamente alle famiglie qualche mese fa, consigliando di scegliere la scuola superiore sulla base delle opportunità occupazionali che ciascuna opzione dovrebbe garantire. Quando ne abbiamo avuto notizia, ci siamo permessi di suggerirgli – per la prossima missiva – di aggiungere quanto meno una postilla, un post scriptum proprio sulle condizioni salariali, di sicurezza, di stabilità che troppo spesso vivono i lavoratori, e soprattutto le lavoratrici italiane, in molti dei nostri settori produttivi. Così, l’informazione sarebbe quanto meno più completa e veritiera.
Al di là di questo episodio, comunque emblematico, il Governo ci ha spiegato molto chiaramente – e fin da subito – quali siano i suoi intendimenti sull’Istruzione, come su tutto il resto. Fin dal cambio del nome del Ministero, che non è una questione nominalistica, anche se, tra di noi, nessuno dubita del “potere delle parole”. È – semplicemente – che quella scelta annunciava un preciso programma politico (nomen omen, verrebbe da dire, vale anche per i ministeri).
Si è trattato, sostanzialmente, dell’annuncio di una nuova stagione, fatta appunto di parole d’ordine vecchie e consumate e, soprattutto, di atti e provvedimenti conseguenti. Con un preciso filo rosso a unire tutto questo: l’ostinazione a non voler fare i conti con la realtà o, peggio, l’intenzione di assecondare e accompagnare le derive che sono in corso.
Pensiamo ad esempio alla dispersione scolastica: il 12,7% a livello nazionale, che al Sud diventa il 16,6%. Numeri drammatici, tra i peggiori d’Europa, con una disparità – tra settentrione e meridione, tra aree interne e Ztl – che attraversa tutti gli ambiti della scuola.
Pensiamo poi al più basso tasso dell’Unione europea di giovani laureati; a uno tra i più alti tassi di ragazzi che non studiano né lavorano; a una povertà economica ed educativa che sono sempre più fortemente intrecciate tra loro.
Domanda: davvero qualcuno pensa che la causa di tutto questo sia una scuola troppo poco meritocratica? Non scherziamo. È vero semmai il contrario. Abbiamo di fronte a noi, banalmente, il frutto della riduzione, tra il 2008 e il 2020, di qualcosa come 14 punti percentuali del finanziamento pubblico complessivo destinato alla filiera dell’istruzione.
Altra domanda: davvero – di fronte a tutto questo – si può sostenere che ne usciremo restaurando la scuola “della disciplina e della selezione”? È ridicolo anche solo pensarlo. La verità, è che sia il livello delle diseguaglianze in generale, sia le disparità che, in particolare, si sono raggiunte in un ambito cruciale come l’istruzione non rappresentano affatto per l’Esecutivo una priorità, anzi: quelle diseguaglianze e quelle disparità possono persino peggiorare e allargarsi ulteriormente.
Cosa che succederà senza alcun dubbio se passerà la proposta di Autonomia differenziata che, secondo il disegno di legge attualmente in discussione in Senato, dovrebbe vedere persino l’Istruzione tra le materie trasferibili alle regioni. Una proposta che ha una precisa idea di fondo: non solo spingere verso la regionalizzazione/svuotamento del contratto nazionale; ma anche a ottenere – a livello regionale – la gestione delle risorse e, soprattutto, il controllo politico degli istituti, esattamente come già succede per la sanità, attraverso la nomina dei direttori generali delle ASL. In modo da poter scegliere gli insegnanti, magari riservando una quota a quelli autoctoni (insegnanti veneti per gli studenti veneti, toscani per quelli toscani e così via). Un’idea che fa rabbrividire…
Noi, da tempi non sospetti, portiamo avanti una battaglia contro il rischio di rottura dell’unità nazionale (di cui – peraltro – la scuola e il contratto nazionale sono due colonne portanti). E abbiamo tutta l’intenzione di intensificarla, e di mettere proprio la scuola al centro della nostra opposizione sociale a questo progetto a dir poco regressivo.
Quello dell’Autonomia differenziata non sarà l’unico fronte. Ce n’è un altro, che non è meno rilevante e pericoloso. Parlo del tentativo, anche qui esplicito (mi verrebbe da dire: spudorato) di piegare la scuola alla logica di mercato e alle ragioni dell’impresa.
Intendiamoci, questo tentativo non nasce oggi, è in corso da molto tempo. Oggi, però, questo processo sta subendo un’accelerazione senza precedenti. A partire dal tentativo di regolare definitivamente i conti con quel modello di scuola democratica, inclusiva e partecipata che le riforme degli anni ’60 e ’70 avevano avviato e impostato.
Insomma, una controffensiva politico-culturale che viene rilanciata con forza, saldando la retorica, conservatrice e nostalgica, di una mitica scuola pre-sessantottina della disciplina e dell’autorità, dove gli studenti studiavano seriamente e dove gli insegnanti erano rispettati e riconosciuti, a una concezione neoliberale/funzionalista dell’istruzione. Secondo quest’ultima, dalla scuola non dovrebbero più uscire cittadini liberi, autonomi, consapevoli, con un pensiero critico, e con conoscenze di base e trasversali, ma soggetti ‘occupabili e formati’ in funzione – e magari al servizio – delle esigenze contingenti di questo o quel contesto produttivo territoriale in cui dovrebbero andare a lavorare. In una sovrapposizione tra sfera formativa e sfera produttiva, tra apprendimento e addestramento, in cui si fa sempre più fatica a trovare il confine e le differenze.
Pensiamo agli ITS, che la recente riforma ha – di fatto – consegnato nelle mani esclusive del sistema delle imprese; pensiamo ai “licei del made in Italy”, annunciati dalla presidente del Consiglio, o alla proposta di sperimentazione sull’istruzione tecnico-professionale che il Ministro Valditara intende avviare.
Se volessimo liquidare tutto questo con una battuta, potremmo dire che alla “scuola della Confindustria”, presto si aggiungerà anche la “scuola della Coldiretti o della Confartigianato o della Confcommercio, o della Federalberghi”.
Al di là della filosofia e dell’idea del ruolo dell’istruzione – questione che, per noi, è già di per sé dirimente – il punto è che, oltretutto, non è certo così che possiamo affrontare le sfide epocali che abbiamo di fronte: la rivoluzione tecnologica, la transizione energetica, la conversione ecologica.
Per affrontarle – queste sfide – noi abbiamo bisogno innanzitutto di intelligenze flessibili e non convenzionali, di menti aperte e, soprattutto, di far raggiungere i gradi più alti degli studi al maggior numero possibile di persone (altro che esperienze on the job dopo i 15 anni).
Insomma, anche per puntare a questi obiettivi, serve tutt’altro. Un sistema d’istruzione che, innanzitutto, garantisca gli stessi diritti e le stesse opportunità a tutti, a prescindere dal luogo e dalla famiglia in cui si è nati. E che investa più risorse non dove si produce più PIL, ma nelle realtà più svantaggiate del nostro Meridione, delle periferie delle città, delle aree interne, anche del centro e del nord del Paese.
Un’istruzione pubblica da considerare il luogo per eccellenza in cui si diventa cittadini sovrani, il cuore di una società che finalmente torni a mettere al centro non il mercato, ma la cura e lo sviluppo della persona umana. Insomma, un sistema di istruzione che non può certo essere il contesto in cui si viene educati all’individualismo e alla competizione tra le persone.
È questo che si nasconde dietro “la tirannia del merito”, come l’ha definita il filosofo americano Michael Sandel nel suo recente saggio del 2021: una copertura e una giustificazione – ideologica, politica e persino morale – delle disuguaglianze esistenti e dell’attuale gerarchia sociale. Altro che visione moderna e innovativa, questa è una concezione profondamente conservatrice, se non proprio reazionaria; o, per dirla in altri termini, un ulteriore corollario della visione neoliberale – e classista – della nostra società.
Sempre don Milani, cui non mancava certo la schiettezza e la chiarezza, diceva che: “il classismo dei ricchi si chiama interclassismo. La lotta di classe – quando la fanno i signori – diventa signorile”. Siamo sempre lì…
Peggio, trent’anni di egemonia e di pensiero unico neoliberista hanno fatto perdere anche gli ultimi freni inibitori.
Noi non abbiamo nessuna intenzione di rassegnarci a tutto questo. In particolare, non vogliono rassegnarsi le nuove generazioni.
E allora chiudo, dicendo semplicemente: che c’è un pianeta da salvare dalla catastrofe climatica e persino dall’olocausto nucleare, che ci sono giustizia sociale e nuovi spazi di democrazia e di partecipazione da conquistare, che c’è da rendere protagonisti di questo cambiamento le studentesse e gli studenti, le lavoratrici e i lavoratori.
È proprio a loro che dobbiamo dare “tutti gli usi della parola”, come diceva don Milani. Un impegno che – come ho imparato leggendo il libro di Vanessa Roghi (che mi perdonerà per la citazione in sua presenza) – Gianni Rodari commentava così: “mi sembra un buon motto, dal bel suono democratico, non perché tutti siano artisti, ma perché nessuno sia schiavo”.