DOI 10.35948/2532-9006/2024.34328
Licenza CC BY-NC-ND
Copyright: © 2023 Accademia della Crusca
Il tema di questa comunicazione ha molto a che vedere con i fenomeni di dispersione e abbandono scolastico. Dietro molte situazioni di vulnerabilità sociale degli adulti si celano, infatti, percorsi incompiuti di scuola e livelli di inadeguata formazione culturale e professionale. È ormai convinzione generalmente acquisita che la povertà educativa negli adulti sia l’esito di situazioni di difficoltà formativa vissute in età infantile e giovanile, che fanno pesare i loro effetti anche a distanza di decenni. Ogni discorso su questo tema va, dunque, sistematicamente ricondotto al funzionamento del sistema scolastico.
In questa sede mi sembra, tuttavia, ineludibile un’attenzione all'impoverimento linguistico, deleterio per lo stesso sviluppo cognitivo: un impoverimento che registriamo in generale nella società e che è parte fondamentale della più complessiva povertà educativa, comportando anche un calo significativo delle competenze logico-analitiche e argomentative. Diminuiscono gli spazi di socialità (che non sia quella ‘virtuale’): si parla di meno; si svolgono meno attività comuni (prevalgono le solitudini indotte dalla fruizione di Tv, smartphone, pc); si legge di meno (con una sempre più ridotta capacità di interpretare e comprendere un testo scritto) e si usa sempre meno il linguaggio in modo competente per comunicare, ragionare, fornire informazioni. Ultima, ma non per importanza, la iper-semplificazione della nostra comunicazione sui social (pensiamo a Twitter, ma anche Facebook), che porta con sé una diseducazione all'articolazione del pensiero: il periodare complesso ipotattico è quasi sconosciuto e, quando presente, viene vissuto con un certo fastidio. A un generale arretramento della razionalità corrisponde un incremento di attitudini irrazionali e persino violente, la cui espressione più oscena e ripugnante è rappresentata dai femminicidî.
Vi proporrò qui alcune considerazioni basate su dati ISTAT, un modo anche questo per onorare la memoria del priore di Barbiana, tra i primi se non il primo educatore italiano ad aver preso spunto da dati statistici per sviluppare personali analisi e riflessioni: un metodo che, a sua volta, sarà fatto proprio dall’indimenticabile Tullio De Mauro.
In Europa, il fenomeno di cui parliamo è misurato dalla quota di 18-24enni che possiede al più un titolo secondario inferiore ed è fuori dal sistema di istruzione e formazione. La combinazione di queste due caratteristiche definisce il parametro ELET (Early Leavers from Education and Training), che rappresenta uno dei parametri di Strategia Europa 2020. In Italia la quota di ELET è stimata al 13%, pari a circa 543 mila giovani. Nonostante si siano registrati progressi sul fronte degli abbandoni scolastici, la quota di ELET nel nostro Paese resta tra le più alte dell’Ue. L’obiettivo di Strategia Europa 2020 è di abbassare al 9% la quota di ELET entro il 2030.
Si consideri poi che nel nostro paese i divari territoriali sono molto ampi e persistenti: l’abbandono degli studi prima del completamento del sistema secondario superiore o della formazione professionale è del 16,3% nel Mezzogiorno, 11,0% nel Nord e 11,5% nel Centro. Gli squilibri regionali appaiono marcati: diverse regioni hanno valori inferiori al 10% mentre Sicilia, Campania, Calabria e Puglia hanno le maggiori incidenze di abbandoni (19,4%, 17,3%, 16,6% e 15,6% rispettivamente). Basterebbero questi dati per rendere improponibile e intollerabile ogni ipotesi di regionalismo differenziato.
Tra i giovani con cittadinanza non italiana, il tasso di abbandono precoce degli studi è oltre tre volte superiore a quello degli italiani, il che ci dice molto circa l’inefficacia delle politiche di integrazione e sulle scarse attitudini interculturali del nostro sistema scolastico. È noto che la condizione socioeconomica della famiglia di origine è un fattore determinante dell’abbandono scolastico precoce. Incidenze molto elevate di abbandoni precoci si riscontrano laddove il livello d’istruzione e/o quello professionale dei genitori è più basso. L’abbandono degli studi prima del diploma riguarda il 22,7% dei giovani i cui genitori hanno al massimo la licenza media; incidenze molto contenute di abbandoni, pari al 5,9% e al 2,3%, si riscontrano, invece, per i giovani rispettivamente con genitori con un titolo secondario superiore e genitori con un titolo terziario. Similmente, se i genitori esercitano una professione non qualificata o non lavorano, gli abbandoni scolastici sono più frequenti (circa il 22%), mentre sono contenuti quando la professione dei genitori è altamente qualificata (3%) o impiegatizia (9%): una conferma di come la scuola abbia ridotto la sua funzione di ‘ascensore sociale’.
Un effetto delle disuguaglianze educative lo riscontriamo nell’aumento di quelle socioeconomiche, che perpetuano la trasmissione intergenerazionale delle condizioni di svantaggio. La mancanza di opportunità educative riduce la probabilità che il soggetto, da adulto, riesca a sottrarsi a una condizione di disagio economico, poiché una bassa istruzione implica una maggiore difficoltà di inserimento nel mercato del lavoro ed è legata a impieghi in lavori scarsamente qualificati e poco retribuiti. In questi casi il basso tasso di occupazione degli ELET non sembra derivare da uno scarso interesse a entrare nel mondo del lavoro, ma dalla reale difficoltà a trovare un’occupazione; il tasso di mancata partecipazione, cioè la quota di non occupati tra quanti sono disponibili a lavorare, è infatti significativamente maggiore tra gli ELET (56,2%) rispetto ai diplomati (38,9%): sia detto a smentita di tante amene falsità messe in circolazione a proposito del reddito di cittadinanza.
La dispersione scolastica è strettamente connessa al fenomeno dei NEET (Not in Education, Employment and Training), il cui valore è misurato come la percentuale di individui non occupati né in istruzione o formazione rispetto al totale degli individui 15-29enni. Infatti, una quota consistente di NEET è composta da giovani con al più un titolo secondario inferiore (il 40%, nel 2019).
Le indagini Istat sull’ingresso dei giovani nel mercato del lavoro hanno evidenziato quanto sia importante il ruolo della scuola e la capacità del sistema scolastico nel trattenere i giovani fino alla fine del ciclo di studi. Ciò in misura ancora maggiore nel Mezzogiorno, dove la difficoltà negli studi risulta il principale motivo di interruzione degli stessi, mentre nel Centro-Nord il principale motivo è l’avvio di un lavoro. L’abbandono scolastico può essere, talvolta, causato da una insoddisfazione per l’offerta formativa disponibile. Importante è quindi mirare anche all’ampliamento dell’offerta formativa e alla sua capacità di corrispondere a bisogni di formazione differenti. È molto probabile che le difficoltà frapposte dalla pandemia all’ordinaria fruizione dell’offerta formativa possano avere avuto qualche effetto sulla dispersione scolastica. Un recente report Istat fornisce dati sugli spazi domestici e le dotazioni informatiche di cui hanno potuto usufruire gli studenti durante l’emergenza Covid19: si evidenziano forti differenze territoriali e di classe sociale per quanto riguarda soprattutto le dotazioni informatiche dei ragazzi.
È bene ancora ricordare che in Italia solo il 20,1% della popolazione di 25-64enni possiede una laurea contro il 32,8% nell’Ue. Le quote di laureati sono più alte al Nord (21,3%) e al Centro (24,2%) rispetto al Mezzogiorno (16,2%) ma comunque lontane dai valori europei. Ampia distanza dagli altri paesi europei registriamo anche nella quota di popolazione con almeno un diploma (62,9% contro 79,0% nell’Ue).
Il tema della povertà educativa degli adulti incrocia quello dell’apprendimento permanente, che dovrebbe assumere sempre maggiore rilevanza soprattutto alla luce dei cambiamenti nel mercato del lavoro, della mobilità lavorativa e dell’innovazione tecnologica. Questi fattori accrescono il rischio di un’obsolescenza delle competenze e richiedono continui adattamenti e riqualificazioni. Inoltre, la partecipazione ad attività formative durante tutto l’arco della vita favorirebbe la vita sociale degli individui, una cittadinanza attiva e la coesione sociale. Tra i fattori che più influenzano la partecipazione degli adulti alla formazione continua vi è il livello di istruzione posseduto. Nel 2020, l’incidenza del lifelong learning è pari al 16,9% tra chi ha un titolo terziario, si riduce al 7,6% tra i diplomati ed è solo dell’1,4% tra chi ha un basso titolo di studio, essa è inoltre minima tra i disoccupati e massima tra gli occupati (4,4% verso 7,6%,) mentre nel resto d’Europa è massima tra i disoccupati (10,5% rispetto a 9,5% degli occupati): ciò segnala una debolezza strutturale e politica perché il divario Italia-Europa è massimo proprio per le persone disoccupate in età attiva (25-64 anni). Eppure un’ampia partecipazione alle attività formative, l’aggiornamento delle competenze e la riqualificazione professionale sarebbero necessarie proprio per gli individui più vulnerabili, i quali con più difficoltà tengono il passo dell’innovazione tecnologica e delle trasformazioni da questa indotte. Inoltre, la formazione continua supplirebbe alla scarsa istruzione formale ricevuta, permettendo una crescita personale e una maggiore partecipazione alla vita sociale.
Ho citato molti (forse troppi) dati. Ma ho la sensazione netta che, nell’analizzare il fenomeno della povertà educativa degli adulti, qualcosa ancora ci sfugga. Vorrei almeno tentare di capire che cosa ancora sfugge alla nostra analisi. Facendo nostro l’approccio teorico di Martha Nussbaum, è opportuno affermare, innanzitutto, che la possibilità di giungere a una effettiva uguaglianza sociale passa anche attraverso la promozione della libertà individuale, intesa come l’opportunità, aperta a tutti, di realizzare i propri progetti di vita. È evidente che il soddisfacimento di questo tipo di opportunità non richiede solamente risorse economiche, ma anche risorse culturali e ‘riflessive’, di capacità di discernimento, comunque necessarie alla realizzazione personale e al raggiungimento della piena cittadinanza: la povertà educativa, che nella popolazione adulta sarebbe più opportuno definire come povertà di istruzione e marginalità culturale, si manifesta come una privazione di quelle competenze cognitive fondamentali per poter vivere in una società contemporanea sempre più caratterizzata dalla rapidità dell’innovazione e dalla conoscenza. Ma si traduce anche – ecco il punto! - nel mancato sviluppo di una serie di capacità ‘non-cognitive’ quali la motivazione, l’autostima, le aspirazioni e i sogni, la comunicazione, la cooperazione, e l’empatia, altrettanto fondamentali per la crescita culturale dell’individuo e il suo contributo al benessere collettivo. Non a caso, il campo semantico della deprivazione educativa si è progressivamente esteso negli ultimi decenni, considerando come ideale quell’educazione integrale della persona, già cara a Maritain e alla tradizione del personalismo pedagogico, oggi al centro del Patto Educativo Globale proposto da Papa Francesco nel 2020. Possiamo, dunque, affermare che quando trattiamo di educazione o istruzione degli adulti non d’altro ci occupiamo se non dello sviluppo integrale della persona umana attraverso quel che definiamo ‘apprendimento permanente’.
Tra le figure che si sono misurate con una povertà non solo materiale, quindi anche educativa, spicca senz’altro don Lorenzo Milani. La sua concretezza pedagogica offre ancora indicazioni utili per prevenire e contrastare il fenomeno in tutte le sue dimensioni, mettendoci a disposizione esempi di buone pratiche. Scrive in Esperienze pastorali:
Tutto questo mondo che pare così diverso da quello degli analfabeti di montagna è invece secondo me tutt’uno e soffre del medesimo male: vacuità intellettuale e culturale. Si crogiola in cose inutili solo perché non ha gustato pasto migliore.
L’orizzonte pedagogico entro il quale si muove il pensiero di don Milani, ci induce dunque a estendere all’intera società adulta il discorso su ciò che noi definiamo ‘povertà educativa’ perché, come il priore di Barbiana, anche noi abbiamo visto affermarsi abitudini, atteggiamenti mentali e affettivo-emotivi, mode, circoli viziosi che inducono una deprivazione immateriale persistente, spesso connessa, ma anche indipendente dalla povertà economica; tutto questo in un mondo che ha esasperato l’apparire, la competizione, l’affermarsi del singolo a ogni costo e con ogni mezzo, seguendo logiche individualistiche incentivate dai meccanismi del mercato neoliberista. Ne deriva una dimensione ormai molto ampia della povertà educativa e culturale, che non riguarda solo situazioni di grave marginalità ma coinvolge tutte le classi sociali. Certo, il fenomeno è particolarmente acuto in contesti periferici, dobbiamo intenderci però sul termine ‘periferia’, che non è più soltanto quella urbana, ma si estende a un significato più ampio e complesso: quello di una periferia culturale ed esistenziale. Siamo di fronte al frutto maturo di un processo complesso, eterogeneo e multiforme, le cui conseguenze sono sempre più evidenti e diffuse: basti considerare la mancata consapevolezza nell’esercizio delle funzioni di cittadino (intendo la consapevolezza politica e la conoscenza delle istituzioni e dei fondamenti democratici della Repubblica), che ha generato un diffuso disinteresse e distacco dalla cosa pubblica, evidenziato dal crescente e allarmante astensionismo elettorale.
Se non collochiamo a questo livello e non diamo questo spessore al nostro discorso sulla povertà educativa degli adulti, temo che continuerà a prevalere un’angusta visione burocratico-ministeriale del problema.
Si tratta, dunque, di affrontare processi socioculturali di lunga lena: c’è una visione politica da costruire e a cui dar vita, un disegno politico strutturato, con strategie e finalità chiare.
Ma intanto? Intanto, la domanda a cui rispondere è quella classica: che fare? credo che si potrebbe innanzitutto ragionare sulle dinamiche dell’apprendimento permanente, al fine di ricavarne un vero e proprio ‘sistema’, anche attraverso una più diffusa e diversa organizzazione di istruzione e formazione professionale nonché attraverso un diverso ruolo da attribuire ai Centri Provinciali per l’Istruzione degli Adulti (CPIA). Intendiamoci, anche per fare questo primo passo serve una volontà politica, che al momento non vedo. Aggiungo che un sistema di apprendimento continuo, che intenda essere effettivo, strutturale e di massa, non può non prevedere al proprio interno la dimensione di un orientamento altrettanto permanente e continuo.
Gli attuali assetti istituzionali e organizzativi del sistema nazionale di istruzione e formazione portano a individuare proprio nei CPIA i soggetti potenzialmente chiamati a sviluppare, sui territori, tale strategia. Tuttavia, va chiarito che una simile ‘missione’ richiede interventi di sostanziale riforma di questi centri, con adeguati investimenti in risorse umane e materiali, investendo di più là dove maggiore è il deficit in ambito di cultura e istruzione: si tratta di garantire attività di ricerca e sperimentazione condotte con rigore scientifico, per promuovere progetti operativi che si configurino come il risultato di un’analisi dei fabbisogni formativi e culturali dei territori di riferimento. Attualmente, coloro che si rivolgono ai CPIA o che si iscrivono a un qualunque corso di formazione professionale esprimono una domanda di istruzione generalmente motivata dalla necessità di acquisire certificazioni di competenze funzionali a esigenze di lavoro o a processi di integrazione. Si tratta di una ristrettissima minoranza della popolazione adulta. Il bisogno di istruzione riguarda viceversa gran parte della popolazione adulta, ma si tratta di un bisogno che resta in larga misura sommerso e inespresso. Del resto, non è un caso che negli ultimi anni la tipologia di utenza dei CPIA sia radicalmente cambiata: oggi ci sono molti richiedenti asilo, minori stranieri non accompagnati, insieme a tanti deboli scolarizzati italiani (in particolare in carcere, spesso analfabeti) e immigrati di tipo economico. L’adulto che frequenta i CPIA (l’utente–tipo dell’istruzione degli adulti italiana) è prevalentemente straniero, per lo più non italofono o scarsamente tale. Ma la sfida più ambiziosa, da porre al centro di una nuova strategia, è quella di fare emergere il bisogno diffuso, latente e inespresso, di istruzione per trasformarlo in domanda. Insomma, bisognerebbe poter disegnare un futuro per i CPIA, individuando un orizzonte ben più ampio e impegnativo della mera ‘istruzione degli adulti’ (o, per meglio dire, ‘di pochi adulti’). Servirebbe, cioè, una rete di ‘Centri territoriali per l’apprendimento continuo’, dotati di risorse e strumenti necessari a gestire un servizio finalizzato alla crescita costante dei livelli culturali e di istruzione della totalità dei cittadini, a cominciare magari dall’educazione ecologica, dall’educazione alla pace, dall’alfabetizzazione digitale e informatica. Ecco: se per ogni scuola che si chiude (o di cui si annuncia la chiusura) a causa del calo demografico, si aprisse un centro territoriale per l’apprendimento continuo, faremmo davvero un bel passo avanti.
Detto in altri termini, occorre rendere effettivo, strutturale e universale l’apprendimento permanente e consentire, a ogni persona che lo desideri, di svolgere per tutto l’arco della vita la duplice funzione dell’insegnamento e dell’apprendimento, perché ognuno di noi ha - sempre - qualcosa da insegnare e molto da imparare, sempre. Se c’è dell’utopia (e indubbiamente c’è) in questa proposta, vi chiedo di essere indulgenti perché credo che sia proprio questo nostro tempo, così critico, difficile e complesso, a richiedere che lo si affronti proponendosi traguardi ambiziosi e, se occorre, persino utopistici. Questa, almeno, è la lezione che a me piace trarre dall’eredità formidabile lasciataci da don Lorenzo Milani.