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Consonanti doppie o scempie? Questo è (a volte) il problema

  • Paolo D'Achille
SOTTOPOSTO A PEER REVIEW - IN ANTEPRIMA

DOI 10.35948/2532-9006/2023.29110

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Quesito:

Ci sono arrivati vari quesiti circa la correttezza di grafie di parole che presentano consonanti doppie come pressocché, ovverossia, treccento, invece di pressoché, ovverosia, trecento.

Consonanti doppie o scempie? Questo è (a volte) il problema

Per dissipare i dubbi dei nostri lettori, basterebbe rimandare alla nuova edizione del DOP, disponibile in rete, che registra solo trecento e che, nel caso di ovverosia e pressoché, precisa “non pressocché” e “non ovverossia”. Ma quest’ultima forma è registrata, come semplice variante di ovverosia, nel GRADIT e nello Zingarelli (a partire almeno dall’11a ed., del 1990, dove è indicata come rara), mentre pressocché è variante ammessa di pressoché sia nello stesso dizionario (almeno a partire dallo Zingarelli 2015, che la etichetta come lett. e rara; la prima marca è omessa nelle edizioni più recenti), sia nel Devoto-Oli 2023 in rete (consultato il 28 giugno 2023). Ci pare allora opportuno inserire i dubbi dei nostri lettori e le diverse indicazioni fornite dai dizionari in un discorso più generale.

L’italiano standard di base tosco-fiorentina è una delle non moltissime lingue in cui la durata delle consonanti in posizione intervocalica all’interno di parola ha valore fonologico, serve cioè a distinguere vocaboli di significato diverso, come pala e palla, caro e carro, fato e fatto. Come si vede da questi esempi, nella scrittura la lunghezza consonantica viene resa con la ripetizione della stessa consonante. Così, mentre in fonetica e in fonologia si distingue tra consonanti brevi o tenui e consonanti lunghe o intense, in grafematica si parla di consonanti scempie (dal lat. sĭmplum ‘singolo, semplice’; la voce si usa anche, in senso figurato, col valore di ‘sempliciotto, sciocco’) e doppie. Normalmente, nello standard, la grafia corrisponde alla fonetica: le eccezioni riguardano soprattutto la lettera zeta, sia sorda sia sonora, che, almeno nell’italiano standard (anche nella sua pronuncia romana) è sempre intensa, pure in parole che presentano graficamente una sola z, soprattutto nelle sequenze grafiche zia/zie/zi(i)/zio: grazia, azienda, vizi, inizio.

Ma ci sono altri dati da tenere presenti. Anzitutto la varietà delle pronunce regionali: al Nord si tende ad abbreviare le consonanti lunghe, mentre da Roma in giù si pronunciano generalmente intense la b, la g palatale e spesso anche la m. Ci sono allungamenti consonantici ampiamente diffusi nel parlato non ammessi nello scritto: è il caso di accelerare e derivati, in cui la l è intensa come in scellerato. Non mancano alternative da considerare entrambe corrette (obiettivo/obbiettivo), né mutamenti avvenuti nel corso del tempo per ragioni diverse (rettorica, normale in italiano antico, ha poi ceduto a retorica; susurrare è ormai divenuto arcaico rispetto a sussurrare; grafie latineggianti come imagine e academia erano usate in passato, ma sono ormai divenute idiosincratiche).

I parlanti meno colti da un lato tendono a trasferire la loro pronuncia nello scritto, dall’altro, per reazione alla loro tendenza naturale, tendono a “ipercorreggersi”, raddoppiando o scempiando indebitamente una consonante (frequenti, in questi tipi di testi, sono anche forme come bacciare e baccio, forse adoperate pure per salvaguardare la pronuncia affricata di ci). Inoltre, la “regola” per cui la pronuncia intensa deve essere resa con la doppia non è facile da interiorizzare e quindi grafie come gato per gatto, casa per cassa, ecc. si trovano non solo in scriventi semicolti settentrionali, ma anche in testi meridionali, nonché in produzioni scolastiche della scuola primaria o secondaria di primo grado provenienti un po’ da tutta Italia.

Un caso particolare è poi rappresentato dal cosiddetto raddoppiamento (o rafforzamento) fonosintattico, per cui, in certe condizioni (per lo più dopo parole accentate sull’ultima vocale e monosillabi tonici che in latino terminavano in consonante, ma anche dopo il bisillabo sopra), le consonanti iniziali di parola vengono rafforzate (a casa, io e te, virtù somma, sopra tutto), ma si raddoppiano solo in caso di univerbazione (affresco, ebbene, caffellatte, sopraggiungere). Ora, se da un lato il fenomeno è in regressione nell’italiano neostandard (che preferisce ciononostante a cionnonostante, tivù a tivvù, sopratassa a soprattassa; ma per le parole formate con sopra- e sovra- e il conseguente raddoppiamento si veda la risposta di Iacobini e Cordisco), dall’altro le regole del raddoppiamento sintattico (naturali per i parlanti toscani e, con poche differenze, romani) sono sconosciute altrove e in particolare al Nord, in cui il fenomeno nel parlato non avviene. Ecco così che, a volte, abbiamo grafie e pronunce che presentano raddoppiamenti e allungamenti indebiti.

Ma torniamo alle nostre tre voci. In ovverossia è evidente l’influsso di ossia, che del resto gli è sinonimo, così come ovvero. Ora, la doppia v in ovvero come la s in ossia e la p in oppure si debbono alla congiunzione o, dal lat. aut, mentre la doppia s in ovverossia non è giustificata. La parola infatti rappresenta l’univerbazione di ovvero sia e (ov)vero non provoca il raddoppiamento sintattico; forse la sua reinterpretazione come composto di ovvero + ossia può spiegare la presenza della doppia s, che del resto, come si è visto, è qui tollerata (neppure il correttore automatico che sto usando mi segnala l’errore). Anzi, bisogna dire che nel PTLLIN le occorrenze di ovverosia sono solo 2 (entrambe dalle Novelle del ducato in fiamme di Carlo Emilio Gadda, 1953), mentre quelle di ovverossia 9 (6 nel Maestro di Vigevano di Luciano Mastronardi, 1962; 2 in L’occhio del gatto di Alberto Bevilacqua, 1968; 1 in Paese d’ombre di Giuseppe Dessì, 1972).

Quanto a pressoché, si tratta dell’univerbazione di presso che (la grafia separata è ormai rara, ma non proprio desueta) e l’avverbio presso non provoca il raddoppiamento fonosintattico. In questo caso la forma *pressocché si può spiegare con l’influsso da un lato di pressappoco (univerbazione di presso a poco, in cui la doppia è provocata dalla preposizione a, dal lat. ad), dall’altro di congiunzioni come giacché, sicché, cosicché, in cui a determinare il raddoppiamento di che sono monosillabi tronchi come già, , così. Pur se, come si è visto, non ammessa dal DOP e non citata nel GRADIT, questa forma (tollerata anch’essa dal mio correttore automatico), sembra godere di una certa diffusione: tra coloro che ci hanno scritto c’è anzi chi sostiene di averla imparata dalla propria maestra (e considera pressoché un’innovazione); ne troviamo 5 occorrenze (anche nella grafia pressocchè, con l’accento grave) tra i messaggi che ci sono arrivati per proporci altri quesiti (a fronte di 39 esempi di pressoché). In questo caso, il corpus PTLLIN è invece concorde per pressoché: c’è un unico esempio con la doppia, favorito dall’a capo: “Gli sci sono ancora strumenti troppo rudimentali. Anzitutto mancano di freni. Poi danno un terribile impaccio, sulla neve: con la minima pendenza del terreno, rendono pressoc-ché impossibile l’equilibrio” (Achille Campanile, Gli asparagi e l’immortalità dell’anima, Milano, Rizzoli, 1974, p. 251), a fronte di 93 occorrenze di pressoché in 15 opere, compresa quella appena citata (oltre a 1 caso di presso che in Novelle dal ducato in fiamme e 2 in Paese d’ombre).

Quanto a treccento, la forma, come si è visto, è attestata molto di rado nello scritto (non a caso nostri lettori fanno riferimento alla pronuncia e si potrebbe richiamare al riguardo la risposta di Vittorio Coletti su stassera) ed è più marcata in senso antinormativo. Evidentemente il numerale è stato sentito come un composto di tre e cento (lo considera tale, del resto, anche il Devoto-Oli 2023) e tre (lat. tres), effettivamente, provoca il raddoppiamento fonosintattico (per un esempio univerbato basti citare il nome proprio Treccani); ma (data anche l’assenza della forma nel corpus OVI e nel GDLI), si tratta di un derivato, per tradizione diretta, del latino trecĕntos (Zingarelli). In ogni caso, la scempia risulta giustificata anche sul piano etimologico; la grafia e anche la pronuncia con la doppia, per le quali darei una spiegazione analoga a quella fornita sopra per bacciare, sono dunque assolutamente da evitare.

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