DOI 10.35948/2532-9006/2022.17744
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Dalla Toscana un lettore chiede lumi sul significato e sull'origine della parola drusiana, sentita usare dalla propria nonna. Proviamo a soddisfare la sua curiosità.
Drusiana è la protagonista di un noto poema cavalleresco del XIII secolo, Boeve de Haumtone, un testo anglo-normanno di autore anonimo in versi alessandrini, che fu sviluppato in ben tre differenti versioni francesi (Beuve de Hanstone), sempre del XIII secolo. Il romanzo cavalleresco ebbe una larghissima diffusione in Europa nei secoli successivi: in Inghilterra prende il titolo di Beves of Hamtoun e anche Bevis of Hampton; in Russia diviene Bova Korolevič. In Italia la leggenda di questo giovane cavaliere (Buovo/Bovo d’Antona) ebbe altrettanta fortuna, e infatti se ne contano almeno sette redazioni, in prosa e in versi. Sicuramente la fama della leggenda e dei suoi protagonisti, qui da noi, fu dovuta alla più importante di queste versioni in prosa, cioè quella inscritta all’interno (IV libro) dei Reali di Francia di Andrea da Barberino (1370-1432), testo ristampato con successo fino alla prima metà del XIX secolo. Le vicende cavalleresche di Buovo ebbero tanta presa sul pubblico che anche Carlo Goldoni (1707-1793) scrisse un libretto, Bovo d’Antona, per il “dramma giocoso” musicato dal napoletano Tommaso Traetta (1727-1779), e andato in scena a Venezia nel carnevale del 1759 (il melodramma, che prendeva spunto da una delle tante avventure narrate nel poema, era firmato da Goldoni con il proprio pseudonimo da arcade: Polisseno Fegeio).
In area toscana il nome Drusiana ha però assunto una differente accezione del tutto negativa, che contrasta con le caratteristiche fisiche e morali della protagonista del poema: qui infatti Drusiana è una bellissima fanciulla, promessa sposa contro la sua volontà al re Marcabruno pur se innamorata di Buovo. Inoltre, se analizziamo l’etimologia del suo nome, riscontriamo una comune radice con il termine drudo – dall’antico provenzale dru/drut –, il cui significato di ‘amante fedele’ confermerebbe la comprovata reputazione della fanciulla (anche se poi il termine, specie nella forma femminile druda, ha assunto a sua volta un’accezione negativa, quella di ‘amante’, ‘concubina’). Una precedente figura femminile con tale nome è l’efesina Drusiana resuscitata da San Giovanni Evangelista, come narrato negli apocrifi Atti di Giovanni; la scena del miracolo è stata oggetto di ispirazione per artisti quali Giotto, Donatello, Taddeo Gaddi e Filippino Lippi. Il nome dunque era ricorrente e sempre associato a una visione positiva. Per quanto, una novella (De malitia mulieris adultera) di Giovanni Sercambi (1348-1424) veda come protagonista una Drusiana infedele al marito.
Di fatto, nel passaggio da nome proprio a nome comune, Drusiana è divenuto un deonimico indicante una ‘donna di malaffare’, una ‘donnaccia’, una ‘donna sciatta, sudicia e goffa’. Il traslato trova già testimonianza nel Cinquecento, nelle Carte parlanti (1543) di Pietro Aretino (1492-1556), in cui si fa cenno a un tale che, dopo aver passato una serata a giocare a carte con gli amici e aver cenato, “se n’andò a letto con una sua drusiana”. È ben vero che lo stesso Aretino, in uno dei suoi Ragionamenti (1534), aveva fatto riferimento alla figura di Drusiana come esempio di devozione: “[…] per essersigli inginocchiata a’ piedi una monachetta dotta, come Drusiana in Buono d’Antona in canto figurato” (Giornata prima).
È possibile che questo spostamento in negativo del deonimico di cui Aretino ci dà la prima testimonianza nasca dall’ironica volontà popolare di trasformare, per contrasto, una giovane bella e onesta in una donnaccia trasandata e dai facili costumi. Può aver contribuito in questo anche la terminazione in -ana del nome stesso, come aveva a suo tempo ipotizzato Bruno Migliorini, che suggeriva il confronto con nomi popolari derivati da nomi propri con la medesima terminazione (quali susana, arfarana, luciana), e tutti con significato spregiativo, che chiaramente si associavano ad altri nomi con accezioni riprovevoli quali mammana e, soprattutto, puttana.
Giuseppe Rigutini nelle sue Giunte ed osservazioni al Vocabolario dell’uso toscano (1864), alla voce Drusiana, ripetendone i significati peggiorativi, prova a dare una possibile spiegazione dell’avvenuto degrado del nome: “Voce senese, detto per ispregio di donna vile, sciatta o di mali costumi. Forse si dovettero chiamare con questo nome quelle baldracche che nei più infelici tempi della cavalleria seguivano i venturieri; a differenza dell’antica Drusiana dei romanzi cavallereschi, la quale fu donna di onorati costumi”. E, sempre per citare anche un altro valente lessicografo toscano, Idelfonso Nieri, scorrendo le pagine del suo Vocabolario lucchese troviamo un curioso rimpallarsi di voci, senza che mai venga data una precisa spiegazione del termine (quasi una volontà di censura), e dalla voce Drusiana si fa rimando alla voce Trusiana, da questa si rimanda a Brendana, da Brendana si rinvia ad altri due nomi propri femminili usati come eufemismi Pulciana e Pursiana. E, per quanto il lessicografo ci lasci senza precisi chiarimenti sul loro significato, le voci da lui raccolte non fanno altro che confermare l’ipotesi di Migliorini sulla terminazione in -ana con accezione negativa.
Gli esempi mostrati attestano che era la Toscana l’area regionale di maggior diffusione del deonimico (e lo è ancor oggi, come dimostra l’osservazione del nostro lettore, che scrive da Montevarchi); e proprio in area toscana è diffusa anche la variante Trusiana, con medesimo significato denigratorio. Il termine, con questa forma, si trova già registrato nel Vocabolario dell’uso toscano (1863) di Pietro Fanfani: “Trusiana; lo dicono a Pistoja ed altrove a donna sciatta e lorda, e anche poco onesta; e che altri dicono anche Drusiana”. Sempre restando nell’ambito della lessicografia ottocentesca (e ancora di ambito toscano), ricordiamo l’ipotesi etimologica che Silvio Pieri propose nel suo saggio di Fonetica del dialetto lucchese (“Archivio Glottologico Italiano”, vol. XII, 1890-1892, pp. 107-134), in particolare nei suoi Appunti di lessicologia lucchese alla voce Trucia (p. 134), in cui spiega: “donna sciatta col vestito in brindelli, donna poco onesta. […] E drusiana (pis. e pist. trusiana) potrebbe esser trucia, con suffisso per avventura mutuato da puttana”.
Trusiana ritorna in molte testimonianze letterarie, come quelle riscontrabili in due sonetti di Renato Fucini (firmati con lo pseudonimo di Neri Tanfucio; 1843-1921): “Che voglion questi figli di trusiane?” (Cento sonetti, 1872: son. XI); “Che bèr mondo hanno visto le… trusiane!” (ivi: son. LIII). Anche Edmondo De Amicis, sempre attento al parlato toscano e fiorentino, inserisce il nome nel suo lungo racconto Un dramma nella scuola (in Fra scuola e casa, 1892), mettendolo in bocca a una popolana che maliziosamente alludeva a una donna dall’ambigua reputazione (“E l’è proprio furba a parlar di disonore, con quello che sanno! […] Faccia il suo dovere lei, signora direttrice, invece di tenerla dalle trusiane!”). Infine ricordiamo che Aldo Palazzeschi (1885-1974), nel suo piccolo capolavoro Il Codice di Perelà (1920), usa esplicitamente il termine: “– Bagascia! Spudorata! Le gridavano tutti. – Trusiana!”. Curiosamente in una traduzione del Don Chisciotte redatta dal pisano Alfredo Giannini (1865-1939) e ora riedita (Milano, Rizzoli “Classici BUR”, 2005), al capitolo XXII si legge questa frase: “– Allora, giuraddio – disse Don Chisciotte, or montato sulle furie – signor figliolo d’una trusiana”, che traduce il ben più esplicito “don hjio de la puta” dello spagnolo. Il Nieri registra inoltre il termine Trusianata definendolo “buscherata, corbelleria, minchioneria”.
Drusiana è testimoniata anche in altri testi di scrittori toscani, quali Carlo Collodi (1826-1890). In uno dei suoi primi romanzi, I misteri di Firenze (1857), al capitolo XIII, la popolana Rodope esprimere con sprezzo il suo giudizio sulle “grandi signore”: “per tua regola, le non si innamorano mai dei poveri. Se tu mi dici che le possano prendere un capriccio, una fantasia […] te l’accordo; le son civette e tanto drusiane…”.
Infine, anche Lorenzo Viani (1882-1936) fa frequente uso del termine: “segnalai all’amico essere costei una drusiana scandalosa, sull’età di anni circa quarantacinque” (Il «Bava», 1932, cap. X); “Quando all’improvviso entrò nella locanda un collegio di drusiane, giovani” (ivi, cap. X); “noi ti abbiamo fatto, quello che le drusiane di cinquant’anni fanno da sé medesime: ti abbiamo pitturato di minio, ti abbiamo colorito di fuori, ma tu, benché onesto eri marcio dentro” (ivi, cap. XI).
Rimane da dire qualcosa su accezioni diverse del termine, proprie di altre tradizioni regionali, in particolare quelle segnalate da Angelico Prati relative al dialetto di Chioggia (VE), dove drusiana viene riferito a un “ammasso di nuvole” dall’aspetto di una matassa di lana arruffata e indicanti (se nere) pioggia o (se bianche) vento. Nel Polesine, invece, drosana indica un cielo coperto di nuvole alte. Sottolinea il Prati che il nome “drusiana poté essere affibbiato alle nuvole arruffate in quanto questa voce ha il senso di ‘donna sciatta’, ma anche, più facile, fu ricavata dalla Drusiana dei romanzi, e trasformata facilmente in un essere fantastico. Del resto può parere interessante che nella Val di Chiana con sgualdrègna (sgualdrina) s’indichi una ‘piccola pioggia con sole’, perché traditrice”; e conclude: “è destino delle donne belle […] di diventare per il popolo donne brutte, e anche vecchie” (Prati, Bestie e fantasmi in forme di meteore, p. 115).
Nota bibliografica: