DOI 10.35948/2532-9006/2023.29001
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Un lettore ci propone un dubbio (in realtà non suo, ma di un commilitone toscano del padre) sull’espressione “Che ridere!”: non sarebbe meglio “Che risata!”, così come “Che mangiata!”, “Che bevuta!”?
Com’è noto, che può avere in italiano varie funzioni. Tra queste, c’è quella di introduttore (pronome o aggettivo) esclamativo. In questo ruolo, il che introduce un segmento linguistico caratterizzato da una particolare enfasi, resa nell’orale grazie ad aspetti intonativi e segnalata nello scritto dall’interpunzione con l’impiego del punto esclamativo.
Il che in funzione di aggettivo esclamativo (in proposito si veda anche la risposta di Cristiana De Santis) può lavorare su elementi inseriti in contesti formalmente diversi – frasi sintattiche (Che bella giornata è stata! / Che tono antipatico stai assumendo!), segmenti che esauriscono la propria funzione comunicativa senza un predicato verbale (Che sfortuna! / Che persona piacevole!) – operando tipicamente su un elemento nominale.
La domanda del lettore riguarda proprio questa regolarità, in quanto ciò che viene segnalato come anomalia concerne il fatto che nella locuzione Che ridere! il che non lavora su un elemento appartenente alla classe lessicale del nome, come invece negli esempi proposti (Che mangiata! Che bevuta!), ma su una forma verbale.
In realtà, in questo caso l’infinito del verbo ridere viene “nominalizzato”: con un procedimento usuale per la lingua italiana, impiegato anche in altre lingue, l’infinito si comporta cioè per molti aspetti come un sostantivo, potendo essere introdotto da un determinante – il che, appunto – e anche ulteriormente modificato da attributi, come nel caso di Che gran ridere!
Del resto, gli usi di ridere sostantivato in italiano non sono rari, attestati nei maggiori dizionari (Tommaseo-Bellini, Vocabolario della Crusca, Vocabolario Treccani) e presenti fin dalle origini della nostra tradizione letteraria e linguistica:
Il ridere è una corruscazion della dilettazion dell’anima (Dante, Convivio, c. 50);
Forse che tu ti maravigli, antico spirto, del rider ch’io fei (Dante, Purgatorio XXI, 121-122);
Lagrimar sempre è ’l mio sommo diletto, il rider doglia, il cibo assentio et tosco, la notte affanno (Petrarca, Canzoniere, 226, 5-8);
[le donne ascoltanti] l’una l’altra guardando, appena del ridere potendosi astenere, sogghignando ascoltarono (Boccaccio, Decameron, I, 5).
Si può segnalare anche un esempio letterario di che ridere nel corpus PTLLIN:
– Ma diamine, – disse il killer coprendosi la bocca con una mano, torcendosi e pestando il piede in terra, – non gliela dia... ah ah che ridere, soffoco... non gliela dia questa soddisfazione! (Tommaso Landolfi, A caso, Milano, Rizzoli, 1975, p. 73)
In conclusione, ai dubbi sull’accettabilità di Che ridere! possiamo rispondere che è formula abitualmente utilizzata nella nostra lingua e corretta.
Circa l’alternativa con elemento sostantivale proposta dal conoscente del padre del nostro lettore, essa effettivamente esiste: è la formula Che risate!, ben nota e largamente impiegata, in cui il plurale è motivato dal fatto che una manifestazione di ilarità espressa con l’atto di ridere è tipicamente un’attività durativa, dunque più verosimilmente raffigurabile come susseguirsi di più atti (di riso).
Anche in questo caso, possiamo documentare l’uso con un esempio letterario dal PTLLIN:
– Che risate si facevano, tutti e tre insieme. (Francesca Sanvitale, Madre e figlia, Torino, Einaudi, 1980, p. 36)
Lo stesso corpus, comunque, ci fornisce anche un esempio al singolare:
[…] nessuna donna di quel mondo era stata dimenticata: “che risata!” (Aldo Palazzeschi, I fratelli Cuccoli, Firenze, Vallecchi, 1948, p. 220)