DOI 10.35948/2532-9006/2023.30131
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Ci sono pervenuti alcuni quesiti che riguardano gli usi e la sfera semantica del verbo celebrare e del participio sostantivato celebrante, anche in rapporto alle procedure relative ai matrimoni e unioni civili.
Il verbo ha origine dal latino celebrāre, frutto a sua volta di una derivazione dall’aggettivo celĕber/-bris, che in italiano, però, entra, nella forma celebre, successivamente a celebrare (LEI; DELI, s.vv.). Il verbo si legge, infatti, alla fine del XIII secolo, sia negli statuti di alcune confraternite fiorentine, senesi e pratesi, sia nel volgarizzamento in romanesco, Le miracole de Roma, tratto dall’opera latina Mirabilia Romae (TLIO). In tutti questi casi celebrare si lega alle parole messa o officio solenne e assume quindi il significato di ‘eseguire un rito religioso in modo conforme alla liturgia’. Con la stessa accezione, e ancora con la co-occorrenza di messa, ritorna nei versi di Iacopone da Todi: “Quanno la prima messa da te fo celebrata” (Poeti del Duecento vol. II, 22.35, p. 141). Si tratta del componimento O papa Bonifazio, molt’hai iocato al monno, da ricondurre più o meno allo stesso periodo delle prime attestazioni del verbo o comunque agli anni che precedono la morte del poeta nel 1306; nella stessa composizione, tuttavia, pochi versi più avanti, il termine ritorna con una sfumatura di significato lievemente diversa, riferendosi alla cerimonia di incoronazione di papa Bonifacio VIII: “Quanno fo celebrata la coronazione / non fo celato al monno quello che ce scuntròne” (‘non fu nascosto al mondo quello che accadde’; ivi, 22.39-40). L’incoronazione papale consisteva, in realtà, nella posa non di una corona bensì della tiara, simbolo della sovranità papale (non più usata dopo Paolo VI), che, con la sua consegna, dava ufficialmente inizio al ministero del pontefice. La natura dell’evento, peraltro sempre accompagnato da una messa, ci fa capire che “fo celebrata la coronazione” rinviava tanto a un festeggiamento quanto a un rito religioso. Ciò conferma una sostanziale continuità dal latino al volgare: se, infatti, la prima accezione del latino celebrāre era stata ‘frequentare assiduamente / affollare un posto’, l’estensione successiva aveva condotto al significato di ‘festeggiare in modo solenne’ un evento che poteva essere di natura profana o religiosa. La connessione, però, con le ricorrenze religiose aveva trovato, secondo quanto leggiamo nel Thesaurus linguae latinae (TLL), un’ovvia accentuazione nei testi dei primi autori cristiani (s.v.). Se, da un lato, ciò comporta il prevalere, nelle più antiche attestazioni della nostra lingua, del nesso con le cerimonie liturgiche, dall’altro, non annulla il persistere di un legame con le celebrazioni civili, che produrrà nuovi ampliamenti semantici e specializzazioni d’uso.
Va anche ricordato che l’accostamento alle ricorrenze e agli eventi festosi favorisce, sempre a partire dal XIII secolo (LEI; TLIO), l’uso di celebrare nel senso di ‘lodare’, ‘esaltare’, ‘onorare’ qualcuno o le sue azioni (celebrare gli eroi / le imprese dei soldati, ecc.). Fin dal Trecento, tuttavia, ma ancor più nel secolo successivo, è sempre il nesso con la solennità di eventi rilevanti per la comunità che facilita l’accostamento del verbo a termini come concilio o consiglio, per indicare il compimento di un atto pubblico non necessariamente inserito in contesti religiosi. Una conferma ci viene contemporaneamente dalla Nuova cronica di Giovanni Villani (1348) e da uno Statuto del comune di Perugia (1342); la prima informa che i pontefici celebrano i concili, mentre la seconda stabilisce che, dopo le elezioni di alcune autorità, si devono celebrare i consigli:
Nel detto anno MCCCXI, per calen di novembre, il detto papa Chimento celebrò concilio a Vienna in Borgogna per la promessa fatta al re di Francia.
secondo la forma de lo statuto del popolo de Peroscia [...] statuimo e ordenamo che la electone dei signore podestade, capetanio e giudece [...] fare e celebrare se degga êllo modo e ordene de socta scripto; cioè che coloro ei quagle seronno priore de l’arte dei mese de novembre e de decembre [...] tracteno e tractare possano e debbano de la electione del capetanio [...] e siano tenute po’ la celebratione dei conselgle, ei quagle se rechiedono a quiste cose (entrambi i testi in Corpus OVI, cercando celebrare).
Quest’ultima accezione consente un lento ma costante stabilizzarsi del termine anche nella lingua giuridica e amministrativa, come testimonia, molti secoli dopo, il Dizionario del linguaggio italiano storico ed amministrativo (1881) di Giulio Rezasco che, attingendo a fonti molteplici, registra per la prima volta il lessico italiano del diritto pubblico e delle antiche istituzioni statali (Fusco 2023). Qui, alla voce celebrare, dove si indicano i diversi contesti in cui il verbo ricorre nei testi e nei repertori lessicografici consultati dall’autore, si segnalano, tra gli altri, “celebrare il consiglio”, “il parlamento”, “lo squittino” (‘lo scrutinio’) e “celebrare un contratto”, assegnando rispettivamente le definizioni di “Fare colle debite solennità il Consiglio, il Parlamento, lo Squittino” e ‘stipulare un contratto’ (Rezasco 1881, s.v., p. 187). Nel repertorio di Rezasco, il riferimento alle “debite solennità” non deve far pensare a particolari fasti con cui tenere consigli o scrutini, ma, come leggiamo alla voce solennità dello stesso Dizionario, a “formalità stabilite dalla legge, pe’ giudizj, pe’ contratti e simili atti” (ivi, p. 1089). La solennità, dunque, delle cerimonie religiose e liturgiche, compiute secondo riti prescritti dalla Chiesa, si era trasferita alla formalità degli atti giuridici. Ancor prima del lavoro di Rezasco, del resto, ci sono di aiuto le indicazioni del Dizionario della lingua italiana di Niccolò Tommaseo e Bernardo Bellini (1861-1879), che nell’elenco di ciò che oggi definiamo polirematiche o sintagmi fissi, inseriva, accanto a celebrare il battesimo, celebrare le nozze, celebrare un concilio, celebrar messa anche celebrare un contratto, un istrumento, nel senso di ‘rogarlo con le formalità prescritte dalla legge’ (Tommaseo-Bellini). È evidente, dunque, che nel corso del tempo il verbo celebrare ha affiancato ai significati di ‘festeggiare ricorrenze’, ‘lodare’, ‘onorare’ e ‘officiare un rito religioso secondo forme prescritte dalla Chiesa’ anche quello di ‘compiere un atto secondo regole formali fissate dalla legge’, divenendo un termine di uso stabile nella lingua giuridica e amministrativa, come conferma, tra gli altri, il sintagma celebrare un processo, ormai frequente anche nel linguaggio comune. Non possiamo includerlo nel novero dei tecnicismi specifici, ma possiamo accostarlo ai cosiddetti tecnicismi collaterali, perché la sua appartenenza a un ambito settoriale è giustificata dalla continuità della tradizione o dalla volontà di caratterizzare un registro più che dalla necessità effettiva di restringere il significato (Serianni 2003, pp. 81-83).
Alla domanda, quindi, che chiede se sia corretto adoperare il verbo celebrare anche per il matrimonio con rito civile o per le unioni civili, la risposta non può che essere affermativa, perché il termine è stato stabilmente utilizzato per indicare sia la celebrazione formale di un rito religioso sia il compimento di un atto giuridico. Lo stesso può dirsi ovviamente per il derivato celebrazione, ma non per la parola celebrante, che ha avuto una storia diversa: ha subito, infatti, una cosiddetta conversione, ovvero il passaggio dalla categoria grammaticale di participio a quella di sostantivo, assumendo il significato più circoscritto di ‘sacerdote che celebra la messa’. La prima attestazione di questo nuovo uso si ha solo nel XV secolo e la sua formazione non dipende dalla lingua latina, che per indicare ‘colui che celebra’ ricorreva, invece, a celebrātor. Il significato ben delimitato di celebrante, legato al rito liturgico, è ancora il solo riportato nel Settecento dalla quarta impressione del Vocabolario della Crusca (s.v.), che per la forma sostantivata specifica che “Preso assolutamente, vale Sacerdote, che attualmente celebra”. In realtà, già nel XVII secolo il termine era stato adoperato anche per indicare ‘colui che esalta con lodi’, ricollegandosi in tal modo ai significati di ‘lodare’, ‘onorare’, ecc. attribuiti al verbo celebrare. Non ci sono, però, estensioni di celebrante all’ambito giuridico o amministrativo e dunque non dovrebbe essere usato per il matrimonio civile. Una storia analoga, sulla quale però non possiamo soffermarci, ha anche officiante, che si attesta in italiano solo nell’Ottocento, sempre con il significato di ‘chi celebra una cerimonia religiosa’ (DELI, s.v. officiare). Nel corso del tempo, però, a differenza di quanto accaduto con celebrante, officiante ha subito un’estensione e, come testimonia di recente il più noto dizionario italiano dell’uso, rinvia a ‘colui che presiede cerimonie religiose o civili’ (Zingarelli 2024). Per indicare, dunque, la persona che celebra il matrimonio con rito civile sarebbe preferibile ricorrere a officiante. Non è scorretto neppure servirsi di cerimoniere, che è stato ugualmente associato ad atti pubblici e civili, ma si tratta di una parola desueta e dal carattere altisonante.
Quanto alla domanda se sia più corretto dire ricordare o celebrare il 4 novembre, rispondiamo, anche in base alla storia che abbiamo ricostruito, che si tratta di due concetti diversi: celebrare il 4 novembre vuol dire festeggiare e anche onorare questa ricorrenza, magari organizzando cerimonie ufficiali, all’interno delle quali, o grazie alle quali, gli avvenimenti del 1918 saranno ricordati.
Nota bibliografica: