Consulenze linguistiche

Arbitrario

  • Edoardo Lombardi Vallauri
SOTTOPOSTO A PEER REVIEW

DOI 10.35948/2532-9006/2022.25864

Licenza CC BY-NC-ND

Copyright: © 2022 Accademia della Crusca


Quesito:

Alcuni lettori ci chiedono che differenze di significato ci siano fra l’aggettivo arbitrario e termini come abusivo e indebito; vorrebbero anche sapere se arbitrario sia sempre connotato negativamente. Più in particolare, una domanda riguarda il senso di arbitrario in linguistica, e come si spieghi la sua sinonimia con convenzionale in questa disciplina.

Arbitrario

L’aggettivo arbitrario, come il sostantivo arbitrio, è derivato di arbitro (già negli equivalenti latini arbitrarius e arbitrium, da arbiter). A sua volta conosce come derivato l’avverbio arbitrariamente, sul quale pure vertono i quesiti dei lettori, e per cui varranno, anche senza ripeterlo nel seguito, le stesse considerazioni che faremo sull’aggettivo. Arbiter era chi sopraggiungendo (questo probabilmente il senso della preposizione latina ad ‘a, verso’ da cui potrebbe essere formato), oppure essendone incaricato, giudicava su una controversia.

Il tipo di giudizio rappresentato dal parere di un singolo individuo implica maggiore autonomia rispetto a quello di un consesso plurale, in cui ciascuno debba confrontarsi con l’opinione degli altri e tenerne conto. Questo è l’aspetto che viene sottolineato dall’aggettivo arbitrario  e dal sostantivo arbitrio (non però da arbitrato, termine tecnico che designa semplicemente il tipo di incarico e di procedimento). Infatti arbitrario non significa semplicemente (come pure avrebbe potuto) ‘inerente al giudizio di un arbitro’, significato per cui si usa l’altro derivato arbitrale. Invece, partendo dal senso più specifico di ‘avente la tipica caratteristica di un giudizio arbitrale, cioè quella di riflettere il parere di una sola persona’, ha finito per significare ‘non necessariamente ben motivato, discrezionale’. Insomma, può anche significare, e spesso significa, ‘poco giustificato’. Si tratta di uno slittamento di senso prima dal fattuale generale (l’essere opera di un arbitro) al fattuale specifico (essere pertanto poco soggetto a vincoli di realtà o di confronto), e infine al valutativo (mancare di giustificazione e quindi di validità).

Per questo motivo, arbitrario nel linguaggio comune può considerarsi sinonimo di indebito o di abusivo, nell’indicare che un giudizio o una condotta emanano da posizioni individuali non riconosciute collettivamente come giuste: ha agito di testa sua, arbitrariamente, abusivamente, indebitamente, ingiustificatamente ecc. Nel linguaggio giuridico, questi termini (come spesso accade ai sinonimi) vengono adoperati in sensi più precisi, anche se non esenti da sovrapposizioni. In ordinamenti ormai superati, una decisione o una pena arbitraria era quella rimessa alla mera discrezionalità del giudice. Oggi si dice arbitrario ciò che è fatto ad arbitrio di uno o più individui e senza autorizzazione; mentre è indebito ciò che in base alla legge non è dovuto, oppure è proibito; ed è abusivo ciò che si compie − tipicamente − usando una risorsa o un potere senza averne titolo o diritto.

Tornando al linguaggio comune, la connotazione negativa è pressoché costante per l’aggettivo arbitrario, per l’avverbio arbitrariamente e per arbitrio (a meno che non si parli di libero arbitrio, cioè della facoltà attribuita all’essere umano di decidere liberamente di fare o non fare una cosa), mentre non tocca arbitro e arbitrale. Quindi, per rispondere alla precisa domanda di un lettore, quando il nostro comportamento viene definito arbitrario, non si sta solo dicendo che abbiamo agito in autonomia, ma anche che abbiamo fatto male ad agire così.

Se però ci spostiamo nei lessici settoriali di alcune scienze, le cose cambiano. Ad esempio in fisica o in matematica si può chiamare arbitrario ciò che per determinati scopi viene scelto a caso, senza che questo comporti alcuna valutazione negativa, perché il successo dell’operazione non dipende dall’oggetto o dal valore che viene scelto: testare uno strumento su valori arbitrari, disegnare un diagramma collocando l’origine in un punto arbitrario, applicare l’operazione a un insieme arbitrario.

La scienza dove probabilmente il termine ha conosciuto la sua applicazione più originale e feconda è però la linguistica, come ha constatato uno dei nostri lettori. Il fondatore della linguistica generale, Ferdinand de Saussure, rifletté a fondo sull’arbitrarietà del rapporto fra la forma delle parole e la realtà che designano (più tecnicamente, tra significante e significato), cioè sul fatto che la maggior parte delle parole non deve la propria forma alla natura di ciò che significa. Infatti lo stesso concetto può essere espresso mediante segni linguistici completamente diversi nelle diverse lingue. Se l’italiano cane, il francese chien, lo spagnolo perro, il tedesco Hund e il giapponese inu stessero in un rapporto non arbitrario con la cosa che designano, si dovrebbero somigliare almeno un po’. E invece queste parole non rispecchiano in alcun modo le caratteristiche dell’oggetto che denotano. Tale somiglianza è invece presente nelle onomatopee (infatti i verbi che significano ‘abbaiare’ nelle varie lingue si somigliano assai più dei nomi del cane). Le onomatopee si dicono segni motivati, e se adottiamo la classificazione di Charles Sanders Peirce le possiamo far rientrare tra le icone, cioè fra i segni che assomigliano alla cosa per cui stanno.

Per intendersi, tecnicamente sono icone anche i cartelli stradali di Caduta Massi e di Attraversamento Animali, o l’omino e la donnina stilizzati sulle porte dei bagni. Invece la maggior parte delle parole delle lingue non sono icone bensì simboli, cioè segni detti appunto arbitrari, la cui associazione con la cosa per cui stanno non è motivata dalla natura della cosa stessa, ma da una convenzione stabilita all’interno di una cultura. Chiamiamo cane il cane perché ci siamo messi d’accordo per fare così, per una convenzione e per nessun motivo più di sostanza. I simboli linguistici, insomma, sono arbitrari nel senso di convenzionali, posti per convenzione.

In linea di principio la convenzione che dà luogo a un simbolo può anche essere dovuta a circostanze culturali, per cui in una determinata civiltà il dono di una sciarpa bianca è segno di rispetto e deferenza, o gli anni del festeggiato sono simboleggiati sulla torta mediante delle candeline. Ma può anche non essere motivata per niente, cioè essere del tutto arbitraria. Di questo tipo è appunto la mancanza di motivazione alla base della maggior parte dei segni linguistici: non c’è una ragione per cui il concetto di ‘amore’ debba essere rappresentato in una lingua dal segno love, in un’altra dal segno любовь (ljubov’), in un’altra da (ai).

Questa arbitrarietà è però la chiave per la possibilità che ha il linguaggio umano di riferirsi a qualsiasi tipo di entità reale o immaginaria, concreta o astratta, senza doversi preoccupare di mantenere somiglianze o rapporti di motivazione di alcun tipo fra i segni e le cose significate. Se le parole dovessero, pur sempre servendosi dei suoni che siamo capaci di pronunciare e distinguere, assomigliare alle cose che designano, potremmo avere molte meno parole di quelle che abbiamo, e potremmo parlare di molte meno cose.

Come si sarà capito, anche la linguistica non assegna ad arbitrario alcuna connotazione negativa. E del resto il fatto di assumere un atteggiamento descrittivo, ma non prescrittivo né valutativo, è uno dei tratti caratterizzanti di questa come di ogni scienza moderna.

Parole chiave