DOI 10.35948/2532-9006/2023.27923
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Alcune domande giunte in redazione riguardano l’alternativa tra è duro / è dura… quando il soggetto è una frase all’infinito.
Per rispondere subito al quesito, diciamo che in questa costruzione è possibile usare l’aggettivo duro (con significato di ‘difficile da sopportare’) sia al maschile generico sia al femminile con lo stesso valore: è duro partire/ritornare oppure è dura partire/ritornare ecc. (è il dubbio posto da D.N.), “è davvero dura star fermi con questo freddo” o anche “è davvero duro star fermi con questo freddo” (dubbio posto da D.C.).
Se interroghiamo un corpus di italiano contemporaneo come il CORIS/CODIS notiamo che l’espressione è dura con soggetto frastico (infinito o frase infinitiva) è più frequente dell’equivalente maschile è duro. In entrambi i casi il soggetto (un infinito o una frase infinitiva) appare di regola posposto, ma troviamo anche alcuni casi di infinito anteposto: rilanciarsi è dura, digiunare è duro. Interessante anche la presenza di incisi in cui l’infinitiva (preceduta dalla preposizione da) acquista valore limitativo (anche se è duro da ammettere, ma è dura da accettare). Risulta attestata solo al femminile la costruzione ellittica È dura, priva di soggetto, usata in riferimento a una situazione precedentemente descritta o allusa.
Il femminile può trovarsi anche quando, al posto dell’infinito, c’è una frase esplicita introdotta da una congiunzione, che può anche precedere (“Quando ci si ritrova faccia a faccia con gli altri è dura”; Sandro Veronesi, Caos calmo, 2005; unico esempio presente nel corpus PTLLIN, Primo tesoro della lingua letteraria italiana del Novecento).
Questa intercambiabilità tra femminile e maschile non si ritrova con altri aggettivi in posizione di nome del predicato: diciamo è duro/a svegliarsi presto ma è complicato svegliarsi presto (come nota M.G.). Tale asimmetria è giustificata dal fatto che il femminile è sentito come naturale in locuzioni correnti e cristallizzate in cui sia presente o inferibile il riferimento al nome generico cosa, a partire dal celebre verso dantesco: “Ahi quanto a dir qual era è cosa dura” (Inf., I, 4). Già in Dante troviamo attestato il maschile “loco onde parlare è duro” (Inf., XXXII, 15).
Interessante l’uso manzoniano: “L’è dura, rispose il Griso, […] l’è dura di ricever de’ rimproveri, dopo aver lavorato fedelmente” (Promessi Sposi, X). In questo esempio notiamo anche la presenza della forma elisa del pronome femminile la (in funzione di soggetto), con valore di “la cosa”, che si ritrova in altre espressioni dell’uso toscano accolte in testi letterari: “la mi riesce nova!”, “così la va benissimo” nonché in locuzioni cristallizzate ancora vive nell’uso contemporaneo: se la va la va, o la va o la spacca ecc. (le uniche che ammettono un pronome atono in funzione di soggetto).
Questo uso “neutro” del pronome femminile si rileva anche in molte locuzioni in cui la si è cristallizzato con funzione di oggetto diretto: la vedo dura, la sai lunga, me la pagherai ecc.
La declinazione al femminile si ritrova anche in espressioni verbali con soggetto ellittico in cui sia presente un participio passato: è andata, è finita, è fatta. Anche in questo caso, all’origine dell’espressione proverbiale è possibile rintracciare esempi in cui si trova espresso il nome femminile cosa, come nel passo dantesco capo ha cosa fatta (Inf., XXVIII, 107), oggi corrente nella forma cosa fatta capo ha.
Per quanto riguarda l’uso avverbiale dell’aggettivo duro, anche in questo caso notiamo la presenza di alcune espressioni in cui si è cristallizzata la forma femminile, come alla men dura (sinonimo di alla meno peggio), insieme ad altre il cui compare il maschile: tenere duro, lavorare duro.
Il dubbio di chi ha scritto, dunque, è legittimo. Ringraziamo anzi per averci dato l’occasione di osservare come, interrogando la fraseologia della nostra lingua, si scopra la possibilità – più sfruttata in passato che oggi – di usare la forma del femminile oltre che quella maschile per costruire espressioni con valore generico.