DOI 10.35948/2532-9006/2024.34279
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La Consulenza linguistica della Crusca ha ricevuto alcune richieste di chiarimento riguardanti la forma neancora e l’uso di ancora con il valore di già. Siccome entrambe le richieste ruotano attorno ad ancora le trattiamo congiuntamente qui di seguito, iniziando dal primo caso, quello di neancora.
Neancora
Gli usi a cui si fa qui riferimento sono del tipo seguente: “Non ha neancora mangiato”, che si ritrova in luogo dell’italiano standard “Non ha ancora mangiato”. Si tratta quindi di una forma negativa di ancora che viene utilizzata per rinforzare il valore di negazione già espressa nella frase da non preverbale (come ben si vede nell’esempio appena citato, dove abbiamo evidenziato in corsivo le due forme negative). Tangenzialmente possiamo ricordare che il latino disponeva di una forma specifica, nondum, proprio per esprimere il senso di non ancora.
Alcune delle persone che hanno scritto chiedono se questa forma faccia effettivamente parte della lingua italiana (“Sul dizionario non risulta”, scrive giustamente la signora C. S.), altre invece non hanno dubbi in merito e chiedono solo se la si debba scrivere in una o due parole (e se nel secondo caso ne vada accentato). Altri ancora dicono di sentirla usare soprattutto dai giovani o chiedono se si tratti di un neologismo. Infine, alcuni riportano il parere che la si userebbe “solo in contesti locali”.
Diciamo subito che quest’ultima osservazione è corretta, dato che la forma in questione si ritrova principalmente nel Nord-Est d’Italia e non è un caso che quasi tutti coloro che hanno chiesto informazioni in merito abitino in questa regione.
Come è frequente per molti usi regionali, anche in questo caso viene spontaneo ricercarne la matrice in fenomeni dialettali che hanno esercitato un influsso sull’italiano delle zone in questione. In effetti, secondo l’Atlante linguistico ed etnografico dell’Italia e della Svizzera meridionale (AIS), in vari dialetti locali del Veneto e del Trentino, ritroviamo gnancora (con una pronuncia palatale della n e la scomparsa della e, probabilmente attraverso il suo passaggio intermedio alla semiconsonante [j]). In altre varietà dialettali (vicine geograficamente a quelle in cui si riscontra gnancora), incontriamo soluzioni con una struttura simile, in quanto anch’esse presentano la negazione agglutinata. Si tratta di forme come per esempio gnamò o gnancamò, molto diffuse anche in Lombardia, che costituiscono le varianti negative dei corrispondenti positivi dialettali di ancora, ovvero, per gli esempi appena presentati, amò e ancamò (‘ancora’). Queste forme si basano sulla continuazione del latino modo invece del corrispondente hora (con mò che assume, come in varie regioni dell’Italia centromeridionale, il valore di ‘ora, adesso’; si veda in proposito la scheda di Paolo D’Achille). Dato che la forma dell’italiano regionale neancora si ritrova anche in quest’ultime zone (e non solo in quelle i cui dialetti locali presentano gnancora), possiamo ipotizzare che queste varianti dialettali abbiano fatto anch’esse da stimolo alla forma regionale italiana negativa, con un conseguente riportare il dialettale amò o ancamò all’italiano ancora e traducendo così, con un fenomeno di ‘calco’, gnamò o gnancamò con neancora.
Sempre riguardo alla diffusione regionale di neancora, una veloce indagine su Internet permette di ritrovarne usi anche nella Toscana settentrionale, in zone in cui l’AIS non aveva registrato nulla di corrispondente. Sarebbe presente, per esempio, nel dialetto di Campi Bisenzio (FI), tant’è che nella pagina Facebook denominata “Dialetto campigiano” compare il seguente enunciato: “Ummè neancora venuto i perito” (manteniamo qui la grafia originale dell’esempio). All’interno di un gruppo di discussione, un’altra persona dice di sentirlo come tipico di Empoli. Perciò, per avere informazioni più sicure in merito, mi sono rivolto al collega Neri Binazzi, dell’Università degli Studi di Firenze, che ha confermato di non aver mai incontrato l’uso di neancora a Firenze, ma, grazie a un breve sondaggio effettuato tra suoi conoscenti di varie zone della Toscana, ha pure potuto confermare la diffusione del fenomeno nell’empolese e a Luco di Mugello. Secondo i suoi informatori, l’uso di neancora sarebbe tipico in contesti con modalità negative plurime, come i seguenti: “Unn’è neancora arrivato nessuno”, “Unn’ho mica neancora ricominciato a fà nulla!”. Dato che, come abbiamo già detto, strutture simili non erano state rilevate nella Toscana settentrionale al momento della raccolta dei materiali dell’AIS è molto difficile dire se si tratti di sviluppi recenti o se semplicemente gli informatori non li abbiano allora forniti al raccoglitore.
Casi simili di creazione di forme negative di avverbi non sono d’altronde estranei all’italiano, come confermano esempi ben noti come neppure (derivato da pure con l’aggiunta della negazione né), neanche (derivato allo stesso modo da anche), o nemmanco (d’uso però molto meno frequente, per lo più letterario o regionale). In alcuni casi la forma negativa complessa ha acquisito maggiore autonomia rispetto a quella positiva su cui si basa, come nel caso di nemmeno (dove il collegamento tra meno e nemmeno non è altrettanto chiaro quanto quello tra pure e neppure), e a volte il costrutto negativo ha perso in gran parte la sua trasparenza formativa, come nel caso del pronome nessuno (dal latino ne ipse unus, ‘neppure uno’, mentre nella forma moderna non è più individuabile una parte della parola che marchi il valore di ‘almeno [uno]’). Queste forme però si sono pienamente assestate nella norma pan-italiana della nostra lingua, a differenza di neancora, che non viene registrato dai vocabolari ed è usato, come abbiamo visto, solo in alcune regioni.
È interessante notare che neppure o neanche sono anch’essi, come neancora, di solito accompagnati dalla negazione non, che però perdono quando si ritrovano in posizione preverbale (“Neppure Gianni ha mangiato”). Dai pochi dati a disposizione (e basandomi anche su un’indagine sperimentale sul dialetto di Pellestrina presentata nella tesi magistrale di Sofia Pedrocco presso l’Università di Padova nell’anno accademico 2017-2018) mi sembra invece, con le riserve necessarie per la scarsa base empirica, di poter dire che neancora tenda a comparire in tutti i contesti assieme alla negazione. Ancora più importante, all’interno di questo confronto, è però la possibilità che neppure e neanche hanno di spostarsi in diverse posizioni e focalizzare così il loro valore su componenti differenti della frase. Ciò può aver giocato un ruolo fondamentale nel rafforzarne la diffusione e la conseguente accettazione nella lingua. Pensiamo a frasi come “Neppure Gianni ha mangiato” vs. “Gianni non ha neppure mangiato”, dove la posizione di neppure fa sì che le due frasi abbiano valori differenti. Nel caso di neancora, differenze di questo tipo non sono invece possibili e quindi questa forma ha unicamente il valore di rinforzo della negazione e non di spostamento della focalizzazione in base alla posizione.
Data la scarsità di studi su neancora dobbiamo per ora considerare molte domande come aperte, in attesa che la ricerca si soffermi maggiormente sul suo uso e chiarisca questi interrogativi. Tra le domande ancora aperte vi è in primo luogo quella relativa all’effettiva distribuzione geografica e sociale del tratto e, di conseguenza, la domanda relativa alle tendenze in atto: si tratta, per così dire, di un resto di competenze dialettali (ciò che farebbe pensare a utenti primariamente di età avanzata) oppure, come sostengono alcuni, l’uso di neancora si riscontra soprattutto tra i giovani?
Ritroviamo occorrenze di neancora in lettere dal fronte di soldati durante la Prima guerra mondiale, ciò che testimonia la sua diffusione in una situazione di forte dialettofonia. Se avessimo di conseguenza a che fare con un fenomeno primariamente di persone di età avanzata, allora si dovrebbe prevedere una sua tendenza al calo. Se invece oggi si dovesse trattare di un fenomeno (oramai) indipendente dal sostrato dialettale, con una sua vitalità legata alle giovani generazioni, allora si potrebbe ipotizzare una tendenza alla diffusione. A titolo di curiosità si può riportare il fatto che una veloce ricerca fatta usando Google Scholar ha riportato usi di neancora in alcune tesi di laurea di materie non umanistiche accessibili in rete e relativamente recenti. I casi sono pochissimi, ma il fatto che laureandi abbiano usato questa forma in testi del genere conferma che da essi è percepita come perfettamente normale e addirittura facente parte di stili controllati dell’italiano.
In conclusione, gli elementi che abbiamo potuto raccogliere ci fanno dire che neancora è senz’altro presente nell’italiano regionale di alcuni (ma non di tutti i) parlanti veneti, trentini e toscani (esempi lombardi non ne ho riscontrati), ma non è entrato a far parte della norma dell’italiano, come dimostra il fatto che nessun vocabolario della lingua nazionale lo registra e che esso risulta molto strano a persone di altre regioni. La considerazione che pure parlanti veneti dicano di non conoscerlo e che sia sentito anche da almeno una parte di chi lo usa come un fenomeno non standard (ma vedi d’altro canto l’esempio delle tesi di laurea appena menzionate) rende poco probabile l’ipotesi che esso si diffonda a scapito dell’alternativa data dalla combinazione da non + ancora. Quest’ultima continua ad essere per la maggior parte dei parlanti italiani l’unica possibilità di negazione di ancora, a differenza di quanto è successo con esempi come neppure o neanche, che permettono effetti di senso particolari creati tramite la mobilità sintattica e aumentano così le possibilità comunicative della lingua. Neancora invece ha solo un effetto di rinforzo della negazione e, almeno per ora, ciò non è bastato per garantire a questa forma una sua diffusione nazionale. Siccome le norme delle lingue funzionano con una propria logica creata dagli usi e dagli utenti, non possiamo escludere a priori che magari un giorno neancora si diffonda al di fuori delle sue regioni tradizionali ed entri nell’uso generalizzato dei parlanti. Se ciò avvenisse, allora anche i vocabolari e le grammatiche inizierebbero a registrarlo ed esso verrebbe così riconosciuto dagli strumenti normativi espliciti. Ma che ciò possa avvenire, mi sembra altamente improbabile per le ragioni appena discusse.
L’uso di ancora con il valore di ‘già’
L’altra domanda rivolta alla Crusca riguarda, come abbiamo anticipato in apertura di questa consulenza, l’uso di ancora al posto di già. Una delle persone che hanno richiesto chiarimenti dice di sentirlo come un fenomeno tipico della zona bergamasca e riporta l’esempio seguente: “L’hai ancora ascoltata quella canzone?” con il valore di “l’hai già ascoltata quella canzone?”.
In effetti, questo comportamento è segnalato da Gaetano Berruto nel suo elenco di tratti tipici dell’italiano regionale bergamasco, pubblicato in un importante studio su questa varietà nel 1987 (L'italiano regionale bergamasco, in Lingua e dialetti di Bergamo e delle valli, a cura di Glauco Sanga, Bergamo, Lubrina, vol. III, p. 536). L’autore, passando in rassegna vari “(presunti) bergamaschismi sia lessicali che semantici”, si sofferma su “ancora, nei due sensi di ‘già’ e ‘di nuovo’” citando vari esempi, come “hai fatto dei viaggi ancora?” per “hai già fatto dei viaggi?”.
Al di là del raggio regionale limitato in cui si conosce oggi questo comportamento, si può però citare un passaggio dalla Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti di Gerhard Rohlfs, dove, all’interno della discussione dell’avverbio ancora, l’autore afferma: “La lingua antica conosceva ancora anche nel senso di ‘già’, cfr. or se’ tu ancor morto? (Inferno 33, 121), egli è ancora dì, che tu mi chiami? ‘è già giorno?’ (Decameron 9, 6), uso esattamente corrispondente a quello dell’antico provenzale e dell’antico francese, per esempio est vostre sire ancor levez? (Chrétien, Perceval 82762)” (Rohlfs 1969 § 931). E pure alcuni dizionari italiani riportano questo uso segnalandolo come “antico”. Basti qui citare il Dizionario Garzanti: “… 6. (ant.) già, ormai: domandò... se egli ancora maritata l’avesse (Boccaccio Dec. X, 7)”. Discutendo poi già nella sua Grammatica storica, Rohlfs scrive: “Nel lombardo alpino (per esempio a Poschiavo) la funzione di ‘già’ viene in parte svolta da amò” (Rohlfs 1969, ibid.). Dato che amò, come abbiamo appena visto sopra, è il corrispondente dialettale di ancora, dobbiamo dire di aver a che fare con un fenomeno che, almeno in passato, ha goduto di una diffusione ben più ampia di quella della sola zona bergamasca.
La spiegazione di questo scambio tra ancora e già fornita da Berruto è la seguente: “Il primo dei due sensi [quello equivalente a già; ndr], che sembra esteso almeno fino al bresciano, sarà collegato col secondo attraverso una comune derivazione da ancora ‘un’altra volta’”.
Al di là di questa spiegazione, senz’altro valida, c’è un ulteriore aspetto che può aver ricoperto un certo ruolo in questo ‘gioco di transizioni’ di significato tra ancora e già. Si tratta del fatto che in molti contesti già è in effetti la negazione di non ancora: “Mario ha già mangiato” vs. “Mario non ha ancora mangiato”. In questo esempio ancora ha il valore di ‘fino ad ora’, se togliessimo la negazione (“Mario ha ancora mangiato”), assumerebbe invece il valore di ‘di nuovo’ e la sua negazione verrebbe data da non … più (“Mario non ha più mangiato”). Lasciando da parte la seconda coppia di frasi (quella che coinvolge il senso di ‘di nuovo’, che in altre lingue sarebbe interessantemente espresso da un avverbio differente, come l’inglese again o il tedesco wieder), e concentrandoci unicamente sulla prima coppia si può pensare che l’eliminazione della negazione non nella frase negativa possa rimandare a un’equivalenza di “Mario ha già mangiato” e “Mario ha ancora mangiato”, dato che già e non ancora si configurano come contrari, con l’effetto particolare che già, in contesti di questo tipo, viene sentito come equivalente ad ancora. Inoltre, in contesti negativi in cui ancora ha il valore di ‘fino a questo momento’ possiamo avere l’uso sia di ancora sia di già per esplicitare il senso di confine temporale: “Mario non è ancora arrivato” e “Mario non è già arrivato” (quest’ultima frase pensata piuttosto come reazione alla domanda “Mario è già arrivato?”, con un effetto di negazione metalinguistica incentrata sul già della domanda).
Che ci sia d’altronde una certa ‘fluidità’ tra già e ancora è ben mostrato anche da altre lingue, dove la forma che veicola il valore di già si ritrova, in alcuni contesti (come tipicamente in frasi negative o interrogative), come equivalente di ancora. È il caso per esempio dell’inglese yet, che abbiamo sia in frasi come Is your daughter at university yet? (che tradurremmo come “Tua figlia è/studia già all’università?”), ma anche in frasi come I have not eaten it yet (che tradurremmo con “Non l’ho ancora mangiato”). Un comportamento simile si ritrova anche in spagnolo, con ya che può assumere, a seconda della frase, i valori di già (accanto ad aún e todavía) o ancora. Questi esempi ci mostrano bene il collegamento tra i due sensi: se non ho ancora fatto qualcosa, allora non l’ho già fatto ed è questa fluidità di senso che molto probabilmente motiva gli usi da cui siamo partiti.
Per illustrare ulteriormente quanto la zona della lingua “attorno ad ancora” possa essere affascinante, non possiamo trattenerci dal rimandare alla bella risposta di Matilde Paoli pubblicata nella Consulenza della Crusca il 14 novembre 2017. Discutendo l’uso (tipico dell’area di Chieti e Pescara) di non ancora preverbale (per es. in non ancora ho mangiato), l’autrice ricorda tra l’altro come in alcuni dialetti abruzzesi “l’uso di ancora con il presente o imperfetto indicativo indica un’azione che non si è compiuta del tutto”. Perciò la forma dialettale ngóra può avere, a seconda dei contesti, sia il valore di ancora che di non ancora, così che, nell’area di Chieti, una frase come ngòrә mmagnèvә da na sittәmanә, dove la negazione non è espressa esplicitamente, corrisponde all’italiano non aveva (ancora) mangiato da una settimana.