Consulenze linguistiche

Se avete avuto (o portato) pazienza, vi diamo la risposta

  • Paolo D'Achille
SOTTOPOSTO A PEER REVIEW

DOI 10.35948/2532-9006/2022.23814

Licenza CC BY-NC-ND

Copyright: © 2021 Accademia della Crusca


Quesito:

Sono arrivati alcuni quesiti sull’alternativa tra avere pazienza e portare pazienza. Quale espressione è più corretta?

Se avete avuto (o portato) pazienza, vi diamo la risposta

Entrambe le espressioni rientrano in quei predicati costituiti da sintagmi verbali in cui il verbo ha una semplice funzione di supporto reggendo il nome che veicola invece il significato. Tradizionalmente, l’italiano tendeva a preferire strutture sintetiche costituite da un verbo semanticamente pieno (nella fattispecie, pazientare), ma nell’italiano di oggi costruzioni analitiche come avere pazienza o portare pazienza sono molto più frequenti e si trovano, con finalità diverse, sia in certi tipi di testi scritti (pensiamo a dare lettura invece di leggere), sia nel parlato spontaneo (pensiamo a farsi la barba per radersi), quando aiutano chi parla a rallentare il cosiddetto “dinamismo comunicativo”, dandogli il tempo di pianificare meglio gli enunciati.

Ciò premesso, possiamo rispondere subito alla domanda dicendo che avere pazienza e portare pazienza sono entrambe espressioni corrette. Se alcuni dizionari (GRADIT, Sabatini-Coletti, Garzanti) s.v. pazienza registrano solo avere pazienza (o danno esempi soltanto con avere), altri (Vocabolario Treccani, Devoto-Oli 2022, Zingarelli 2022) registrano anche portare pazienza (o esempi con portare). Tutte e due le espressioni si usano soprattutto all’imperativo (abbi, abbia, abbiate, abbiano o porta, porti, portate, portino pazienza) e hanno come alternativa o le forme del verbo pazientare (pazienta, pazienti, pazientate, pazientino) o l’espressione volerci pazienza, usata ovviamente all’indicativo (ci vuole pazienza). Chi non riesce ad essere paziente, spesso perde la pazienza (altra espressione frequente, in cui però tra verbo e nome si inserisce l’articolo determinativo).

Non c’è dubbio che la forma standard, usata in italiano da tempo immemorabile sia aver(e) pazienza, che figura all’interno di varie definizioni del Vocabolario della Crusca (per es. “Non potere stare alle mosse, cioè, non potere aver pazienza” s.v. mosse nella I ed.; “convien berla, convenire berla. Cioè aver pazienza”, s.v. bere nella II ed.; la stessa locuzione “Aver pazienza: Sopportare”, s.v. avere nella III ed., ecc.). L’espressione ricorre frequentemente anche nel Tommaseo-Bellini, che però s.v. pazienza registra: “Prendere pazienza. Portare o Avere pazienza” offrendoci così non solo un esempio di portare pazienza, ma anche una terza possibilità, prendere pazienza, espressione da tempo uscita dall’uso e infatti qui documentata con un esempio dell’italiano antico.

Da una ricerca mirata della sequenza “verbo + pazienza” nel corpus MIDIA, che raccoglie testi di vario genere (letterari, scientifici, ecc.) dai primi del Duecento alla metà del Novecento, si ricavano quasi ottanta occorrenze di avere pazienza, dai Fioretti di San Francesco (“E santo Francesco disse: ‘Figliuolo, abbi pazienza [...]’”) a Luigi Pirandello (“Aspetti. [...] Lo faremo subito avvertire. Abbia pazienza un momento”) e invece un solo esempio di portare pazienza, nel romanzo L’illustrissimo (1906) del mantovano Alberto Cantoni (“Si porta pazienza. Il mestiere del contadino è fatto così”).

Anche nel corpus di narrativa contemporanea costituito dal PTLLIN ci sono moltissime attestazioni di avere pazienza (con il verbo in varie forme: avere, aver, ha, abbi, abbia, abbiate), in opere diverse e lungo l’intero arco cronologico (dalla fine degli anni Quaranta ai primi anni Duemila) e invece una sola occorrenza di porta pazienza (in Procedura di Salvatore Mannuzzu, 1989) e una di portare pazienza (in Caos calmo di Sandro Veronesi, 2005, che però ne ha una anche di avere pazienza). Scarse sono pure le occorrenze del verbo pazientare, che ha un unico esempio all’imperativo pazienta (in L’occhio del gatto di Alberto Bevilacqua, 1968).

La prevalenza di avere si può spiegare anzitutto con la sua frequenza d’uso come verbo supporto (pensiamo a esempi come avere fame, avere speranza, ecc.), sconosciuta a portare. I due verbi sembrano peraltro assai diversi sul piano del significato: i pochi casi in cui il senso di portare si avvicina a quello di avere si hanno quando significa ‘avere addosso abitualmente’ (portare gli occhiali) o ‘presentare’ (portare la data). Lo Zingarelli registra portare pazienza s.v. portare accanto a portare odio, amore, rancore, rispetto, casi in cui al verbo è assegnato il significato di ‘provare, nutrire sentimenti nei confronti di qlcu.’. Dunque, rispetto ad avere pazienza, in portare pazienza si potrebbe intravedere una sfumatura semantica diversa, che fa implicitamente riferimento alla persona nei cui confronti si è pazienti. Ma portare ricorda formalmente sopportare e quindi si potrebbe anche, a mio parere, interpretare portare pazienza come una sorta di “incrocio” tra avere pazienza e sopportare con pazienza.

A parte la distanza in termini di frequenza sia in sincronia sia in diacronia (con nettissima prevalenza di avere) e la piccola possibile differenza sul piano del significato, c’è un altro elemento che distingue avere pazienza da portare pazienza, messo in evidenza da uno dei nostri lettori (anche lui, come Alberto Cantoni, mantovano), il quale dichiara di usare la seconda forma, che è invece ritenuta scorretta da sua moglie, romana. In effetti, portare pazienza si usa prevalentemente a nord.

Lo confermano i dati dell’inchiesta LinCi, svolta in varie città italiane, che ha inserito l’alternativa di cui ci occupiamo tra le 200 domande del questionario che è stato sottoposto a 12 intervistati per ogni città. Mentre avere pazienza è usato in tutti i centri indagati (e addirittura esclusivo ad Arezzo, Grosseto, Lecce, Livorno, Nuoro, Oristano, Pisa, Pistoia, Prato, Siena, Viterbo), portare pazienza è documentato, se pure quasi sempre minoritariamente, in città del Nord (Alessandria, Biella, Cuneo, Genova, Milano, Modena, Novara, Torino, Verona), a cui si aggiungono Massa e Latina, fondata da immigrati veneti, e solo isolatamente al Centro Sud (Cagliari, Carrara, Firenze, L’Aquila, Lucca, Rieti, Roma, Sassari).

Segnalo anche, al riguardo, un ricordo personale: la prima volta che io, romano, sentii usare l’espressione porta pazienza, all’imperativo, di cui non colsi subito il significato, fu da bambino (nel 1965 circa) mentre assistevo a un Carosello televisivo. La pubblicità della Fabbri (ditta nata a Portomaggiore, in prov. di Ferrara, che produceva e produce tuttora amarene, sciroppi, ecc.) presentava il personaggio di Salomone pirata pacioccone (cartone animato creato da Guido De Maria), che parlava con accento piemontese. Come ricorda la voce di Wikipedia Salomone alla fine di ogni spot, quando uno dei pirati a lui sottoposti, Mano di fata, gli «chiedeva con forte accento siculo “Capetano, lo possiamo torturare?” riferendosi allo sfortunato nemico di turno che non voleva collaborare, [...] rispondeva sempre benevolmente “Ma cosa vuoi torturare tu? Porta pazienza! So ben io come fargli aprire la bocca. Basta offrirgli...” riferendosi ai prodotti Fabbri».

Non è questo l’unico caso in cui gli italiani regionali si differenziano nella selezione di un verbo: pensiamo alle possibili alternative di avere avuto/fatto una malattia, di avere/essere in/fare/portare ritardo (si vedano ancora, per entrambe, i dati LinCi), di calare/buttare giù la pasta, ecc.

Spero che mi sia consentita, alla fine, una breve osservazione, non di carattere linguistico, a proposito della pazienza, che oggi non è tenuta in grande considerazione, tanto che la si potrebbe definire, per dirla con Natalia Ginzburg, una “piccola virtù” (che per giunta, aggiungo io, è “a esaurimento”). Pretendiamo che gli altri abbiano (o portino) pazienza con noi ma siamo molto meno disposti ad averla (o a portarla) noi stessi di fronte a ritardi o errori degli altri. Men che meno si ha (o si porta) pazienza di fronte a disservizi di carattere pubblico, verso i quali manifestiamo piuttosto indignazione e rabbia. In passato, invece, la pazienza era molto apprezzata (basti ricordare i richiami alla biblica pazienza di Giobbe, divenuta proverbiale, o alla pazienza che richiedono certi lavori certosini), tanto da essere qualificata o invocata addirittura come santa. E Santa pazienza è il titolo di una poesia di Luciano Folgore che imparai quand’ero bambino (più o meno negli stessi anni in cui conobbi Salomone pirata pacioccone) e che potete leggere qui.


Parole chiave