Temi di discussione

Riflessioni su alcune particolarità dell’italiano di oggi: il cambiamento non investe solo la lingua, ma anche la lingua

  • Paolo D'Achille
SOTTOPOSTO A PEER REVIEW

DOI 10.35948/2532-9006/2024.30164

Licenza CC BY-NC-ND

Copyright: © 2024 Accademia della Crusca



L’Accademia della Crusca, da anni, si occupa sia di studiare e promuovere lo studio dei testi antichi – che rappresenta di certo il suo principale compito istituzionale (oggi si dovrebbe dire la sua mission!), ma non l’unico (come invece a volte affermano, più o meno in buona fede, esponenti di altri centri di ricerca che si occupano, tra l’altro, della lingua italiana) – sia anche di osservare e analizzare l’italiano di oggi, per spiegare i cambiamenti in atto, per esprimere opinioni (non sempre e non necessariamente pienamente convergenti tra tutti i membri dell’Accademia) su certe tendenze della lingua, per collaborare, quando le viene richiesto, con istituzioni e organi statali, e, all’occorrenza, per prendere posizione su scelte (anche politiche) che toccano l’uso dell’italiano. Il Servizio di Consulenza linguistica, nella sezione delle risposte ai quesiti e in quella delle parole nuove, affronta continuamente questioni che si legano all’italiano di oggi; le attività della Crusca Scuola vertono su aspetti della didattica che riguardano l’intero percorso di studi primari e secondari, e quindi investono in prima istanza proprio l’insegnamento/apprendimento della lingua contemporanea (e non solo all’interno della materia che viene chiamata genericamente “italiano”).

Non c’è dubbio che l’italiano sia da tempo in movimento (e del resto l’Accademia è stata forse la prima istituzione linguistica che ha usato questa parola quando, sotto la presidenza di Giovanni Nencioni, promosse una serie di conferenze raccolte in un volume del 1982 intitolato appunto La lingua italiana in movimento) e che tale movimento – che si collega direttamente alle trasformazioni sociali, economiche, politiche, culturali, avvenute in epoca più o meno recente nel nostro Paese, come più in generale nel mondo globalizzato – comporti anche la perdita di usi che sembravano consolidati e, viceversa, la diffusione di forme e modalità comunicative inimmaginabili fino a poco tempo fa. È un dato di fatto. La comunicazione mediata dal computer (con le conseguenti trasformazioni che hanno subito le attività di lettura e di scrittura), l’uso generalizzato dello smartphone, la partecipazione sempre più massiccia ai social network, il quotidiano contatto con l’inglese e, al tempo stesso, la riduzione della comunicazione intergenerazionale, soprattutto tra genitori e figli (un po’ meglio sembra procedere quella tra nonni e nipoti), con la conseguente diminuzione di una diretta trasmissione di “saperi” di vario tipo, sono elementi evidenti, che fanno parlare (soprattutto chi non è del mestiere) di un “impoverimento” dell’italiano.

Quando vengo intervistato (e mi capita abbastanza spesso), provo sempre un certo disagio nel momento in cui mi si pongono domande sull’impoverimento dell’italiano, in che cosa consista, come si possa arginarlo. Da un lato, infatti, mi verrebbe spontaneo confermare il dato (non ci sarebbe niente di male: lo fanno molti colleghi, anche tra gli accademici), pensando a certe indubbie carenze nella competenza attiva e passiva del lessico da parte delle ultime generazioni (che ignorano il significato di parole che appartengono, secondo il Grande dizionario italiano dell’uso di Tullio De Mauro, all’uso comune, se non addirittura al vocabolario di base, nella sezione del lessico di alto uso), nonché al venir meno di conoscenze relative alla mitologia, agli episodi biblici ed evangelici (gli uni e gli altri fondamentali non solo per la lingua e la letteratura, ma anche per la storia dell’arte e l’iconografia), al melodramma e al teatro greco-romano, italiano e straniero. D’altra parte, penso anche alle maggiori competenze che hanno i miei figli e i miei allievi non solo nel padroneggiare l’inglese, ma anche nella ricerca di informazioni in rete; o nel trovare, sulla base di testi brevissimi (magari combinati con immagini), soluzioni a problemi di funzionamento del computer, del cellulare, del telecomando, dei dispositivi elettronici delle nuove automobili; oppure nell’indicare nuovi generi musicali, capi di abbigliamento, aspetti dello sport che agli anziani come me sono sostanzialmente ignoti (e non parlo di nozioni relative alla sfera sessuale, in cui, diciamo la verità, tra adulti e giovani il dialogo è sempre stato problematico). Penso che, al di là degli stereotipi dei boomer, dei nativi digitali, dei millenial, ecc., il salto generazionale mai come oggi sia stato così forte e così percepibile e percepito. Si parla da tempo di “lingua dei giovani” o di “linguaggio giovanile” (il cui studio scientifico è iniziato negli anni Ottanta del secolo scorso), ma solo con il cambio di secolo, man mano che siamo entrati nel nuovo millennio, la distanza tra “giovani” e “adulti” è cresciuta, in parallelo con l’allungamento dell’età media (e quindi delle prospettive di vita) delle persone, ma anche con il protrarsi, spesso eccessivo, se non dell’età, almeno della condizione giovanile (quella in cui si vive ancora con i genitori, si è ancora figli e non padri e madri) e anche, aggiungerei, della crescita del tempo da dedicare al lavoro, che ha sottratto inevitabilmente spazio ai rapporti familiari (e, forse, non solo a questi).

Dopo questa lunga premessa, vorrei segnalare alcuni fatti, di diversa importanza sul piano linguistico, che meritano una qualche riflessione, prima ancora di pensare a specifici rimedi, riprendendo alcuni temi che ho affrontato in vari interventi congressuali di cui ancora non sono stati stampati gli atti e facendo implicitamente riferimento alle risposte del servizio di Consulenza linguistica della Crusca e alle schede sulle parole nuove, a cura della stessa Consulenza, pubblicate in questo stesso sito.

Un primo dato, che è già stato oggetto di studio, è la crescente tendenza, negli ultimi anni, a indicare gli anni, per esempio il 2024, non come duemilaventiquattro ma come venti-ventiquattro, sul modello dell’inglese. L’uso, iniziato dai primi anni Duemila, ha avuto un’impennata con il 2020, in cui la ripetizione venti-venti era particolarmente accattivante, si sta estendendo anche al di fuori dell’ambito giovanile e sembra destinato ad aumentare ancora, almeno fino al 2029 (poi, con il cambio di decennio, l’uso tradizionale potrebbe forse riprendere vigore).

Molta minore attenzione, a quanto mi risulta, è stata finora riservata a un altro fatto: l’ordinamento alfabetico degli antroponimi, che spesso inizia dal nome e non dal cognome della persona: me ne sono accorto qualche anno fa, guardando l’elenco dei cantanti in gara al festival di Sanremo; poi ho appurato che la stessa cosa avviene (e avveniva di certo già in precedenza) per i partecipanti agli incontri a distanza in rete sulle varie piattaforme. Ora, se ci si può rallegrare del fatto che sia stato abbandonato l’uso burocratico di anteporre il cognome al nome – che aveva ricadute presso i semicolti, a cui rimandano il titolo della commedia De Pretore Vincenzo di Eduardo De Filippo e La ballata del Cerutti di Giorgio Gaber (“Il suo nome era Cerutti Gino / ma lo chiamavan Drago / gli amici del bar del Cardellino / dicevan ch’era un mago”) –, va detto però che premettere il nome al cognome può essere lecito solo nei casi di transonimizzazione: che il liceo classico Ennio Quirino Visconti preceda il Torquato Tasso in una lista di licei romani non è troppo sorprendente (anche se nell’uso comune si parla semplicemente del Visconti e del Tasso), ma nel caso degli odonimi, per esempio, almeno negli stradari che si consultavano prima dell’avvento di Google Maps, a dettare l'ordinamento è il cognome del personaggio a cui la via è intitolata, in quanto più importante. Ora, nelle prime versioni di certe tesi triennali, capita a volte di trovare ordinate in base al nome (scritto per esteso) e non al cognome anche le bibliografie che sciolgono le citazioni bibliografiche “all’americana” (autore-data) interne al testo.

Due tratti minimi, di carattere puramente grafico, ma che meritano di essere citati, sono l’uso, ormai quasi generale, dovuto ai programmi di scrittura su computer, dell’apostrofo “rivoltato” in caso di forme aferetiche, per cui capita di trovare grafie come ‘l o ‘500. Ammetto di avere una particolare idiosincrasia per quest’uso (come pure per l’apostrofo “dritto”, che è normale nei testi in rete, specie se si alterna, nei testi a quello “all’inglese” a forma di virgola). Deriva probabilmente dall’inglese (ma non è esclusivo degli ultimi anni, anche se appare solo da qualche tempo decisamente in crescita) l’uso della lineetta che non separa un inciso, e che quindi non viene chiuso da un’altra lineetta, ma da un punto, che fa assumere a ciò che segue un significato esplicativo rispetto a ciò che precede. Non si è invece esteso (almeno finora) l’uso inglese di non inserire spaziature prima e dopo le lineette.

Restando nell’ambito della grafia, sopra ho citato dei versi di una canzone di Gaber, rimati AbAb; ma oggi i testi delle canzoni vengono riprodotti con accapo quanto mai improbabili, che non consentono di cogliere la struttura poetica dei testi. A proposito, questi, per un calco dall’inglese che considero assurdo, vengono a volte chiamati liriche: mi è infatti capitato di leggere sulla locandina di un musical “musiche e liriche”, a dispetto del significato che la parola, sia al singolare sia al plurale, ha nella tradizione italiana. D’altra parte, i calchi traduzione dall’inglese che trascurano totalmente i precedenti significati italiani delle parole, ormai, non si contano più: da conferenza per convegno a cortesia per concessione, da crediti per ringraziamenti all’uso assoluto di dedicato nel senso di apposito (esempio, quest’ultimo, che dimostra come gli anglismi determinino anche mutamenti sul piano della sintassi). Cominciano ad apparire in rete anche esempi di operatico, modellato sull’inglese operatic e/o sullo spagnolo operático, invece di operistico: cantante operatico, musica operatica, canto operatico, con buona pace del successo internazionale del melodramma italiano!

Dovuti soprattutto ad approssimazioni, inaccettabili quando imputabili a giornalisti, sono scambi come beni voluttuosi per beni voluttuari, che potrebbero aggiungersi alla lista di “neosemie” come reciproco per rispettivo, di cui posso dare un esempio tratto da un messaggio di posta elettronica che ho ricevuto di recente insieme ad altri destinatari, in cui il mittente scrive che mette a disposizione “i vostri reciproci numeri di cellulare” (dopo aver detto, all’inizio, che "copio in questa email” non i nomi o gli indirizzi dei destinatari, ma i destinatari stessi!).

La velocità della comunicazione, la fretta con cui un po’ tutti siamo costretti a scrivere testi, anche non informali, le particolarità della scrittura su computer, le tecniche con cui si realizza e le modalità con le quali ci si corregge mentre si scrive (a partire dal “copia e incolla”, utile ma insidioso) e soprattutto la sempre più frequente assenza di rilettura (che in passato era considerata un elemento imprescindibile della lingua scritta, da annoverare tra quelli che la differenziano dal parlato) hanno determinato un cambiamento epocale, che è ormai pienamente e generalmente percepibile nei testi in rete e che in futuro potrebbe accentuarsi ulteriormente, per effetto dell’abbandono (da molti giustamente paventato) della scrittura a mano nell’insegnamento della scuola primaria.

Concludo con un fatto sintattico, che ormai spesseggia nelle scritture, soprattutto (ma non solo) in rete: quello che è stato definito come “gerundio irrelato”, che non si riferisce al soggetto sintattico della frase principale, con la quale ha un rapporto puramente semantico. Ne riporto un esempio tratto dalla rete (riprodotto così come si legge): “Regalo divano e’ macchiato ha delle macchie avendo due bambini!!”. Ora, in un simile contesto diafasico e diamesico (si noti l’assenza di qualunque segno di interpunzione) il costrutto può essere perfino considerato accettabile (è chiaro che i bambini sono i figli del proprietario o della proprietaria del divano, e non di quest’ultimo!). Ma lo è molto meno quando si ritrova in testi di livello diverso, come il seguente: “Entrambi gli spettacoli hanno gioito di un elegante apporto di applausi al finale tributando il successo chiarissimo delle due Mimì e del Rodolfo di Vittorio Grigolo”, dove tributando è logicamente riferito ad applausi, ma sintatticamente legato a Entrambi gli spettacoli. Eppure, quest'uso è in decisa crescita, anche perché costituisce per chi scrive un comodo modo per portare avanti l’argomento del discorso senza dover cambiare la frase (non posso escludere che qualche “gerundio irrelato” sia sfuggito perfino a me) e ormai, in certi esempi, passa quasi inosservato anche a chi legge.

Mi fermo qui: penso che per una prima riflessione sugli attuali cambiamenti dell'italiano i dati presentati possano essere sufficienti. Ma ce ne sono anche altri, e mi riservo di proporli presto in un altro Tema.