DOI 10.35948/2532-9006/2021.12643
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Alcuni lettori chiedono se sono corretti e quando si usano i termini piantumare per piantare e piantumazione per piantata / piantagione.
È utile partire dalle indicazioni fornite dai principali vocabolari dell’italiano di oggi, in cui questi termini sono registrati da tempo, non sono cioè peregrini né coniazioni effimere e di fantasia come qualche lettore può credere.
Il GRADIT registra piantumare addirittura come termine di uso comune (CO), quindi tutt’altro che raro: ‘in selvicoltura e nell’architettura dei giardini, mettere a dimora siepi e piante, spec. d’alto fusto’. Allo stesso uso comune (CO) il GRADIT riconduce il denominale piantumazione ‘in selvicoltura e nell’architettura dei giardini, messa a dimora di siepi e piante, spec. d’alto fusto’. Diverso, invece, il caso della base piantume, indicato come termine tecnico-specialistico (TS) dell’agricoltura nel significato di ‘quantità di pianticelle coltivate in vivaio’.
I termini sono registrati con le stesse accezioni anche in due vocabolari del 2021, con informazioni supplementari sulla datazione e sulla trafila formativa: lo Zingarelli indica come date di prima attestazione in italiano av. 1793 per piantume, 1824 per piantumare e 1986 per piantumazione; il Devoto-Oli (con datazioni più recenti: piantumare 1873 e piantumazione 1992) propone una trafila leggermente diversa: piantumazione deriverebbe direttamente da piantume e piantumare sarebbe voce lombarda che però ha accezione un po’ diversa, non quella di ‘piantare’, ma di ‘travasare’.
Il lomb. piantumà ‘trapiantare’ è segnalato sporadicamente in qualche altra fonte (per es. il Supplemento 2004 del GDLI, s.v. piantumare, indicato come denominale da piantume, aggiunge: “vedi anche lomb. piantumà ‘fare barbatelle, trapiantare’”).
Grazie a Google libri (data dell’ultima consultazione 22/2/2021) possiamo avere un quadro più preciso: piantumare è documentato sporadicamente dagli inizi del XIX secolo (compare negli anni 1824-1827 in proclami, editti e manifesti), ma diventa ben attestato e frequente solo negli ultimi decenni del ’900, periodo in cui si registra più diffusamente anche il deverbale piantumazione, che è invece rarissimo a inizio ’900 (nel 1901, in “L’esplorazione commerciale. Giornale di viaggi e di geografia commerciale”: “coltura intensiva e piantumazione del terreno opportunamente corretto e livellato”; nella “Rivista di Lecco” del 1928: “Nominò una commissione incaricata di studiare una conveniente piantumazione lungo la riva del Lago e sul Corso Vittorio Emanuele”; e piantumazione di sempreverdi nel mensile “Rassegna di architettura. Rivista mensile di architettura e decorazione” del 1933).
È utile anche sottolineare che la presenza di piantumare e di piantumazione negli ultimi decenni del XX secolo è legata a precisi contesti scritti, di ambito perlopiù burocratico-amministrativo. Si tratterebbe quindi di burocratismi in uso dagli anni ’80 circa del ’900, come peraltro segnala il Vocabolario Treccani online: ‘dotare di piante una superficie di terra, uno spazio urbano e sim., spec. nel linguaggio burocr.’.
Se ne inferisce, insomma, a differenza di quanto credono alcuni lettori, la non perfetta sovrapposizione di piantare / piantumare, piantata-piantagione / piantumazione, indicando i nostri termini una messa a dimora di alberi giovani all’interno di aree urbane, in viali, piazze, giardini pubblici, non per iniziativa di singoli cittadini, quindi non in spazi privati, ma all’interno di un progetto edilizio, di un piano urbanistico; sono legati, perciò, a un intervento preciso e programmato e non a caso il loro uso è perlopiù ristretto ad alcuni ambiti scritti, da quelli burocratici ai prontuari e alle guide di aziende di giardinaggio e selvicoltura; di recente la piantumazione compare in stretto collegamento con interventi di miglioramento della qualità dell’aria in aree inquinate o di spazi urbani degradati, senza verde.
Quanto alla base, piantume, si tratta di un termine rarissimo: il GDLI registra una sola attestazione, quella di una lettera (degli anni 1788-1793) di Lazzaro Spallanzani, nel significato di ‘quantità di particelle coltivate in un vivaio’: “ho ben piacere che abbiate messo insieme qualche soldo per la vendita del vostro piantume”; nulla si ricava dalla BIZ e pochissimo da Google libri (Nel piantume è un capitolo degli “Annali dell’agricoltura del Regno d’Italia” del 1813).
Peraltro la formazione in -ume per i collettivi da fitonimi e gruppi formati da insieme di vegetali (fiorume, frascume) è rarissima (in genere il suffisso -ume contiene in molte formazioni un valore spregiativo e peggiorativo, raramente un valore neutro come in cerume), mentre esiste un altro suffisso per i collettivi, -ime, che non si è sviluppato in senso peggiorativo (becchime, mangime) (cfr. Grossmann-Rainer 2004, pp. 246, 250, 292): nel nostro caso piantime (GDLI, s.v., da Capuana, ‘pianta nata in semenzaio’).
Non è questa la sede per indagare anche su piantume, che potrebbe essere collegato a qualche dialettismo, regionalismo settentrionale. Ma occorre almeno dire che non è del tutto corretto il rinvio, presente in qualche dizionario, alla voce lombarda piantumare ‘trapiantare’: perlustrando i dizionari lombardi ed emiliani dell’Ottocento si trova non piantumà, ma piantunà da piantùn (piantone ‘fusto; bastone, ecc.’); si veda per es. il Cherubini (vol. III): piantòn, piantonà con rinvio a pientòn pientonà, s. v. pientonà ‘termine agricolo, trapiantare, educar piantoni’, da pientòn ‘barbatella, troncone, piantone; pollone spiccato del ceppo della pianta per trapiantare’. Lo stesso per l’emiliano occidentale (piacentino): piantonà ‘piantata’ (Foresti); per il bresciano piantû ‘rimessiticcio, piantone’ (Melchiori), ecc. Sembra insomma che l’area lombardo-emiliana abbia il tipo verbale da piantùn (corrispondente all’it. piantone, già dei primi secoli). E del resto esiste anche l’italiano piantonaia ‘parte del vivaio in cui si collocano in file regolari i polloni radicati e le piante arboree nate in semenzaio’ (GDLI s.v. e registrato nel Tommaseo-Bellini).
Ai nostri lettori possiamo dire che i termini in questione risultano corretti e usati in contesti scritti molto precisi, burocratico-amministrativi, per mano di impiegati, architetti, agronomi, tecnici e specialisti di selvicoltura, ai quali, quindi è bene lasciarne l’impiego: quando si parla espressamente di progetti urbanistici e di pianificazione di aree verdi l’uso più tecnico-professionale di piantumare e piantumazione non solo è corretto, ma anche auspicabile (la giunta comunale ha stabilito nell’ultima riunione di piantumare il viale è più appropriato rispetto a piantare il viale). Potremmo dire, insomma, che il linguaggio burocratico non è sempre burocratese, ma dispone di una legittima componente tecnica fatta di voci peculiari e che spesso indicano, rispetto a sinonimi più generici, significati più circoscritti e precisi.
Un’ultima osservazione per un lettore che da ricordi personali di scuola si rammenta del suo docente di Estimo ed Economia delle scuole superiori che usava plantumare e plantumazione: tali forme, rare e colte, riproducono il nesso consonantico latino iniziale pl- (di planta), ma sarebbero solo sfoggio erudito, un doppione inutile se, nell’uso amministrativo, si è diffuso e prevale decisamente il tipo italiano piantumare-piantumazione.
Per concludere, nel mondo a volte imprevedibile della storia delle parole, della loro insospettata vitalità, piantume – con appoggio dialettale di area lombarda e accezione un po’ diversa con la sfumatura anche un po’ negativa del suffisso -ume – è presente nei primi versi di una poesia di Giorgio Orelli, La trota del 1962, inclusa nella raccolta Sinopie (Milano 1977):
Di domenica setter color sasso / memori tra il piantume / fluviale, scarafaggi / bianchi di morte, sommossi ogni poco dall’acqua / …
Nota bibliografica: