Consulenze linguistiche

Passio Domini nostri Iesu Christi

  • Mariella Canzani
SOTTOPOSTO A PEER REVIEW

DOI 10.35948/2532-9006/2020.3109

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Quesito:

Si dice il passio o la passio? Daniele S. di Caserta, Giuseppe G. di Messina e altri lettori cercano chiarimenti sull'uso del genere maschile anziché femminile in riferimento al racconto evangelico della Passione di Gesù.

Passio Domini nostri Iesu Christi

Solemniter legitur passio, solemniter celebratur
(Sant'Agostino, Sermo 218)

Il pàssio è la parte dei Vangeli in cui è narrata la Passione di Gesù, letta o cantata durante la Settimana Santa. Prima della riforma liturgica del Concilio Vaticano II, che ha introdotto l'uso delle lingue nazionali nella celebrazione della messa, il racconto di Matteo si elevava in latino durante la messa della Domenica delle Palme, così i testi corrispondenti di Marco, Luca e Giovanni si leggevano rispettivamente il Martedì, il Mercoledì e il Venerdì Santo. Passio Domini nostri Iesu Christi secundum Matthaeum (o Marcum, Lucam, Iohannem), "Passione di nostro Signore Gesù Cristo secondo Matteo, Marco ecc.", era la formula che, variando quella consueta (Sequentia sancti Evangelii secundum…), annunciava la lettura di questi tratti evangelici. Nella forma ordinaria del Rito romano la lettura del passio è ora tratta dai Vangeli di Matteo, Marco o Luca (secondo il ciclico calendario liturgico) il giorno delle Palme, dal Vangelo di Giovanni il Venerdì Santo.

Il termine passio, registrato nei dizionari come sostantivo maschile invariabile (antichi e rari gli usi del plurale Passi), è entrato nell'italiano attraverso il latino cristiano passĭo, -ōnis (sostantivo femminile da păssus, supino del verbo păti, cioè 'soffrire, sopportare, subire', o anche 'essere passivo, paziente'), che nei testi sacri e negli scritti patristici assume il significato particolare di 'passione di Cristo'. Con questo valore semantico il vocabolo latino sarà poi usato nelle narrazioni martirologiche e agiografiche, per avvicinare i martiri, nel supplizio subìto, alla sofferenza esemplare di Cristo, alla Passione del Signore.

Dal medesimo etimo latino passĭo è derivata anche un'altra parola: dall'accusativo, caso di derivazione più consueto, proviene la forma più usuale e comune, passione (<passionem), con la sua variegata semantica, che mantiene il significato di 'sofferenza, dolore e tormento fisico e spirituale' unicamente in relazione ai patimenti e alla morte di Gesù; continua invece il caso nominativo la forma passio, ricorrente solo come termine religioso, ecclesiastico e liturgico.

Può apparire strano che la parola, femminile in latino, diventi maschile in italiano. Dal punto di vista linguistico il cambio di genere è spiegato dal fatto che passio, proprio per il suo uso nella liturgia, è diventato una sorta di etichetta: un "nome-cartellino", secondo la definizione coniata nel 1934 da Bruno Migliorini (e già ricordata da Paolo D'Achille a proposito del credo religioso) per indicare una tipologia di nomi, nella quale sono compresi anche diversi altri latinismi liturgici (l'angelus, il gloria, il kyrie, il salve regina, il sanctus ecc.), che sostantivati tendono ad assumere il genere maschile, anche quando provengono da una base femminile.
Il termine, infatti, introducendo le letture evangeliche (usato come titolo), figurava al nominativo nei vangeli, nei lezionari e negli evangeliari che contenevano i brani biblici destinati a essere recitati nella messa e che si diffusero anche in volgare: in questo modo passio ha finito per indicare più che la 'passione di Cristo', soprattutto il 'brano del vangelo che narra la Passione', il 'racconto della Passione', il 'canto del vangelo della Passione'. Questa nuova accezione semantica (che rimanda per associazione mentale a qualcosa di maschile) e la terminazione in -o, tipica dei sostantivi maschili, ne hanno quindi determinato il nuovo genere.

Il passaggio al genere maschile non è avvenuto in modo improvviso e rapido, ma attraverso una fase di oscillazioni, con l'assestamento delle parole derivate dal latino passĭo: passio e passione convivono in italiano antico (sebbene passione abbia un ambito semantico assai più esteso e un uso più radicato). Il Corpus OVI ci restituisce, tra i primi testi della nostra letteratura, l'esempio più remoto dell'uso di passio (al maschile) nei Proverbia que dicuntur super natura feminarum, testo di area settentrionale (forse veneta), databile tra la fine del XII e l'inizio del XIII secolo: "en entre en lo Passio se truova sta rasone / come sain Pero la note se scaldava le prone…" [nel racconto evangelico della Passione si trova questo brano: mentre San Pietro quella notte si scaldava alle braci…]; in altri casi il termine è precisamente specificato, per esempio nei Vangeli in antico veneziano: "questo passio se dixe la domenega d'olive del nostro Signor Iesù Cristo". Tra i numerosi esempi nel Trecento, spesso toscani, il primo è nelle Prediche di Giordano da Pisa ("nel Passio di Cristo è scritto come…"), poi anche in Giovanni Villani ("in pieno concistoro fece loro questa risposta, sanza altre parole, che questo è scritto nel Passio Domini").

Le attestazioni letterarie continuano nel Quattrocento e nel Cinquecento, nei Motti e facezie del Piovano Arlotto ("domattina si dice il Passio e dessi l'ulivo") e in Pietro Aretino (dove passio vale come 'la parte del Vangelo che tratta della Passione', ma in senso metaforizzato, con allusione al modo declamante e all'intonazione drammatica della Scrittura: "egli, con quelle esclamazioni che si cantano al passio mi ruppe tanto il capo, che mi lasciai vincere").
Sembrano invece, almeno apparentemente, rarefarsi le attestazioni nei due secoli successivi (anche confrontando le biblioteche digitali di testi della letteratura italiana, Biblioteca Italiana e BIZ), mentre continua l'uso liturgico-religioso del termine (la celebrazione rituale del passio è descritta in modo particolareggiato nei lessici specifici, come il dizionario enciclopedico di termini sacri del canonico maltese Domenico Magri, Notitia de' vocaboli ecclesiastici, 1644 e successivamente il Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica da San Pietro sino ai nostri giorni, compilato da Gaetano Moroni, aiutante di camera di papa Gregorio XVI e Pio IX, tra il 1840 e il 1861).

Assente nelle prime quattro edizioni del Vocabolario della Crusca (1612, 1623, 1691, 1729-1738; il lemma passio è invece tra le schede preparatorie della Quinta Crusca, interrotta alla lettera O), il vocabolo comincia a essere registrato nella cosiddetta "Crusca veronese" (1806-1811) del padre Antonio Cesari: passio è 'la Passione scritta di Gesù Cristo', 'quella parte dell'Evangelio in cui si narra la Passione di Cristo', attraverso le attestazioni trecentesche della Vita di Santa Maria Maddalena contenuta nel volgarizzamento delle Vite de' santi Padri nell'edizione di Domenico Maria Manni (Firenze, 1731-1735); lo stesso testo documenta anche un uso al femminile del termine (registrato per la prima volta dal Cesari, poi nel vocabolario Tramater e ripreso nel GDLI), nel significato di 'insieme delle sofferenze sopportate da Cristo': "se fosse possibile che questa morte e questa passio io potessi levare dalla persona tua e darla alla mia, volentieri la porterei".

Ritroviamo poi il termine passio nei vocabolari che percorrono tutto l'Ottocento, fino al Tommaseo-Bellini (1861-1879) e al Novo dizionario universale della lingua italiana di Policarpo Petrocchi (1887-1891), che ne segnala l'uso traslato e la fraseologia viva: l'accezione figurata (legata all'interminabile lettura del passio), già affiorata in qualche esempio letterario, era evidentemente diffusa nell'uso popolare.

La pratica religiosa, la frequentazione assidua della messa celebrata in latino, il bisbiglio ripetitivo delle frasi formulari, sacrali e solenni, spesso non comprese, ma assorbite mnemonicamente nella penombra d'incenso della chiesa, hanno contribuito a introdurre nel parlato molti latinismi liturgici, reimpiegati nella comunicazione familiare e colloquiale, nei dialetti, come proverbi, metafore o intercalari.
Così dalla straordinaria lunghezza dei tratti evangelici della Passione (specialmente quello della Domenica delle Palme) del Cristo implorato e umiliato, tradito, torturato e ucciso, lasciato morire sulla croce, cantati e drammatizzati, sono scaturiti modi di dire e similitudini, in cui è espressa l'idea della lungaggine, della noia e della tribolazione, di esasperante lentezza o scocciatura: il termine di paragone lungo come (o quanto) il passio è declinato in diverse varianti dialettali, dal veneto longo come el passio al sardo longu chei su passiu; il siciliano sia lodatu lu passiu grecu denota una lezione o una cosa smodatamente lunga, mentre il bolognese cantar al passi è detto ironicamente di cosa o persona passata di freschezza, di donna attempata; fare un passio (riportato come modo d'uso toscano da Edmondo De Amicis nell'Idioma gentile, 1905) è detto di una "cosa lunga che invece dovrebbe esser breve", di una lamentazione; "è un passio" indica una cosa lamentevole, triste e dolorosa.
L'immagine di tedio e insofferenza per le letture liturgiche è ripresa nei versi di Giuseppe Giusti: "Senza stare a citarvi il Mementomo / O quell'uggia del Passio, o il Miserere", quella di verbosità nelle Novelle campagnuole di Ippolito Nievo: "ma perciò non devo lasciar senza gambe la mia storia, la quale precipita alla fine, e consolatevi, poiché se il passio è lungo, non l'è poi il Vangelo di ogni giorno". Scrivere un passio si dice di lettera o di scrittura lunga e noiosa (uso figurato registrato da Pietro Fanfani nel Vocabolario dell'uso toscano, 1863 e nel Vocabolario italiano della lingua parlata, compilato con Giuseppe Rigutini, 1875); nell'uso epistolare il passio è un elenco prolisso di critiche, osservazioni o patimenti: "torno e ritorno a belare un passio di malinconie" (Giuseppe Giusti, lettera a Tommaso Grossi), "perdona questo passio mal connesso" (Giosue Carducci a Isidoro Del Lungo), "ora s’incomincia il Passio" (Giosue Carducci a Pietro Dazzi).
Un tale repertorio di espressioni è largamente ripreso da diversi scrittori tra Ottocento e primo Novecento (Antonio Ghislanzoni, Luigi Capuana, Ferdinando Martini, Giovanni Faldella, Remigio Zena, Federico De Roberto, Emilio Cecchi ecc.), ma viene diradandosi sempre più nella narrativa recente, dove si traduce in riferimenti a usi o ricorsi del passato (come fanno Salvatore Mannuzzu, 1989, Sebastiano Vassalli, 1997, Antonio Moresco, 1998). Tanto che passio e la relativa fraseologia, che la lessicografia marcava fino a qualche decennio fa come familiare, sono diventati rari o desueti.

L'abbandono pressoché totale del latino nella liturgia da più di mezzo secolo (la prima messa in italiano fu celebrata il 7 marzo 1965, prima domenica di Quaresima), oltre a costituire un cambiamento importante per la pratica religiosa, ha avuto notevoli riflessi culturali nella lingua, allentando le consuetudini lessicali, scandite dai tempi liturgici, con una serie di termini, nella maggior parte dei casi ormai rarefatti nell'uso e divenuti opachi nella semantica.

Una sempre minor dimestichezza con il linguaggio liturgico-religioso tradizionale, la consapevolezza che in latino passio è femminile e la compresenza accanto a passio (termine ormai quasi esclusivamente circoscritto allo specialismo liturgico o liturgico-musicale) del più comune femminile passione, anche nei medesimi contesti della pratica religiosa (la lettura della Passione, la passione e la morte di Gesù), può oggi provocare un'incertezza e indurre talvolta a ritornare sul femminile.


Nota bibliografica:

  • Gian Luigi Beccaria, Sicuterat. Il latino di chi non lo sa: Bibbia e liturgia nell'italiano e nei dialetti, Milano, Garzanti, 2002 [rist. dell'ed. ampliata 2001].
  • Vittorio Coletti, Parole dal pulpito. Chiesa e movimenti religiosi tra latino e volgare nell'Italia del Medioevo e del Rinascimento, Casal Monferrato, Marietti, 1983.
  • L'italiano della Chiesa fra passato e presente, a cura di Massimo Arcangeli, Torino [etc.], Allemandi, 2010.
  • Rita Librandi, L'italiano nella comunicazione della Chiesa e nella diffusione della cultura religiosa, in Storia della lingua italiana. I, I luoghi della codificazione, a cura di Luca Serianni e Pietro Trifone, Torino, Einaudi, 1993, pp. 335-381.
  • Rita Librandi, L'italiano della Chiesa, Roma, Carocci, 2017

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