DOI 10.35948/2532-9006/2020.3304
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Il primo Dantedì della storia
Oggi si celebra il primo “Dantedì” della storia. È caduto in un periodo sfortunato. Il programma, fino a un mese fa, era ambizioso: volevamo coinvolgere nell’iniziativa la scuola, mobilitando studenti e professori, radunandoli in cinema e teatri, o addirittura sfilando per strada, come al tempo delle celebrazioni dantesche fiorentine del 1865. Fantasticavamo sul coinvolgimento di un gran numero di persone. Non sarà così. L’esercizio sarà tutto virtuale.
A questo si è preparata anche la Crusca, come il MIBACT, il nostro Ministero dei beni culturali. Lanciamo oggi, attraverso i nostri canali social, una serie di interviste e di filmati in cui si parla di Dante. Giova inoltre ricordare che stiamo lavorando per il 2021, quando le celebrazioni dantesche avranno un rilievo speciale, a 700 anni dalla morte del Poeta. In vista di quella data, la Crusca ha messo in cantiere, assieme all’OVI-CNR, il Vocabolario dantesco volgare, e allo stesso tempo è stato avviato, con collaborazione ancora più ampia, il Vocabolario dantesco latino.
Il Dantedì non prevedeva celebrazioni troppo accademiche o specialistiche, ma attività divertenti, persino spettacolari. Celebrato oggi, nelle condizioni di mobilità ridotta al minimo o a zero, nello stato di necessità che costringe la gente a cantare dai balconi e organizzare flash-mob sospesi (prima, infatti, il flash-mob aveva un senso diverso: trattandosi, come dice l’Oxford dictionary, di “a large public gathering at which people perform an unusual or seemingly random act and then disperse”, i luoghi deputati erano le piazze, non i balconi, che tuttavia ora ben si adattano a una rappresentazione dei regni danteschi dell’aldilà).
Tuttavia il Dantedì è un’occasione per il nostro orgoglio nazionale, quello che fa ripetere a molti il “ce la faremo”, se non altro di buon auspicio. Si sventolano bandiere, da quei balconi, e si recitano versi danteschi, come ha suggerito Francesco Sabatini. Insomma, oggi siamo tutti dantofili.
Dantofilo: storia di una parola
Poiché la Crusca si occupa di parole, proveremo a dire qualche cosa proprio sulla parola dantofilo, che è cosa diversa dal dantista. Il dantista è l’esperto dell’opera di Dante, come i colleghi dantisti accademici della Crusca; il dantofilo è chi “coltiva lo studio e la lettura di Dante” (così il GRADIT), dunque un amatore un po’ dilettante, più o meno esperto, non professionista. Molto accurata la definizione del dizionario Treccani di A. Duro: “composto del nome di Dante e -filo. – Chi, o che, studia assiduamente Dante; ma soprattutto chi ne raccoglie edizioni, traduzioni, ecc., o fa di lui un culto, anche senza serî propositi scientifici”. Il dantofilo è uno che ama Dante, come oggi tutti lo amiamo in questo primo Dantedì1. Il GRADIT, il Grande dizionario italiano dell’uso, che registra Dantofilo nel vol. II, p. 466, mette accanto a Dantofilo una data: 1956. È il gioco dell’anagrafe delle parole, a cui si dedica anche la Crusca, che ha allestito la banca dati ArchiDATA, ideata e diretta da Ludovica Maconi: si tratta della grande banca in cui si aggiornano le date delle parole italiane, cioè si individua la loro prima attestazione, da cui ha inizio la loro storia.
Ebbene, la data 1956 del GRADIT per dantofilo va proprio corretta. Per la verità è stata in parte rivista nell’edizione elettronica su chiavetta: lì la data è 18792. Questa seconda data è già meglio dell’altra (la quale è frutto di un errore marchiano, perché deriva da una cattiva interpretazione di un giusto rinvio del GDLI “Battaglia”3). Tuttavia i “dantofili” c’erano già prima del 1956 e anche prima del 1879.
Dantofili di tutte le nazioni
La storia di dantofilo è molto istruttiva. Ci riporta a un momento magico dell’interesse per Dante, e anche ci rammenta la dimensione internazionale degli studi sul nostro maggior poeta.
Siamo in Inghilterra, alla fine dell’Ottocento. Un inglese che sta a Oxford, Edward Moore, studia Dante in maniera formidabile. Nel 1883 presenta le sue ricerche ai membri della “Oxford Dante Society”. L’Ottocento è un secolo fondamentale nella storia della filologia. Nel 1850 era uscito il Lucrezio di Lachmann. Si stanno riscoprendo i codici come fonte primaria per ricostruire la forma autentica dei testi, eliminando gli errori introdotti nel tempo dai copisti. Si sta imparando a utilizzare i manoscritti antichi in maniera scientifica, con metodo rigoroso, non cavandone le lezioni qua e là secondo scelte soggettive.
Di Dante, come degli autori classici greci e latini, non abbiamo gli autografi. In questo senso, Dante resta misterioso come gli autori più antichi, anche se la distanza storica tra l’originale e i manoscritti giunti a noi non si misura in secoli (come per i classici greco-latini) ma in decenni: il più antico manoscritto della Commedia è del 1336, il Landiano della Biblioteca comunale di Piacenza, e dunque non è troppo distante dalla morte di Dante; “si tratta però di anni intensi che segnano in modo indelebile la trasmissione dell’opera” come scrive Alfredo Stussi. Questo vuol dire che già in poco tempo i manoscritti che riproducevano la Commedia si erano riempiti di errori.
La filologia dantesca, nel Cinquecento, passa in maniera altrettanto decisiva attraverso Pietro Bembo, il grande regolatore cinquecentesco dell’italiano. La tradizione della Commedia di Dante, per centinaia di anni, è stata in sostanza affidata a una vulgata che si fondava, pur con ritocchi di vario genere (spesso peggiorativi), sulla famosa aldina del 1502, la stampa veneziana della Commedia procurata da Bembo per Aldo Manuzio, quella che non s’intitolava nemmeno Commedia o Comedìa (e lasciamo perdere il “divina”, che è posticcio), ma Le terze rime (con riferimento alla forma metrica, perché la Commedia è in terzine). Bembo si era basato su di un codice appartenente a suo padre, l’odierno Vaticano lat. 3199. Roba di famiglia, dunque: perché il padre di Bembo, Bernardo, a sua volta, da uomo assai colto e intelligente qual era, aveva alimentato il culto di Dante, tanto che aveva provveduto al restauro della tomba del poeta, nel periodo in cui era stato podestà a Ravenna. Anche oggi le lapidi di marmo sulle pareti laterali della tomba ravennate ricordano quel lodevole restauro.
Arriva la filologia
Nel secolo XIX si comprese finalmente che era necessario interrogare a fondo i manoscritti antichi per rifondare la filologia dantesca. Quali scegliere, però? Non esiste un autografo della Commedia. Non abbiamo nemmeno una pagina o una riga scritta di pugno da Dante. I codici che trasmettono la Commedia sono molti, oltre 600. Impossibile allora (e anche oggi non si è risolto il problema) ordinarli in uno "stemma" secondo il metodo di Lachmann. Però, finalmente, nel secolo XIX, si capì che i codici antichi contenevano il testo più affidabile a cui ricorrere, anche se quegli stessi codici non mancavano di errori. La Commedia non ha una tradizione testuale profondamente diversa nei vari manoscritti, e ciò ci rassicura; ma le differenze minute sono moltissime, una miriade, e tali da modificare il significato di molti versi. Gli studiosi dell’Ottocento, dunque affrontarono questo problema.
Non solo gli italiani studiavano Dante. Nel 1862, Karl Witte, professore di diritto a Halle, aveva dato un’edizione della Commedia basata su quattro manoscritti, selezionati tra quelli che riteneva molto affidabili. Il saggio con cui Witte presenta le proprie ricerche è ancora oggi un esempio formidabile di rigore e di metodo. Tuttavia quattro manoscritti, scelti un po’ a caso tra tanti altri, non potevano bastare. L’oxoniense Moore prese le mosse proprio dal lavoro di Witte, su cui espresse un giudizio positivo, pur rilevandone i limiti. Si trattava però di andare oltre a Witte, superandone i difetti. Non solo Moore stampò la Commedia, ma anche tutte le altre opere di Dante. Nel presentare i propri studi, e nel commentare quelli degli altri dantisti, Moore adoperò più volte la parola Dantofilo, sempre maiuscola (siamo nel 1894), come si vede in questa pagina, in cui spiega le sue scelte relativamente al testo della Vita nuova, del De vulgari eloquentia, delle liriche, e soprattutto della Divina Commedia:
Benché il libro Tutte le opere di Dante sia pubblicato a Oxford, Moore, lo si sarà notato, adopera l’italiano, non l’inglese. Bei tempi! Del resto anche K. Witte aveva scritto in italiano i suoi Prolegomeni critici all’edizione della Commedia. Non c’era allora, a differenza di oggi, il pregiudizio anti-italiano, per cui qualche valutatore professionale dei tempi nostri sarebbe portato ad attribuire maggior punteggio a un saggio dantesco in inglese, solo perché, appunto, scritto in inglese. Ma torniamo alla parola dantofilo, che, nella pagina di Moore, equivale in sostanza a ciò che noi diremmo dantista.
se Dante potesse mai diventar noioso e dannoso, i dantisti o danteschi o dantofili avrebber finito con riuscire a farlo. E non intendo mica i dissertatori del su lodato piè fermo5 e gli spulciatori illustri delle varianti: la entomologia è in natura, e la filoleria ne ingrassa, e senza filoleria come si farebbe a spender quattrini per dar cattedre alla gente?[7]