Consulenze linguistiche

Oggettivare e oggettivazione, oggettificare e oggettificazione

  • Domenico Proietti
SOTTOPOSTO A PEER REVIEW

DOI 10.35948/2532-9006/2022.20794

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Copyright: © 2021 Accademia della Crusca


Quesito:

Sul verbo oggettivare e sui deverbali oggettivazione e oggettificazione sono pervenuti due quesiti: un lettore, rilevando che il verbo oggettivizzare è usato “nell’ambito della ricerca scientifica ed in filosofia”, chiede perché esso “non è presente nei vocabolari”; una lettrice, nella convinzione che oggettivare significhi ‘rendere oggettivo’ e oggettificare ‘considerare come oggetto’, ‘spersonalizzare’, chiede quale eventualmente sia la differenza di significato tra i sostantivi oggettivazione e oggettificazione che trova usati come sinonimi nella locuzione oggettivazione/oggettificazione sessuale.

Oggettivare e oggettivazione, oggettificare e oggettificazione

Trattandosi, come giustamente rilevato, di termini d’ambito filosofico e scientifico, è opportuno ripercorrere nelle tappe principali la formazione e la trafila semantica nel lessico intellettuale europeo delle nozioni espresse in italiano dai verbi oggettivare e oggettificare.

Come punto di partenza possiamo assumere la voce dedicata all’aggettivo objectif nella II edizione (1718) del Dictionnaire de l’Académie française (vol. 2, p. 149), in cui come prima accezione viene illustrata quella corrente nella teologia dogmatica: “en matieres de theologie, on dit que Dieu est nostre bonheur objectif pour dire, Que Dieu est l’objet de nostre bonheur; et dans le mesme sens, on dit, qu’Il est nostre beatitude objective, nostre felicité objective”.

Nel criticismo kantiano, l’aggettivo objectiv (in particolare nella locuzione objective Realität ‘realtà oggettiva’) assume un valore peculiare: distinguendo tra realtà (Realität), realtà oggettiva (objective Realität) ed esistenza (Wirklichkeit), Kant indica le ultime due come esito o prodotto del pensare, che trasforma l’immagine dell’intuizione in oggetto o cosa, cioè, essenzialmente, la ‘oggettiva’ o ‘esistenzializza’ (per es.: “Die objective Realität eines reinen Willens […] ist im moralischen Gesetze a priori gleichsam durch ein Factum gegeben”, cioè “La realtà oggettiva di una volontà pura […] è data a priori nella legge morale, alla stregua di un fatto”, Critica della ragion pratica, Analitica, l. I, 2; ma cfr. anche Critica della ragion pura, Analitica trascendentale, l. II, 3). Il concetto, come è noto, venne ripreso e radicalmente rielaborato nella filosofia idealistica tedesca, a cui risalgono le prime attestazioni del denominale objectivieren/objektivieren, per es.: “die Macht, unsere Idealität in Realität umzuwandeln, und sie in besondern Formen zu objektivieren” (‘il potere di convertire la nostra idealità in realtà e di oggettivarla in particolari forme’, J. G. Fichte, Über das Wesen des Gelehrten ‘L’essenza del dotto’, Berlin, In der Himburgischen Buchhandlung, 1806, p. 349); talora usato anche come infinito sostantivato: “erfreuliche Objektivieren seiner Idealität in verschiedenen Formen” (‘la piacevole oggettivazione della propria idealità in particolari forme’, ibid., p. 351).

Passato ben presto in francese, nella forma objectiver (“au début de l’exposition de ma doctrine […] je commencerai par objectiver, en parlant comme tout le monde de l’âme et du corps”, F.-P. Maine de Biran, 1817, ed. in Journal intime, II, Paris, Plon, 1931, p. 20), in italiano è attestato a partire dagli anni Trenta dell’Ottocento nelle varianti obbiettivare e oggettivare, entrambe sentite come forme recenti di provenienza tedesca (i corsivi sono nei testi originali):

I filosofi tedeschi hanno una maniera di dire, che a noi manca, per indicare quella operazione supposta dello spirito, colla quale egli produce un proprio modo, che è poi il suo oggetto; e se noi dovessimo tradurla verbalmente, dovremmo inventare una parola nuova, la qual sarebbe “oggettivarsi”; che altramente direbbesi ‘l’operare che fa l’Io in modo da produrre di sé un oggetto’ (A. Rosmini, Il rinnovamento della filosofia in Italia, Milano, Pogliani, 1836, p. 362);

Kant innalzò una barriera che s’interpone tra l’obbiettivo, cioè l’oggetto fuori del pensiero, e il soggettivo, cioè il pensiero medesimo; e poi avendo impresso a tutte le leggi di questo il carattere di soggettive […] le ha proclamate di niun valore fuori di esso: onde ha voluto impedire per sempre ad ogni filosofo di poterle mai obbiettivare, per dirlo così alla tedesca; cioè di poterle mai considerare altrimenti che come fenomenali (G. Bianchetti, Studj filosofici, Treviso, Andreola, 1837, pp. 283-284).

E le varianti obbiettivare e obiettivare sono indicate ed esemplificate nel lemma oggettivare della quinta impressione del Vocabolario degli Accademici della Crusca, XI, Firenze, nella Tip. Galileiana 1923, p. 427), che, se non proprio la prima, è certo una delle prime registrazioni lessicografiche del termine (tra le quali, possiamo limitarci a ricordare il lemma oggettivare nel GDLI, XI, 1981, p. 843 e nel Sabatini-Coletti).

Un passaggio importante nel percorso che stiamo tratteggiando è la recezione nella cultura inglese di alcune categorie elaborate da A. Schopenhauer e K. Marx. Nella sua opera più importante, Il mondo come volontà e rappresentazione (Die Welt als Wille und Vorstellung, 1813-1859), Schopenhauer torna più volte sulla nozione espressa con la locuzione Objektivation des Willens (‘Oggettivazione della volontà’, vol. I, l. II; vol. II, capp. 20 Objektivation des Willens im thierischen Organismus ‘Oggettivazione della volontà nell’organismo animale’ e 23 Über die Objektivation des Willens in der erkenntnisslosen Natur ‘Sull’oggettivazione della volontà nella natura priva di conoscenza’). Marx, sottoponendo a critica radicale la concezione hegeliana di alienazione-oggettivazione, elaborò la categoria che indicò indifferentemente (cfr. G. Bedeschi, Alienazione e feticismo nel pensiero di Marx, Bari, Laterza, 1968, p. 152) con i termini Entfremdung, Verdinglichung, Vergegenständlichung, Versachlichung, Verselbständigung: tali termini sono stati variamente tradotti in italiano con alienazione, reificazione, cosificazione e oggettivazione (in particolare, nella locuzione ‘oggettivazione del lavoro’ Vergegenständlichung der Arbeit, utilizzata da Marx già nell’opera giovanile Manoscritti economico-filosofici del 1844). In inglese, in cui pur esistevano i verbi objectivate e objectivize (entrambi spiegati come “To render objective”, in Oxford English Dictionary OED, VII, 1909, pp. 16 e 17), nella traduzione dell’opera maggiore di Schopenhauer, e in particolare per la locuzione Objektivation des Willens, si ricorse alle forme del verbo objectify attestato (insieme al derivato objectification) nel linguaggio filosofico-teologico dagli anni Trenta del XIX secolo (cfr. OED, VII, 1909, p. 16). Così, nella versione inglese The world as will and idea, cura di R.B. Haldane e J. Kemp, I-II, London, Trübner & Ludgate, 1883, sia il titolo del II libro del I volume, sia le successive occorrenze della locuzione sono tradotti come objectification of the will e nel saggio di F. Bowen, Modern philosophy: from Descartes to Schopenhauer and Hartmann (New York, Scribner, 1877) ricorre il participio presente objectifying (“our immediate consciousness of will objectifying itself in outward phenomena”, p. 406). Inoltre, il participio passato objectified (che compare tra l’altro nell’articolo di Th. Whittaker, “Mind-stuff” from the historical point of view, in “Mind”, VI, 1881, p. 504: «Thus, according to Schopenhauer, the reality outside us is will. The brain is “the will objectified”») ricorre in contesti in cui si traducono o commentano passi del Capitale di Marx, come in questo passaggio dall’opera Capital and interest. A critical history of economical theory di E. von Böhm-Bawerk (trad. ingl. di Kapital und Kapitalzins. Geschichte und Kritik der Kapitalzinstheorien, 1884), London, Macmillan, 1890, p. 369: “A use value or good, therefore, only has a value because abstract human labour is objectified or materialised in it”; oppure nell’articolo di W. Graham, Socialism: its argument and aims (in “Transactions of the Manchester statistical society”, 1888, p. 13; poi in Id. Socialism new and old, New York, Appleton, 1893, p. 140) “the additional human labour that came in contact with the yarn-which additional labour is now crystallised, objectified, or ‘congealed’, to use the expression of Marx, in the cotton cloth”. Infine, nella premessa (p. X) del traduttore (R. Griffin) al volume di F. Rossi-Landi, Marxism and ideology, Oxford, Clarendon Press, 1990 (versione inglese di Ideologia, Milano, Mondadori, 19822) si specifica: “objectification [is] conventional translation for Marx’s concept Versachlichung”.

Insomma, nel rapporto della cultura inglese con le opere di Schopenhauer e Marx furono introdotte o utilizzate con specifici significati forme derivate dal verbo objectify (e in particolare il deverbale objectification) che hanno via via affiancato, talora utilizzate/sentite come sinonimi, i precedenti verbi objectivate e objectivize (cfr. i lemmi objectification e objectified in OED, Second supplement, III, 1982, pp. 6-7).

In italiano, oggettificare e derivati hanno circolazione tardiva e sporadica e risultano usati in pratica come equivalenti di oggettivare e derivati, per es.:

Per essere percepibile la forma si deve “cosificare”, “oggettificare”, così che sia possibile distinguere tra cosa e cosa, oggetto e oggetto (F. Pfister, Il metodo della scienza, Firenze, Sansoni, 1948, p. 83);

Significativo il fatto che i “valori” sembrano imporsi dall’esterno e sono comunemente oggettificati: la Verità, la Giustizia, la Bellezza, la Bontà (G. Zunini, Homo religiosus: capitoli di psicologia della religiosità, Milano, Il Saggiatore, 1966, p. 162).

Alla fine degli anni Ottanta oggettificare è ancora percepito come neologismo e inserito nel Dizionario del nuovo italiano di Claudio Quarantotto (Roma, Newton Compton, 1987, p. 310), con la definizione “Considerare, trattare, studiare con oggettività, come un oggetto” ed esemplificato con il passo seguente: “Lo scienziato deve oggettificare il mondo, cioè disidentificarsi totalmente dal mondo (F. Fornari, La Fiera letteraria, 28 settembre 1967).

Dalla prima metà degli anni Settanta, però, nel linguaggio del movimento femminista e in particolare nelle pubblicazioni e nelle manifestazioni per la depenalizzazione del reato di aborto (culminate con l’approvazione della legge n.194 del 22 maggio 1978 sull’interruzione volontaria della gravidanza), i verbi oggettivizzare e oggettificare (d’uso meno frequente) assumono l’accezione specifica, al crocevia tra linguaggio della psicanalisi e della teoria marxista, di ‘considerare e trattare una persona, di solito una donna, come un oggetto, in particolare nell’ambito della sessualità’. Una concezione e un atteggiamento sintetizzati nella locuzione “donna oggetto” (risalente anch’essa all’inizio degli anni Settanta) e sentiti come imposti dai mass media. Questi temi sono sinteticamente espressi in un passo del documento L’aborto nel mondo e in Italia del Collettivo femminista-comunista di Roma: «La sessualità della donna […] viene spinta verso la cosiddetta “emancipazione sessuale”. Si tratta di oggettificare al massimo il corpo della donna attraverso un’opportuna educazione impartita dai mezzi comunicazione» (in “Tempi moderni”, XVII, n. 1, maggio 1975, pp. 55-57: 55); ed è interessante per i nostri fini osservare che in una successiva pubblicazione del documento (nel volume La politica del femminismo (1973-76), a cura di B. Frabotta, Roma, Savelli, 1976, pp. 97-103) il passo appena riportato compare (a p. 98) nella versione “Si tratta di oggettivizzare al massimo il corpo della donna […]”, in cui, evidentemente, la poco usuale (se non proprio inusuale) forma oggettificare è stata sostituita con la certo più consueta variante oggettivizzare, usata nella nuova accezione. Nei decenni successivi, però, per esprimere tale nuova accezione si è fatto ricorso sempre più largamente a oggettificare/ oggettificazione, con ogni probabilità per influsso della copiosa produzione in inglese di scritti d’ambito psico-sessuologico (per cui si può rimandare alla rassegna Sexual objectification of women: advances to theory and research, di D.M. Szymanski, L.B. Moffitt, E.R. Carr, in “The counseling psychologist”, 31, 2011, pp. 6-38) e soprattutto di interventi ideologico-politici d’ispirazione femminista (“Objectification is a notion central to feminist theory”, cfr. E. Papadaki, Feminist perspectives on objectification, in The Stanford Encyclopedia of philosophy, 2019, dove è ricapitolata e discussa l’ampia letteratura sull’argomento, a partire dal fondamentale saggio Objectification di M.C. Nussbaum, in “Philosophy & public affairs”, 24, 1995, pp. 249-291).

Naturalmente, in italiano oggettificare e derivati hanno continuato, sia pure meno frequentemente, a essere utilizzati con il valore precedente di ‘rendere oggettivo’ (“un controllo sulla realtà sociale che essi stessi hanno posto in essere con le loro azioni e che ha assunto uno status oggettificato ed esterno”, A. Panebianco, L’analisi della politica, Bologna, il Mulino, 1989, p. 114); e, viceversa, oggettivare e derivati sono stati non di rado usati nell’accezione recente: “L’ideologia posta al servizio della oggettivazione sessuale è il sadomasochismo” (R. Stella, L’osceno di massa: sociologia della comunicazione pornografica, Milano, F. Angeli, 1991, p. 57). Né mancano i casi in cui oggettificare, oggettivare e derivati ricorrono insieme come equivalenti (“Il paziente non ha a disposizione una metafora del mondo ed è perciò alla mercè del mondo […]. Come egli oggettifica i suoi simboli, così viene egli stesso oggettivato, nel suo vissuto, dal mondo intero”, G. Benedetti, Paziente e terapeuta nell’esperienza psicotica, Torino, Boringhieri, 1991, p. 282) o con differenti accezioni (come nel titolo del contributo di A. Grompi, Oggettivazione, oggettificazione e reificazione nel diritto, in Teorie della reificazione. Storia e attualità di un fenomeno sociale, a cura di A. Bellan, Milano-Udine, Mimesis, 2013, pp. 303-325).

A conclusione di questo (anche troppo) ampio excursus è il caso di ricapitolare quanto sinora emerso, rispondendo finalmente ai quesiti da cui siamo partiti.

In uso dagli anni Trenta dell’Ottocento, il verbo oggettivare è registrato e trattato (anche nella meno diffusa variante obbiettivare/obiettivare) nei principali dizionari d’italiano a partire dagli anni Venti del Novecento (quinta edizione del Vocabolario della Crusca, vol. XI, 1923).

Oggettivare e il derivato oggettivazione sono stati usati esclusivamente nell’originaria accezione filosofica di ‘rendere oggettivo’ fino agli anni Sessanta del Novecento; con lo stesso valore erano talora usate (anche per influsso delle voci inglesi objectify e objectification) le varianti oggettificare e oggettificazione, sentite come neologismi. Dalla metà degli anni Settanta, in particolare nel linguaggio del movimento femminista, oggettificare e oggettificazione si sono specializzati e diffusi, specialmente nella locuzione oggettificazione sessuale, nella nuova accezione di ‘considerare una persona, di solito una donna, come oggetto’. Successivamente, il significato più recente è stato esteso a oggettivare e oggettivazione, che tuttavia hanno continuato a essere usati anche con il loro valore originario; questo, a sua volta, è stato anche mantenuto, sia pure con minor frequenza, per oggettificare e oggettificazione: da ciò gli scambi e gli incroci di significato segnalati nel secondo dei due quesiti qui esaminati.

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