DOI 10.35948/2532-9006/2023.29039
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Molti lettori ci chiedono di fare chiarezza sulla parola papero: quale animale indichi di preciso, quali ne siano l’etimologia e la storia, se sia una parola di origine toscana; inoltre i lettori si interrogano anche su questioni di carattere morfologico, ossia sull’accettabilità delle forme paparo, anitra ‘anatra’ e dell’insolito plurale anatri.
Chi ha la curiosità di scorrere con lo sguardo i rami in cui secondo la tassonomia zoologica si articolano l’ordine degli Anseriformi e, sotto di esso, la famiglia degli Anàtidi, si trova davanti una piccola foresta terminologica. Solo gli Anatidi comprendono cinque sottofamiglie, molte tribù e ancor più abbondanti generi, per un totale di circa centocinquanta specie di volatili: tra queste si contano molte anatre, concentrate nell’albero classificatorio al di sotto della sottofamiglia delle Anatinae, e molte oche, in maggioranza nella sottofamiglia delle Anserinae. Il quadro, già così piuttosto articolato, si complica quando dalla classificazione latina riemergiamo alla superficie linguistica della nomenclatura italiana, dove troviamo, fra le Anserinae, anche volatili che in italiano chiamiamo anatre, e fra le Anatinae volatili che chiamiamo oche. E in questa moltitudine di uccelli dai becchi colorati, dai piumaggi curiosi, diffusi nelle più diverse zone del mondo, uccelli che a volte è solo per corrispondenza onomastica che ci ricordano di essere anatre e oche, troviamo naturalmente specie che già a partire dal nome segnalano quanto sia complesso l’insieme di animali a cui ci riferiamo: cigni, dendrocigne, gobbi, casarche, volpoche, morette, edredoni, orchi, quattrocchi, pesciaiole, smerghi, alzavole, moriglioni, fischioni, codoni, germani.
Quello che ci interessa qui, tuttavia, non è l’esuberanza cui l’evoluzione ha consegnato la realtà zoologica, ma la questione linguistica di come i nomi che normalmente usiamo vi si attagliano. E, a questo proposito, su una cosa possiamo fare subito chiarezza: al termine di nessun ramo di questo albero troviamo un nome italiano che contenga al suo interno la parola papero (o il femminile papera).
Se ci limitiamo alle specie domestiche, ossia a quelle che possiamo trovare nei cortili delle nostre campagne e negli allevamenti, da una parte abbiamo le anatre, che in questo caso discendono quasi tutte da due specie selvatiche: la Chairina moschata, che ha dato origine all'anatra di Barberia (detta anche anatra muta o muschiata), e l’Anas platyrhynchos, Germano reale o anatra selvatica, da cui discendono le altre anatre domestiche: di piumaggio variabile, comunemente conducono vita acquatica e presentano collo tozzo, becco piatto utile nella ricerca di cibo in acqua, zampe corte e palmate, spiccato dimorfismo sessuale (ossia, in individui della stessa specie, caratteristiche morfologiche diverse a seconda del sesso). Dall’altra parte, troviamo le oche: tra le domestiche più comuni ci sono l’oca di Tolosa, grigia cenere, l’oca romagnola, bianca, l’oca padovana, grigia scura, ecc. Si riconoscono perché hanno collo e zampe più lunghi delle anatre, corpo più grosso, becco robusto atto a strappare l’erba, sono più propense alla vita terricola e non presentano, o presentano in misura minore rispetto alle anatre, dimorfismo sessuale. Esclusivamente anatre e oche: eppure molti parlanti italiani, magari digiuni di queste distinzioni tecniche, cercherebbero tra questi animali i referenti della parola papero (o papera), scegliendo indifferentemente tra le varie specie.
Di quanto appena detto si ha una conferma sfogliando le carte dello Sprach- und Sachatlas Italiens und der Südschweiz, atlante linguistico dialettologico in Italia conosciuto come Atlante italo-svizzero – AIS (1928-1940), dove papero e le sue varianti compaiono sia nella carta 1149 (dedicata ai modi locali di chiamare l’oca) sia nella 1150 (che mappa i nomi dell’anatra). In particolare, papero (o secondo il vocalismo locale paparo) ‘oca’ è attestata in certe zone della Toscana (specialmente in una fascia centrale che va dal Mugello alle Colline Metallifere, passando per Firenze, il Chianti, la Valdelsa), il tipo paperone (non direttamente attestato) si registra nelle varianti paparone e babaruni in Umbria e nel Lazio orientale, papera nell’Italia centrale e meridionale (Umbria e Lazio del sud, Marche e da lì in tutto il Meridione peninsulare, dove la variante maggioritaria sembra essere papara). Anche in Sicilia orientale si rilevano le forme papara e papira, che sempre intendono ‘oca’. Ma anche per ‘anatra’ è attestato il tipo papera, e in particolare le forme papara, paparella (sud delle Marche, Abruzzo, nord della Puglia, Campania costiera, nord della Calabria, Sicilia orientale), babara (Lazio orientale) e papaìna (tra Liguria e Toscana).
La possibilità di chiamare papero o papera sia l’oca sia l’anatra è confermata dai risultati della ricerca semplice nel web, dove sono molti a domandarsi quale sia la differenza specifica tra un’oca, un’anatra e un papero (o una papera) e molti a spiegarla (su blog, forum e siti specializzati), dichiarando in qualche caso che comunque
Chi mi conosce sa che io amo generalizzare e le chiamo tutte affettuosamente papere, sia che si tratti di anatre, sia che si tratti di oche. (Blog Mondopapera, 20/3/2010)
Oltre alle numerose richieste di disambiguazione, che a volte sfociano in veri e proprio dibattiti terminologici, la ricerca per “papero” restituisce anche immagini, tra le quali tuttavia le anatre e le oche si trovano felicemente confuse, e convivono insieme ad alcuni personaggi dei fumetti e del cinema assimilabili ora alle une, ora alle altre. La rete, d’altra parte, non fa che rispecchiare il comportamento linguistico dei parlanti, che effettivamente ricorrono a papero e papera in contesti colloquiali e familiari, di registro medio e informale e in cui spesso, più che le precise caratteristiche del referente, a essere centrali nella comunicazione sono altri tratti (come la goffaggine, la rumorosità, l’ingordigia, la tenerezza, la simpatia: tutte caratteristiche che tendiamo ad attribuire ai paperi).
Proviamo a verificare guardando le caratteristiche di ciò che chiamiamo paperi e papere in italiano. Nella vasca da bagno nuotano paperelle di gomma: “nuotano”, appunto, come fanno, più che le oche, le anatre, con le quali i giocattoli galleggianti condividono il collo corto. In Papaveri e papere (1952) di Nilla Pizzi la protagonista è detta paperina ed è “piccolina” (ha le zampe corte come il papero suo padre, e come in genere le anatre) tanto da non arrivare a “pappare i papaveri” (anche se questo sembra piuttosto il cibo preferito dalle oche). La papera di Sergio Endrigo, invece, è goffa: fa “papere”, “si impapera”: “La papera sciocca fa sempre macelli / Vorrebbe volare come gli altri uccelli / Per cui è cascata in groppa al cavallo / Che l’ha scaricata su un paracarro”.
Nel Ballo del qua qua cantato da Romina Power (1981), è stato chiamato papero un protagonista che nella versione originale tedesca, Der Ententanz, era un’anatra (die Ente, tradotta poi in molte lingue e di volta in volta, per essere precisi, divenuta un’oca, un pollo, un angioletto ecc.). Sono paperi i personaggi creati da Walt Disney e dai suoi eredi: i nomi originali inglesi, che spesso contengono la parola duck, li specificano tendenzialmente come ‘anatre’ (animale a cui effettivamente somigliano di più): pensiamo a Paperino (Donald Duck), Paperon de’ Paperoni (Scrooge McDuck), Paperoga (Fethry Duck), Paperina (Daisy Duck), tutti quanti abitanti di Paperopoli (Duckburg). Ma, se ci affidiamo a quei nomi originali, troviamo anche oche, come Ciccio (Gus Goose, dove goose è ‘oca’), che effettivamente ha il collo lungo che la classificazione scientifica richiede, e Gastone (Gladstone Gander, essendo gander l’oca maschio), che invece continua a presentare tutti i tratti caratteristici dell’anatra, e persino fòlaghe (animali che hanno una certa somiglianza con le anatre, ma appartengono addirittura a un altro ordine zoologico) come Nonna Papera (Elvira Coot). Restando ancora nell’ambito dei fumetti, nell’universo Marvel italiano il personaggio di Howard the Duck, creato nel 1973 e in seguito, nel 1986, anche protagonista di un film, è stato chiamato papero (Orestolo il papero, poi Howard il papero) ed è decisamente simile a Paperino, dunque a un’anatra. Nella cinematografia italiana c’è un paperino anche nel titolo di uno dei film più famosi di Luigi Fulci, Non si sevizia un paperino (1972), paperino che qui compare come modo affettuoso di indicare un bambino o in generale una creatura tenera e inerme.
Saltando all’ambito culinario, in rete troviamo diverse ricette (spesso toscane, come gli Stracci sul papero) per cucinare il papero: e questo, quando specificato, è ora indicato come oca (per esempio in questa ricetta del Collo di papero ripieno, dove tra gli ingredienti leggiamo: “1 testa di papero (oca domestica giovane)”, COOK. Racconti di cucina, corriere.it, s. d.), ora come anatra (come in questo Papero in umido: “Il papero, anche detto anatra domestica, ha carni molto grasse…”, welcome2prato.it, 2/2/2007), e così via.
Nella lessicografia contemporanea
La coesistenza di due possibili referenti per papero e papera – l’oca e l’anatra, che forse potrebbero “fondersi” in uno solo per coloro che intendono per papera un’anatra dal piumaggio bianco come quello dell’oca – appare forse singolare se confrontata con le indicazioni del GRADIT, dove entrambi i termini sono contrassegnati dalla marca dell’“alta disponibilità” (AD), quella riservata ai vocaboli “relativamente rari nel parlare o scrivere” ma “ben noti perché legati ad atti e oggetti di grande rilevanza nella vita quotidiana”, che insieme a quelli fondamentali (FO) e a quelli di alto uso (AU) costituiscono il cosiddetto “vocabolario di base”. Evidentemente, il fatto che una parola risulti altamente familiare e accessibile ai parlanti non implica che chi la usa sia sempre capace di associarvi una rappresentazione mentale precisa (per esempio saper immaginare un papero in modo dettagliato e puntuale) né che sia in grado di identificarne il referente senza esitazioni e senza incoerenze.
Forse sorprenderà anche sapere che i vocabolari dell’uso, unanimi, escludono la possibilità che un papero sia un’anatra: nelle definizioni il referente indicato è sempre un’oca, e tendenzialmente un’oca giovane e, volendo, un esemplare maschio. Il GRADIT definisce appunto papero l’‘oca giovane, spec. maschio’, il Sabatini-Coletti ‘maschio giovane dell’oca domestica’, aggiungendo che talvolta la parola può essere usata anche nel senso di ‘oca adulta’; nel Devoto-Oli 2020 papero è ‘il maschio dell’oca’; nel Palazzi-Folena si aggiunge ‘o, in senso generico, oca’. La definizione appare consolidata da due modi di dire, che pur suonando desueti, ricorrono con una frequenza che non può non incuriosire (per esempio in tutte le edizioni dello Zingarelli, tra cui l’attuale 2023, nel Palazzi-Folena, nel Vocabolario Treccani online, nel Sabatini-Coletti, da cui riprendiamo le parafrasi): “buon papero e cattiva oca” che indica “chi, pur promettendo bene da giovane, si è guastato crescendo” e “i paperi menano a bere le oche”, ossia “quelli che meno sanno pretendono di insegnare a chi ne sa di più”, dando per presupposto che il papero sia l’individuo giovane e l’oca l’individuo adulto dello stesso animale.
Al significato letterale i vocabolari aggiungono talvolta qualche nota riguardante l’uso esteso: per esempio, secondo il Devoto-Oli papero è usato “per lo più con allusione ai particolari più vistosi dell’aspetto e del comportamento”, e “anche con senso fig[urato]”, come nella locuzione camminare a papero (‘in modo goffo’), nota che diventa talvolta, così nel GRADIT, un’accezione a sé stante: “2. (fig.) uomo sciocco”. Il Devoto-Oli conferma l’indicazione segnalando i sinonimi “persona stupida, persona insulsa, sciocco, tonto, insulso, inetto”. Svariati gli alterati riportati: i diminutivi paperello, paperetto, paperino, paperotto, paperottolo, paperuccio, l’accrescitivo paperone e il peggiorativo paperaccio.
La prima attestazione è datata sec. XIII (Sabatini-Coletti, l’Etimologico); il GRADIT e il Garzanti precisano “1293”, lo Zingarelli “1287”). Per quanto riguarda l’etimologia, se ne indica un’origine onomatopeica, che l’Etimologico e il DEI precisano essere già tardo-latina (papăru(m) ‘oca giovane’).
Più prodigo di informazioni il GDLI, che accanto al lemma segnala le varianti paparo e pappero e la definizione a cui siamo ormai avvezzi, ‘oca giovane, per lo più maschio. In senso generico: oca adulta, maschio o femmina’. Seguono svariati esempi d’uso letterari, dei quali riportiamo quello tratto dalle prediche di San Bernardino da Siena (1427), in cui un paparo è inequivocabilmente un’oca giovane:
Io so che tu sai che dell’oche si fanno le letta [cioè “i letti”, ndr]: sappi che elle si pelano ogni anno, e questo fanno per avere più piuma e mai non si pelano i papari. (San Bernardino da Siena, Le prediche volgari, a cura di P. Bargellini, Milano-Roma, Rizzoli, 1936, p. 762)
In molti dei contesti riportati papero è usato per alludere “al caratteristico modo di muoversi di tale animale, o, anche, alla sua tradizionale stupidità e goffaggine”, e compare in modi di dire come a papero ‘goffo, sgraziato’ e da papero ‘grossolano (un cibo)’. Riportiamo tre esempi, uno per ciascuno dei tre casi, il terzo risalente al XVI secolo:
Avrebbe spaccato cristalli, facce e teste, se tutti insieme non l’avessimo, a gran pena, immobilizzato, e quel pubblico imbecille non fosse scappato impaurito come un branco di paperi. (Ardengo Soffici, Ricordi di vita artistica e letteraria, in Opere, 6 voll., Firenze, 1959-1965, VI, p. 92)
Nel muovere verso il focolare, si vide che colui aveva fatta una strana andatura a papero, posando i piedi rigidi e piatti. (Riccardo Bacchelli, Il mulino del Po, Milano, Garzanti, 1947 [1a ed. 1938-1940], p. 320)
Che insalata da papari! che pane azimo! che vino stantio! che tovaglia lorda! (Pietro Aretino, Il Filosofo (1544), atto I, scena VI, in Id., Teatro, a cura di G. Petrocchi, Milano, Mondadori, 1971, p. 495)
Infine, il GDLI riporta anche un esempio (ancora tratto da Pietro Aretino) in cui papero, insieme ad altri nomi di volatili, è usato in senso osceno, in un’enumerazione eufemistica che, comicamente, evita di includere la parola uccello:
Parevati giusto, il mio papero, il mio cigno, il mio falcone, ... che la tua ninfa, la tua ancilla, la tua comedia, per una fiata non dovesse riporre il tuo naturale nella sua natura? (Pietro Aretino, Ragionamento della Nenna e della Antonia (1534), in Id., Sei giornate, a cura di G. Aquilecchia, Bari, Laterza, 1969, p. 27)
Il GDLI riporta anche accezioni secondarie, tra le quali citiamo le principali: ‘Figur. Persona ottusa, sprovveduta, sempliciotta, o anche meschina, spregevole’; ‘Region. Gioco infantile con le noci o le nocciole’.
In una entrata a sé stante i vocabolari contemporanei lemmatizzano papera, ancora senza sollevare la possibilità che il nome indichi anche altri Anatidi. Schematizzando, due sono le soluzioni adottate per definirla: una è quella di trattarla come il nome della femmina dello stesso animale (‘femmina del papero’, per esempio Sabatini-Coletti, Zingarelli 2023, o ‘oca femmina’, Devoto-Oli), l’altra è quella di non differenziare per genere, rimandando semplicemente da lì alla voce papero, come fa il GRADIT, oppure ripetendo la definizione in cui si valorizza il tratto della giovinezza (‘oca giovane’, sempre Sabatini-Coletti).
Anche la voce papera è corredata di alterati, modi di dire e riferimenti alla goffaggine: come una papera, a papera ‘in modo goffo’ e “anche in modo sciocco, frivolo, detto spec. di donna: parla come una papera” (Sabatini-Coletti), secondo un costume culturale che si auspica superato o in via di superamento, ma la cui solidità è confermata dal GDLI, che tra i significati estesi di papera fornisce anche ‘donna stupida e fatua’, certamente accostabile a quello simile che può assumere oca, e anche al senso figurato di un verbo come starnazzare (‘agitarsi, fare chiasso e confusione, riferito spec. a donne e ragazze’, Vocabolario Treccani online).
Come secondo significato, derivato probabilmente ancora dall’idea della goffaggine che all’animale si accompagna, per papera è riportato quello figurato di ‘errore involontario nel parlare nel parlare in pubblico’ (“fare, prendere una papera”), espressione attestata fin dalla metà del XIX secolo, oggi diffusa anche nel linguaggio calcistico, la storia e l’uso della quale sono già stati approfonditi su questo sito nella scheda di Marco Biffi.
Il GDLI, tra i vari esempi letterari dell’uso di papera, riporta anche un passo del Decameron, tradizionalmente ribattezzato Novella delle papere, che si trova nell’introduzione alle novelle della IV Giornata: Filippo Balducci, a seguito della perdita della moglie, si ritira a vita solitaria e ascetica e, pretendendo di educare il figlio con altrettanto rigidi principi, gli tace il nome delle donne, chiamandole “papere”. Così il padre scatena la risposta – innocente, ma capace di innescare il doppio senso erotico – del figlio: “Deh! Se vi cal di me, fate che noi ce ne meniamo una colà su di queste papere, e io le darò beccare”.
Nei vocabolari contemporanei troviamo inoltre lemmatizzate diverse parole della stessa famiglia lessicale, derivati di papero e papera nelle loro varie accezioni figurate (caratterizzate da un uso scherzoso o anche spregiativo), che confermano l’etichetta dell’alta disponibilità e la propensione all’uso esteso riconosciuta ai nostri termini. Ne riportiamo alcune dal GRADIT: come paperina (che oltre a essere il diminutivo di papera indica un particolare tipo di scarpe da donna), paperaio (‘gruppo di persone, spec. donne, chiassose, che si comportano in modo sciocco e ridicolo’), paperare (‘incedere con l'andatura goffa di un papero’), impaperarsi (‘imbrogliarsi nel parlare, fare delle papere’), paperazza (derivato del francese papier, con influsso scherzoso di papera, ‘scartoffia’). Alla voce paperino, che è usualmente registrato come il nome del personaggio Disney, troviamo anche la descrizione dell’effetto acustico che in fisica si chiama così:
effetto paperino: disturbo della ricezione del linguaggio parlato, per cui si percepisce un’anomala accelerazione della sequenza verbale e un tono stridulo della voce; si verifica quando la comunicazione avviene in presenza di un fluido in cui la velocità di propagazione del suono sia molto superiore a quella dell’aria, oppure quando si ascoltano parole riprodotte a velocità superiore a quella di registrazione; può essere anche un disturbo transitorio dell’emissione della voce, in chi respira miscele di ossigeno ed elio (p.e. i palombari). (Garzanti 2017)
Nella lessicografia storica
Per motivare meglio la scelta dei vocabolari contemporanei di circoscrivere all’oca, e in particolare all’oca giovane, il referente della parola papero, scelta che non sembra avere perfetta corrispondenza nella competenza odierna dei parlanti, possiamo volgere lo sguardo indietro nella tradizione lessicografica, ripercorrendo la storia della definizione. Iniziamo scorrendo a ritroso le molte edizioni dello Zingarelli dove comunque, con costanza e fin dalla prima (1917), troviamo confermata l’indicazione di ‘oca giovane’ per papero e di ‘papero’ per papera. In questa piccola rassegna editoriale, c’è però una differenza lessicografica di rilievo: fino all’undicesima edizione (1983) è papera il lemma principale sotto il quale si trovano nidificati papero e i vari alterati, e fino alla nona (1965) papera è definita anche semplicemente ‘oca’ (dunque senza il tratto della giovinezza), accezione segnalata come “nap[oletana]”. Ma queste scelte coinvolgono esclusivamente lo Zingarelli, quindi procediamo.
Possiamo spingerci ancora indietro, fino alla lessicografia ottocentesca. Nel Tommaseo-Bellini (1861-1879) papero è registrato come ‘oca giovane, non condotta ancora alla perfezione del suo crescimento’. La definizione ripete identica quella di molti precursori: i vocabolari di d’Alberti di Villanuova (1797-1805), Costa-Cardinali-Orioli (1819-1826), Cardinali (1827-1828), Carrer-Federici (1827-1830), Tramater (1829-1840), Fanfani (1855); il nucleo della definizione, ‘oca giovane’, si trova anche nei vocabolari Longhi-Toccagni (1851) e Petrocchi (che rispetto al Tommaseo-Bellini è successivo, 1892). Ricorrono in questi testi anche i proverbi già ricordati, talvolta con qualche minima differenza (per esempio il Tommaseo-Bellini aggiunge “Dare la lattuga in guardia a' paperi, o sim., vale Dare in guardia alcuna cosa a persona, da cui appunto bisognava guardarla”).
In questa compagine pressoché uniforme, le uniche eccezioni sono il Rigutini-Fanfani (1875) e il Giorgini-Broglio (1877-1897) (rispettivamente contemporaneo e successivo al Tommaseo-Bellini), che per papero riportano le curiosissime definizioni ‘animale del genere delle anatre e dell’oche, e che sta di mezzo a queste due per grossezza’ e ‘animale che sta tra le anatre e l’oche, di mezzana grossezza’: curiosissime perché indicanti una specie che di fatto non esiste (o che perlomeno non è scientificamente classificata), ma significative perché estratte da vocabolari compilati sulla lingua d’uso, e in particolare d’uso a Firenze.
La forma al femminile, papera, non sempre è lemmatizzata: la registrano Tommaseo-Bellini, Tramater, D’Alberti di Villanuova, Giorgini-Broglio, Petrocchi e Rigutini-Fanfani, tutti col significato base di ‘femmina del papero’ e, a volte, aggiungendo anche le accezioni di ‘donna buona a nulla’ (Tommaseo-Bellini, Petrocchi), ‘errore materiale nel dire o nel fare una cosa’ (Tommaseo-Bellini, Rigutini-Fanfani) o ‘errore madornale’ (Giorgini-Broglio), e semplicemente ‘fig[urato] per donna’ (Tommaseo-Bellini, riferendosi alla Novella delle papere di Boccaccio).
Nel Vocabolario degli Accademici della Crusca, la voce papero compare fin dalla prima impressione (1612) insieme al diminutivo paperino, e poi in tutte le successive, dove (dalla terza) è lemmatizzato anche l’alterato (qui: “accrescitivo”) paperotto. Papera non è mai messa a lemma (anche se la troviamo all’interno di qualche definizione, nei contesti letterari). In ogni caso, per quanto riguarda la voce papero, questa è la fonte di gran parte delle definizioni successive: la catena ereditaria è lampante, dato che le parole che la definiscono sono le medesime poi riportate della lessicografia ottocentesca (escluse le due eccezioni menzionate); e anche i proverbi di corredo, sopravvissuti fino alle ultime edizioni dei vocabolari contemporanei dell’uso, trovano qui la prima giustificazione. E dato che il Vocabolario degli Accademici è basato, più che sull’uso, sulle testimonianze letterarie, allora è lecito cercare in quelle la ragione di una definizione che oggi sembra lontana dalla competenza dei parlanti: infatti è in Boccaccio, e precisamente nella terza novella dell’ottava giornata del Decameron, che troviamo il principale “citato” di supporto alla definizione. Nel paese di Bengodi, insieme a molte altre meraviglie
… si legano le vigne con le salsicce e avevasi un'oca a denaio e un papero giunta […]. (Giovanni Boccaccio, Decameron, a cura di Vittore Branca, Torino, Einaudi, 1980, vol. I, p. 465)
In questo caso, un papero è l’omaggio (la giunta: nell’edizione Branca si legge in nota la precisazione “di giunta, per giunta”) che spetta a chi compra un’oca con un denaio (“la dodicesima parte di un soldo”, sempre in nota): quindi è plausibile che con papero si intenda un’oca più piccola, un’oca “in miniatura”.
Seguono il già citato contesto tratto dall’introduzione alla quarta giornata (in cui si parla di papere al femminile) e i tre proverbi ormai risaputi: “Dar la lattuga in guardia a’ paperi, che è il Latino ovem lupo committere, non essendo manco [cioè meno, ndr] ghiotto il papero della lattuga, che ’l lupo sia delle pecore”; “I paperi voglion menare a ber l’oche: si dice, quando un giovane vuole aggirare [ossia raggirare, ndr] un vecchio. Latin. Sus Minervam docet”; “Buon papero, e cattiva oca, e vale: buon da giovane, e tristo da vecchio”.
Le attestazioni antiche
Siamo finalmente in possesso di tutti gli elementi per giustificare la struttura e il contenuto della voce papero così come compare nei dizionari contemporanei. Una voce che, alla luce di questi dati, mostra la sua natura di “fossile” lessicografico, nel quale la definizione, ricalcando fedelmente i precedenti della tradizione, finisce col risultare in parte scollata dall’uso attuale, basato su una competenza ormai lacunosa dei parlanti (forse non più supportata da una cultura nella quale le distinzioni tra Anatidi sono salienti nella vita di tutti i giorni) e diluita in un uso vago e colloquiale, perlopiù legato a contesti affettivi, metaforici o ironici. Eppure conviene ancora farsi qualche domanda, chiedendoci per esempio se la competenza semantica di Boccaccio fosse condivisa dai suoi contemporanei e dai suoi predecessori. E se, per soddisfare questa curiosità, consultiamo il Corpus OVI, che raccoglie le migliaia di documenti dell’italiano antico necessari alla compilazione del TLIO (Tesoro della Lingua Italiana delle Origini), verifichiamo che la risposta è “non si può dire con sicurezza”. Il lessema papero e le sue varianti grafiche (ma non la forma femminile papera) sono ampiamente presenti nel corpus. Escludiamo subito i contesti in cui papero è un ‘sostenitore del papa’ oppure Papero è un nome proprio o un soprannome (e ugualmente un caso in cui paparo indica il ‘papavero’): dei rimanenti, molti lasciano la questione indecidibile, altri sembrano sicuri nell’identificare il papero con l’oca, altri con l’anatra. Nel contesto più antico, che compare in un libretto dei conti della famiglia Bencivenni che riguarda gli anni dal 1277-96, leggiamo in un’entrata datata 1293:
Ànne dato s. XXVJ e d. VIJ in mezzo aghosto, de’ quali avemmo da Cisti suo f. ciento quindici some di rena e per otto die che nn’atoe quando murai la chasa a llato a Chaferello, ragionando due s. il die, e sonci messi d. trentuno, che lli dovea avere d’uno tor. grosso quando ci cho[n]peroe i paperi nostri. (Libricciolo di crediti di Bene Bencivenni (Secondo), in Nuovi testi fiorentini del Dugento, a cura di Arrigo Castellani, Firenze, Sansoni, 1952, pp. 363-458: p. 438)
In queste righe, i paperi sono menzionati solo in quanto oggetto di una compera: riguardo ad essi il contesto non permette di sapere niente più che il nome.
Appare ugualmente sfuggente l’attestazione del Fiore (XIII secolo), volgarizzamento del Roman de la Rose attribuito, ma in maniera controversa, a Dante:
Que’ che vorrà campar del mi’ furore,
Ec[c]o qui preste le mie difensioni:
Grosse lamprede, o ver di gran salmoni
Aporti, [o] lucci, sanza far sentore.
La buona anguilla nonn è già peg[g]iore;
Alose o tinche o buoni storïoni,
Torte battute o tartere o fiadoni:
Queste son cose d’âquistar mi’ amore,
O s’e’ mi manda ancor grossi cavretti
O gran cappon’ di muda be·nodriti
O paperi novelli o coniglietti.
Da ch’e’ ci avrà di ta’ morse’ serviti,
No gli bisogna di far gran disdetti:
Dica che g[i]uoco, e giuoc’a tutti ’nviti.
(Il Fiore e il Detto d'Amore attribuibili a Dante Alighieri, a cura di Gianfranco Contini, Milano, Mondadori, 1984, pp. 2-467: 252, sonetto 125)
A parlare è la calunnia personificata, Falsembiante, che elenca le molte cose prelibate da cui si lascerebbe corrompere astenendosi dallo scatenare la sua furia distruttiva: tra queste dei paperi novelli. Di fronte alla specificazione novelli potremmo chiederci se l’autore abbia voluto semplicemente essere ridondante, sapendo che un papero è un’oca giovane (e dunque, appunto, nuova), oppure se il significato della parola a questa altezza temporale tollerasse un uso ampio, e potesse indicare anche un animale adulto. Nessuna indicazione, come nel caso precedente, ci permette di decidere se si intendano i paperi-oche o i paperi-anatre.
Lo Statuto della gabella e dei passaggi dalle porte della città di Siena, datato 1301-1303, aggiunge informazioni, ma ancora non disambigua. Il testo fornisce nell’elenco delle imposte corrispondenti a merci e altri oggetti (in questo caso animali) portati dentro e fuori dalla città. Qui apprendiamo che il trasporto di un papero (paparo) costava un denaio, quanto quello di “cappone o gallina”: quella stessa o è ripetuta nella disgiunzione successiva, “oca o papero”, che forse intende mettere l’oca e il papero nello stesso rapporto che c’è tra la gallina (femmina) e il cappone (maschio castrato), ma è seguita da una misteriosa altra precisazione (“o vero anatre”), che non lascia capire se il nome anatra alluda a un’altra specie ancora, oppure sia un modo per chiamare entrambi gli animali appena menzionati:
La soma de’ polli, oche, anatre, colombi e pipioni, XIJ denari kabella; et passagio XIJ denari. La soma de’ papari, IJ soldi kabella; et passagio IJ soldi. El paio de’ pollastri e colombi e pipioni, J denaio; et passagio J denaio. D’ogne cappone o gallina, oca o paparo, o vero anatre, J denaio kabella, (Statuti senesi scritti in volgare ne’ secoli XIII e XIV, vol. II, a cura di Luciano Banchi, Bologna, Romagnoli, 1871, pp. 3-71 [testo 3-46]: p. 23)
In un documento orvietano del 1312 (gli Statuti della Colletta del comune di Orvieto), nel quale ancora si stabilisce l’ammontare di alcune gabelle, l’anatra e il germano vengono distinti dall’oca, che invece sembra proprio della stessa specie del papero, al cui nome è associata ancora dalla disgiunzione over [ovvero]: “Per ciascuno cappone, galline, anatre, germano, ocha over paparo, all’entrata, III d.. Et all’exita, III d..” (Giuseppe Pardi, Gli Statuti della colletta del comune di Orvieto. Parte II. Codice N. 1, “Bollettino della Deputazione di Storia Patria per l'Umbria”, IV (1898), pp. 1-46 [testo pp. 20-37]: p. 29). In questo caso, non è possibile stabilire se quell’over sia un modo per dirci che oca e papero sono due modi diversi di chiamare lo stesso animale, maschio o femmina che sia, o voglia introdurre una distinzione di genere (oca = femmina; papero = maschio), distinzione che però per il caso delle galline e del cappone, di poco precedente, era stata espressa con una semplice virgola. Per chi fosse interessato ad approfondire i possibili valori della congiunzione ovvero, segnaliamo la scheda di Raffaella Setti.
La sinonimia oca = papero è confermata in un anonimo ricettario toscano del XIV secolo, che consiglia di cucinare l’animale come segue:
Taglia la gola al paparo, o occha; pelalo bene e bruscia; taglia i piei, cavali l'interiori, e lava bene; poi togli agresto, aglio - e se tali cose non puoi avere, togli erbe odorifere bagnate in aceto - e ricusci di sotto, e poni in spiedo, e arostilo; e se non fosse grasso, mettivi dentro del lardo. (Il libro de la cocina. Un ricettario tra Oriente e Occidente, a cura di Frankwalt Möhren, Heidelberg, Heidelberg University publishing, 2016, p. 154)
Eppure nel glossario del siciliano Angelo Senisio (1348) troviamo oca, papara e anatra indistintamente accostate. Qui, accanto ad altre parole lemmatizzate in volgare o in volgare latinizzato, e spiegate in latino (un latino medievale), troviamo “Anser eris... avis que vulgo dicitur papara vel anatra”, e cioè “Anser, -eris” (la desinenza indica la forma al genitivo, dove anser è il nome latino dell’oca) “uccello che in volgare è detto papara o anatra” (cfr. Augusto Marinoni, Dal «Declarus» di Angelo Senisio: i vocaboli siciliani, Palermo, Centro di studi filologici siciliani, 1955 [testo pp. 19-143]: p. 23).
In Toscana
È interessante soffermarsi anche sulla provenienza dei documenti che forniscono le prime attestazioni di papero (che non abbiamo citato che in minima parte), la maggioranza dei quali è di area toscana o centroitaliana, con eccezioni siciliane e napoletane che si contano sulle dita di una mano. Il dato è significativo alla luce del confronto con le altrettanto antiche attestazioni di oca (che nei testi delle origini è naturalmente presente anche in una serie di varianti grafiche: ocha, occha, oga, ogha) e di anatra (attestata anche come anera, anetra, anitra, annetra), che appaiono invece distribuite più uniformemente sul suolo italiano.
Effettivamente, tornando a considerare la lingua del Novecento, notiamo che la familiarità toscana con la parola papero appare ancora salda, anche se non sempre certa riguardo alla selezione del referente. Il Vocabolario del fiorentino contemporaneo, per esempio, lemmatizza papero (o paperone), definendolo ‘oca’ e confermandolo come parola di competenza regionale. Le trascrizioni delle inchieste agli informatori, riportate come esempi d’uso, sembrano accennare a una certa sicurezza nell’identificazione del referente, e ne riportano anche il sinonimo (qui segnalato come aretino) lòcio:
Veramente nell’aretino lo chiamano i’ lòcio. È una sorta di anatra? No no, i’ locio è... Sai... L’avete ma’ visti, quelli bianchi? (R.: un papero?) Brava, un papero. Un paperone. Lo chiaman locio, un paperone. // Ingozzare vuol dire mangiare a papero. Ingozzarsi. Mettere giù ni’ gózzo.
(R.: si dice ànatro per riferirsi al maschio dell’oca?) Noi si dice papero. // I’ lòcio l’è i’ papero. Lòcio lo chiamano a Arezzo, codesto. Maschio di’ papero, i’ lòcio. (R.: a Firenze come si dice?) Si chiama papero, noi. // (R.: la papera?) Sempre della razza dell’oche, che i’ un so distinguere dall’oca alla papera, per me son tutt’uguali. / I’ papero c’ha i’ collo più lungo. // Guadda che paperone!... Sì… ma l’è secondo (co)me ti viene. Son detti che l’è a secondo (co)me ti viene. Quando tu lo vedi, capito?
Sempre nelle parole degli informatori, appare meno certo il referente della forma femminile papera, che pure è messa a lemma nel vocabolario, non a caso col significato di ‘oca o anatra’:
Poi un la sapre’ nemmen riconoscere io un’oca da una papera. Icché c’è di differenza, dimmelo te? (R.: l’oca e la papera son la stessa cosa. Ma l’anatra?) E l’anatra? L’è la stessa cosa! Io penso di sì, eh! Io un mi riescirebbe distìnguilla, a me. Dall’anatra, dall’oca, dalla papera, son tutte lì […].
D’altra parte, lo stesso vocabolario raccoglie anche numerosi altri nomi ascrivibili agli Anatidi, nomi che rendono conto di una serie di distinzioni che non necessariamente si riscontrano nell’albero zoologico, e che anzi si giustappongono alla classificazione scientifica, ma che certamente risultano significative per i parlanti intervistati: oltre a lòcio, che è appunto il ‘maschio dell’oca’ e lòcia ‘femmina dell’oca’ ci sono anatrone ‘grossa anatra’, e nana ‘anatra’, che può essere chiacchierona (‘anatra che emette un verso’), muta o mùtola o fiòca (‘anatra che non emette alcun verso’) e germanata (‘anatra risultato di un incrocio fra anatra comune e germano’), tutte possibilità messe a lemma.
La nana l’è sempre l’anatra. (R.: Non è l’oca?) No, noi… di anatra un si distingue fra oca e anatra, capito? Noi si dice: L’è un’anatra… (R.: non si distingue?) No, pe noi son tutt’anatre. (R.: Cioè nane?) Nane, sì. Però noi nana [tono deciso], te lo dissi anche l’artra vorta mi sembra, nana l’è un detto nostro. Apito? // La nana l’è quella più bassa. Nana muta, anche. C’è quelle mute, che le son verdi, co i’ collo rosso, lì. I’ maschio.
Lòcia sarà la femmina di’ papero. Di’ lòcio.
Se dall’area fiorentina allarghiamo lo sguardo a tutta la regione sfogliando altri repertori dialettali, per gli Anatidi continuiamo a trovare diversi nomi in varianti differenti: òcio (altro esito possibile del latino auca ‘oca’, probabile retroformazione a partire dal plurale maschile oci), òco (entrambe diffuse prevalentemente in zone aretine, senesi, grossetane), lòcio (che si spiega come òcio ma considerando anche la concrezione dell’articolo [l’ocio], registrata anche in altre varianti formali [lòscio, lócio] e molto diffusa nell’aretino e nel fiorentino meridionale), nana (possibile esito della ripetizione della sillaba già presente nel nome latino dell’anatra, anas, e segnalata anche come voce di richiamo: nane nane!, diffusa in tutta la regione con l’eccezione delle zone più settentrionali).
Segnaliamo anche registrate, secondo i fonetismi locali, nella zona dell’Amiata lucio (cfr. Fatini 1953; ma la parola a Firenze e nella maggior parte della Toscana indica prevalentemente il tacchino) e lulo (ibidem), in Valdichiana ciùcio (anche nell’espressione mette a ciucio, ‘mettere a oca, sottomettere’, cfr. Felici 1985), a Prato mùtola (cfr. Petracchi 2015) e nel lucchese mùtora (cfr. Giangrandi 2013 e Gianni 2017), varianti di (anatra/nana) muta, nella provincia di Massa-Carrara andra e andròn (rispettivamente ‘anatra domestica’ e ‘maschio dell’anatra’, cfr. Vocabolario del dialetto di Filattieria, 2009), a sud, nella zona del monte Cetona ocarone (‘nome generico col quale si indicano uccelli palustri di lungo collo’, Barbanera 2010).
Non si smarrisce, tra queste alternative, la forma papero, che raramente è messa a lemma nei vocabolari dialettali della Toscana che non è Firenze (c’è per esempio in Vassalle 2008, lemmatizzata al plurale paperi ‘maschi delle oche domestiche’, e in Malagoli 1959, in cui sono lemmatizzate papera, paperini, paparini), ma che ricorre regolarmente in quegli stessi vocabolari all’interno delle definizioni di locio, ocio e oco, evidentemente considerata forma dell’italiano standard al pari di anatra, che è usata per definire nana. Citiamo qualche esempio. Il primo ci informa anche su usanze contadine vive tutt’oggi:
Nana, s.f. – Così è chiamata l’anatra nel contado fiorentino. […] Amiata, Arezzo, Cortona, Maremma, Montepulciano, Pisa, Siena.
Ocio, s.m. – Nel Valdarno fiorentino, ma anche nel Chianti e nel contado a sud di Firenze si chiama così il papero, che cucinato in umido costituisce il piatto tradizionale che si serviva in occasione della battitura del grano. “La cena sull’aia il cui piatto principale sarà il papero in umido, conosciuto come l’ocio” (La Nazione, 9 VII 2000). Amiata, Arezzo, Maremma, Montepulciano, Siena. (Alessandro Bencistà, Il vocabolario del vernacolo fiorentino e toscano, Livorno, Sarnus, 2012)
Altri ci regalano ancora nuove distinzioni e identificazioni zoologiche:
òa, oca selvatica; quella domestica si chiama papero. (Vittorio Marchi, Lessico del livornese con finestra aperta sul bagitto, Livorno, Belforte editore libraio, 1993)
nana: Voce con la quale le massaie chiamano le anatre: Nane! Nane! Nell’aretino, con nana si intende invece, il papero: S’ammazza la nana. (Guido Guidi, Nuovo dizionario pisano, Pisa, Editrice Goliardica, 1993)
lucio, sost.m.: tacchino, e anche, per alcuni, pàpero. Forse così si chiamò prima il pàpero, poi, quando nel sec. XVI fu introdotto in Europa il tacchino, il nome fu esteso anche a questo. Dim. lucino (Giuseppe Malagoli, Vocabolario pisano, Firenze, presso l’Accademia della Crusca, 1959)
Per fare ordine in questo groviglio possiamo affidarci anche all’Atlante Lessicale Toscano (Alt-web). Dalle carte apprezziamo una diffusione pressoché uniforme su tutto il territorio regionale di papero: gli informatori lo identificano prevalentemente con l’oca, ma in certe zone sembra usato anche come sinonimo di anatra (in particolare nelle aree a nord e a sud della regione, che lasciano libera la fascia centrale occupata da Firenze, Chianti, Valdelsa e Colline metallifere già individuata dall’AIS come sicura nell’uso di papero per ‘oca’).
papero ‘oca’:
papero ‘anatra’:
Simile, quanto a diffusione e distribuzione in base alla diversa scelta del referente, la situazione di papera. Troviamo nana ‘anatra’ localizzata in tutta la regione, a eccezione delle zone più settentrionali vicine alla Liguria (dove infatti i repertori dialettali segnalavano la forma andra), e ocio e locio (nel senso di ‘oca’) localizzate prevalentemente nelle province di Arezzo, Siena e Grosseto (locio, collocabile lievemente più a nord, compare anche nella provincia di Firenze):
nana:
ocio:
locio:
Per concludere
In questa carrellata si sono intrecciate diverse questioni. Innanzitutto, per quanto riguarda il referente dei nomi papero e papera, si è visto come non sempre l’uso confermi l’indicazione dei dizionari: nelle aree geografiche che abbiamo guardato, così come lungo l’arco temporale che abbiamo percorso, l’oca e l’anatra sono entrambi referenti possibili, alternativamente testimoniati; in alcuni casi se ne è registrata la coesistenza, e a volte addirittura la confusione (come nel caso della comparsa di una fantomatica terza specie nei vocabolari ottocenteschi più attenti all’uso). Altra questione, quella della differenza tra papero e papera, che abbiamo visto essere rilevante da un punto di vista dialettologico (e che ha fornito ulteriori chiavi per l’identificazione del referente), ma che può essere letta anche, guardando alla lingua nazionale e all’analisi dei documenti storici e dei vocabolari, in relazione a un progressivo indebolimento del tratto semantico della giovinezza di papero (il significato di ‘oca giovane’ sembra più saldo nelle attestazioni antiche che nell’uso attuale) e alla messa a lemma di papera nella lessicografia, avvenuta nel corso dell’Ottocento (la papera come femmina del papero, secondo la regolare attribuzione del genere grammaticale che avviene per molti altri animali, nella quale il papero finisce dunque per riferirsi alla sola oca maschio).
La questione, come ci hanno chiesto i lettori, può essere affrontata anche dal punto di vista formale: certamente dai punti di vista storico e geografico è possibile rilevare molti nomi di Anatidi, declinati in numerosissime varianti. Molte di esse appaiono desuete o di competenza locale, e infatti non sono registrate nei vocabolari. Un esempio è il plurale anatri che ha scatenato il dubbio di un lettore, di cui – lo citiamo per pura curiosità intellettuale – siamo riusciti a reperire una solitaria attestazione in un documento volgare siciliano del XIV secolo (Il Thesaurus pauperum, oggi pubblicato in Il «Thesaurus pauperum» in volgare siciliano, a cura di Stefano Rapisarda, Palermo, Centro di studi filologici e linguistici siciliani, 2001, cap. 250), ma che oggi appare certamente sconsigliabile. Le uniche eccezioni sono anitra, che nei vocabolari contemporanei è registrata come alternativa (regolare ma minoritaria) di anatra, e paparo, segnalato però soltanto dal GDLI (in relazione alle fonti letterarie lì adoperate) e legato a usi locali.
Nota bibliografica:
Per la lessicografia ottocentesca:
Per i repertori dialettali: