DOI 10.35948/2532-9006/2021.14649
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La casalinga di Voghera è stata senza dubbio un gran personaggio degli ultimi vent'anni del passato secolo. Fior di intellettuali se ne disputavano la paternità. Nanni Moretti si ispirava a lei per una battuta di un suo film. Oreste del Buono se ne serviva nella sua rubrica del Lunedì sulla “Stampa”. Beniamino Placido mandava la casalinga all’attacco di Bruno Vespa, con il plauso di Miriam Mafai (“la Repubblica" del 13 agosto del 1985): "La ormai famosissima casalinga di Voghera, dietro la quale si è fatto scudo Beniamino Placido per la sua polemica contro Bruno Vespa, si è fatta sentire a Repubblica…”. Quasi quasi la sineddoche prendeva corpo, esisteva per davvero come individuo pensante e vivente. Il 9 dicembre del 1993 il “Corriere della Sera”, pagina 12, annunciava trionfalmente l'ingresso della casalinga di Voghera in un dizionario, seppure settoriale: il Dizionario dei termini giuridici di Germano Palmieri, Edito dalla BUR (oggi è anche registrata nello Zingarelli). La casalinga di Voghera la faceva da padrona nei corsi avanzati di giornalismo, dove si studiavano le tecniche per raggiungere il pubblico più recondito. Umberto Eco, fin dal 1971, nel saggio Guida all'interpretazione del linguaggio giornalistico, aveva parlato del sondaggio della Rai sulla (mancata) comprensione di parole importanti nella vita sociale da parte del pubblico: parole quali scrutinio, crisi di governo, promulgazione di una legge ecc. Com’è noto, stando al racconto di Eco, il peggior risultato era stato proprio quello di un gruppo selezionato di casalinghe di Voghera, che avevano compreso solo il 26% delle parole proposte, e avevano mancato tutte le altre. Ancora nel 1975, Mario De Angelis, su “Stampa sera”, commentava quell’intervento di Umberto Eco. Frattanto la casalinga di Voghera doveva aver frequentato le scuole serali, e non risultava più così ignorante, almeno stando alla poesia pubblicata da Alberto Arbasino sulla “Stampa” del 27 aprile 2001: "La casalinga di Voghera / in attesa della corriera / con le sataniste di Mortara / e i fidanzatini di Novara / quando scende il tiggì della sera / sul cavalcavia di Cava Manara / rilegge Montale: Occasioni e Bufera". Ancora: nel 2000, la casalinga di Voghera aveva intrigato Aldo Grasso, che ne parlava collegandola a Nanni Moretti, Beniamino Placido, Umberto Eco. Sull’onda del successo, si costituì persino un gruppo di casalinghe di Voghera, e la trasmissione “Il treno dei Desideri”, che andava in onda su RAI 1, donò alla locale associazione una statua, nel 2006. Oggi quella figura in vetroresina, che brandisce minacciosamente uno spolverino, è finita in uno scantinato, sul viale del tramonto, perché è evidente la carica discriminatoria dell'espressione usata per indicare un pubblico poco colto, disarmato di fronte al linguaggio criptico della burocrazia e della politica, incapace di intendere termini tecnici necessari per una consapevole vita sociale. L’espressione, sineddoche o no, appare discriminatoria, per le donne, e anche per quella cittadina della provincia italiana. Perché proprio quella (per quanto la spiegazione di Umberto Eco sul sondaggio della Rai una motivazione la suggerisca)? Pare comunque che l’espressione stia oggi andando pian piano in disuso, e risulta che sia stata condannata da gruppi femministi. Altro che statua!
Eppure quell'espressione brillante piaceva, come abbiamo visto: appariva efficace ed originale per riflettere sui problemi della comunicazione, per mettere in luce uno scarto di comprensione e di linguaggio che la società civile doveva superare. Svolse dunque una funzione educativa contro gli effetti deleteri dell’oscurità nella comunicazione, allora molto temuta, prima che i social dessero l’impressione di poter chiarire tutto per tutti. Oggi un intellettuale progressista starebbe bene attento nel coniare un'espressione del genere, che potrebbe costargli un mare di guai. Persino nella fortuna o sfortuna di una sineddoche si può cogliere il profondo cambiamento di quello che potremmo definire ‘lo spirito dei tempi’.
Questo pensavo, leggendo ieri 30 novembre l'intervento durissimo del “Corriere della Sera” di Francesco Battistini (Se l’Europa boccia l’uso delle parole «Natale» e «Maria») contro i suggerimenti della Commissione Europea a proposito di una serie di censure linguistiche indicate in una circolare interna molto discutibile, se non stravagante. L'intervento critico, di aperta rivolta, del “Corriere della Sera” contro questi divieti, messi ampiamente in ridicolo, non è stato il solo. La protesta ha attraversato tutta l’Europa, se il giorno successivo le stesse fonti dell'Unione Europea hanno annunciato che il prontuario del politicamente corretto ideato dalla Commissaria all'Uguaglianza, Helena Dalli, era stato precipitosamente ritirato, con una certa irritazione, pare, di Ursula von der Leyen. Non definitivamente, però, ma solo per un po’, “perché i tempi non sono ancora maturi”. Prepariamoci dunque al secondo round. In ogni modo, oggi, 1 dicembre 2021, Francesco Battistini sul "Corriere", giustamente, canta vittoria: “non è stata una grande idea preferire gli auguri di Buone Feste al Buon Natale, per non offendere ebrei e musulmani; disincentivare l’uso di nomi troppo cristiani, tipo Giovanni e Maria; evitare il signore e signori, per non turbare le categorie deboli; cancellare la parola ‘colonizzare’, sempre e comunque, si tratti anche di colonialismo su Marte…”. E Antonio Scurati, nella stessa pagina, avvisa: “Smettiamola di ingannarci: la libertà non nasce dalla repressione di noi stessi”.
Da un po' di tempo si affollano sulla lingua, anzi sulle lingue, tentativi di riforma sempre più aggressivi, ispirati alla cultura della cancellazione, alla correzione di presunti elementi di offesa e discriminazione. Queste accuse crescono a vista d’occhio, ampliando il tentativo di ripulire la lingua per restituircela limpida, strumento finalmente adeguato a un’umana convivenza in pace e amore. L’unico difetto, in prospettiva, temo sia poi la fatica di utilizzare quella medesima lingua mediante il corposo manuale dei divieti, un repertorio in cui è facile smarrire qualche dettaglio. Senza contare l’esito, nella comunicazione reale e quotidiana, di uno strumento ipercontrollato, sempre più scialbo, privato di storia, di sale e vivacità. Il rischio della condanna inquisitoriale è dietro l’angolo. Esiste pur sempre, deve esistere, una differenza tra la buona educazione, che insegna a moderare le parole a seconda del contesto e della situazione, e la censura preventiva, in base alla quale si decide che una serie di parole o di espressioni deve sparire dal vocabolario e non deve esistere più. Quest’ultimo atteggiamento può trasmodare in caccia alle streghe. Non a caso certe pagine di Orwell, un tempo considerate antidoto alla tirannia, oggi sono viste come un rischioso monopolio di conservatori pericolosi.
Ho l'impressione che molti suggerimenti relativi al parlare corretto, applicato a contesti in cui si invoca l’inclusività e l’inclusione, lascino invece intravedere una posizione eccessivamente autoritaria, quasi ci fosse l’intenzione di intimorire l'utente. La moltiplicazione dei tabù linguistici ci avvicina alla paralisi: già oggi ci sono ragazzini della scuola media che si fermano terrorizzati di fronte alle parole “vecchio” e “anziano” (questa era nell’elenco citato dal “Corriere”, tratto dal documento della Commissione Europea) per indicare un uomo raffigurato con il bastone, la barba e i capelli bianchi. Un tempo vecchio era anche sinonimo di saggezza, e si distingueva dal gradino successivo, quello della decrepitudine. La linguistica degli anni settanta ci ha insegnato che una buona comunicazione esige anche un certo grado di libertà rispetto alle norme e alla grammatica, e infatti l'autorevolezza di alcuni princìpi tradizionali è molto diminuita nel corso degli anni. Stiamo dunque attenti a non sostituire a quell’autorità grammaticale, che ha perso forza, una serie di nuove autorità legate a tabù e divieti. Tabù e divieti possono anche diminuire considerevolmente l'efficacia della comunicazione. Ciò non vuol dire che la volontà espressiva individuale non abbia limiti; ma c’è un rischio nel collocare troppi paletti. Un po’ di libertà serve comunque, e non siamo obbligati a parlare tutti allo stesso modo. Mettiamo dunque da parte la Casalinga di Voghera, che ha fatto il suo tempo, e tramonta da sola, perché le donne lavorano, non sono più casalinghe se non in minima parte; ma non dimentichiamo che i dati PIAAC 2013 collocano ancora gli italiani, donne e uomini, all’ultimo posto tra i paesi OCSE per la capacità di comprendere un testo (la famosa literacy a cui faccio spesso riferimento). Nella statistica, le donne stanno persino un po’ meglio degli uomini, ma tutti assieme, come popolo italiano, sempre ultimi siamo. Lo svantaggio, in ogni campo, richiede pur sempre una definizione. Non condividiamo l'idea che quando una cosa non ci piace, è brutta, o non risponde più ai principi dominanti del presente, per risolvere il problema basti cancellarla dal vocabolario.