DOI 10.35948/2532-9006/2023.29107
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Si intitola Fahrenheit 451 un romanzo di Ray Bradbury del 1953 (edito in Italia anche con il titolo Gli anni della fenice) che François Truffaut portò al cinema nel 1966. Ambientato in un imprecisato futuro, vi si rappresenta una società in cui leggere o possedere libri è considerato reato, per contrastare il quale un apposito corpo di vigili del fuoco si impegna a bruciare ogni tipo di scritto. Strani vigili del fuoco, appiccano gli incendi, non li spengono. In particolare danno fuoco alle case di coloro che hanno violato la legge perché detengono e nascondono libri, assolutamente illegali. Uno dei motti di questo corpo di vigili del fuoco dichiara: “Bruciare sempre, bruciare tutto. Il fuoco splende e il fuoco pulisce”. Il loro capitano così si rivolge a un milite modello, quando lo vede assalito da dubbi: “Stammi a sentire, Montag: a tutti noi, una volta nella carriera, viene la curiosità di sapere cosa c'è in questi libri; ci viene come una specie di smania, vero? Beh, dai retta a me, Montag, non c'è niente lì, i libri non hanno niente da dire!”.
La resistenza, nella orribile società di Fahrenheit 451, consiste nel mandare a memoria i libri: ciascun resistente legge più e più volte un intero volume, lo manda a memoria, lo ripete ad alta voce per non dimenticare neppure una parola. Così i libri, distrutti dalle fiamme, restano in vita nel cervello degli uomini, che trovano altri uomini a cui trasmetterli, perché la memoria non scompaia. Contro i libri si accaniscono le dittature e i regimi intolleranti. Negli anni Trenta, la Germania conobbe i roghi dei libri perpetrati dal regime nazista. Negli stessi anni e dopo in Unione Sovietica si sviluppò la campagna di repressione messa in atto da Stalin contro chiunque osasse manifestare il dissenso: spiriti indipendenti, intellettuali, poeti e scrittori, furono arrestati, imprigionati nei gulag, spesso giustiziati. Non ne siamo rimasti esenti neppure in Italia, durante il fascismo: esistono i filmati che documentano gli assalti delle camicie nere, le pile di libri rovesciati in strada e dati alle fiamme. In molte parti del mondo, ancor oggi, la censura si accanisce contro i libri e i loro autori, se esprimono idee contrarie a quelle dominanti.
La Biblioteca reale di Alessandria in Egitto fu la più grande e ricca biblioteca del mondo antico. Radunava libri scritti in varie lingue, moltissimi testi greci. Era gestita da un sovrintendente nominato direttamente dal re, un bibliotecario autorevole e coltissimo, in possesso di grandi conoscenze filologiche. Quel bibliotecario filologo dirigeva gruppi di grammatici esperti che avevano il compito di annotare e correggere i testi delle opere custodite. Qualcuno ha calcolato che i rotoli (i volumina) lì conservati fossero tra i 490.000 e i 700 000. Quella biblioteca subì danni gravissimi per cause diverse, in molte circostanze. Ma la distruzione non fu totale, alcuni libri bruciarono o si dispersero, altri si salvarono. Non sappiamo cosa si perse per sempre. Qualcuno ha osservato che se si fossero conservate settori diversi della biblioteca rispetto a quelli andati distrutti, probabilmente avremmo un’idea molto differente della cultura greca, conosceremmo altri nomi rispetto a quelli ora noti, e forse ignoreremmo (in tutto o in parte) quelli che oggi rappresentano per noi punti di riferimento ineliminabili e perenni. In ricordo di quella biblioteca antica è stata edificata, ed è in funzione dal 2002, la moderna Bibliotheca Alexandrina. Gesto apprezzabile. Che tuttavia non ci impedisce di ricordare le nefandezze del regime al potere (con cui le democrazie occidentali intrattengono intensi rapporti economici e commerciali), che assassina Giulio Regeni, incarcera, condanna e poi grazia Patrick Zaki, rinchiude nelle carceri migliaia di persone senza nome, colpevoli solo di dissentire.
Ogni volta che una biblioteca scompare è un danno per l’umanità. Nei primi secoli dello scorso millennio era fiorente la biblioteca di Càsole, vicino Otranto. Monaci colti erano impegnati nella raccolta e nella ricopiatura di codici greci, di epoca classica e di epoca bizantina. Grazie a quei monaci, che parlavano, scrivevano e leggevano il greco, una sezione imponente della cultura ellenistica è transitata dall’Oriente verso l’Occidente. La biblioteca di Càsole fu assaltata dai Turchi nel 1480-1481, durante i mesi del famoso sacco di Otranto. L’assalto turco a quella biblioteca accelerò in maniera drammatica il processo di decadenza della cultura greca scritta nel Salento. Oggi nulla di quello straordinario patrimonio librario è rimasto in sede. Per la distruzione operata dagli assaltanti, certo; ma anche per incuria dei locali, come tante volte è accaduto nella storia dei popoli meridionali, indifferenti alla sorte di quello che è loro. Quello che è sopravvissuto dei codici di Càsole si conserva altrove, in biblioteche italiane e anche all’estero. In massima parte nella romana Biblioteca Apostolica Vaticana e nella fiorentina Biblioteca Medicea Laurenziana, dove quei codici arrivarono a séguito di un viaggio in Salento e in Grecia fatto nel 1491 dal Lascaris, bibliotecario di Lorenzo il Magnifico, alla ricerca di codici per conto dei Medici.
Anche oggi assistiamo a fatti che inquietano. In alcune università si comprano pochi libri, “perché mancano i soldi”. E ci si chiede: come studieranno i disgraziati studenti di quelle università? E i professori, che per mestiere dovrebbero leggere di continuo? Per fortuna non mancano episodi di segno contrario, segni di dinamismo operante che lasciano ben sperare. Per citare solo episodi degli ultimi mesi, si moltiplicano in tutt’Italia i “Festival della lettura” (a volte anche “della lettura e dell’ascolto”): a Ivrea, a Mantova, a Empoli, a Napoli, e in decine di altre località, nei contesti più diversi. A Foggia, città che non è solo criminalità diffusa, si svolge un “Festival di letteratura per ragazzi” intitolato “Buck Festival” (si, proprio così, “Buck”, non “Book”). A Cerignola, località per certi versi difficile, si organizza un “Premio Letterario Nazionale Nicola Zingarelli”, in cui si premiano linguisti e filologi e si coinvolgono i ragazzi delle scuole in gare di scrittura. Segnali, forse, di un’inversione di tendenza in grado di combattere la grave malattia che affligge l’Italia intera: livelli di lettura troppo bassi rispetto ai quali occorre mettere in campo ogni sforzo di miglioramento. Ogni anno a ottobre si svolge la Fiera del Libro di Francoforte, la più grande del mondo. Nel 2024 l'Ehrengast (‘ospite d'onore’) della Fiera sarà l’Italia. Sarà l’occasione per far conoscere al mondo i dati oggettivi che documentano la vitalità della cultura editoriale del nostro paese, in grado di far defluite mille rivoli da quel centro mondiale. A partire, magari, da uno stand specifico dedicato ai libri delle prestigiose Accademie italiane, la Crusca, i Lincei e altre di primo piano.
Non siamo nati per scrivere e leggere, ma siamo dotati di un cervello che è capace di formidabili adattamenti. L’uomo ha imparato a parlare forse da 150-180.000 anni. Da un periodo molto più limitato, più o meno da 5.500 o 6.000 anni, ha inventato la scrittura, quasi contemporaneamente e indipendentemente in due territori diversi, in Egitto e in Mesopotamia, la terra tra i fiumi Tigri ed Eufrate, corrispondente a parte di Siria e di Iraq, un tempo culla della civiltà a cui facciamo riferimento, oggi teatro di guerre e di atrocità di ogni genere che ci lasciano quasi sempre indifferenti. Invenzione geniale. Qualcuno riesce a inventare il sistema per tracciare con strumenti pratici (una pietra appuntita o altro oggetto adatto allo scopo) dei segni su un supporto in grado di fissarli (argilla, coccio, la parete di una grotta, ecc.). Qualcun altro è in grado di interpretare quei segni e di capirne il significato. Con questa invenzione meravigliosa vengono superati i limiti di spazio e di tempo connaturati alla fragilità umana: non più solo hic et nunc ‘qui e adesso’, come succede alla lingua orale.
I primi uomini in grado di scrivere e di leggere si saranno sentiti simili agli dei. Oggi pochi ci badano, scrivere e leggere non pare così importante. Nell’indifferenza generale, una sottosegretaria alla cultura (sì, alla cultura) può dichiarare: “Non leggo un libro da tre anni”. Aggiungendo candidamente: “Ora che mi dedicherò alla cultura magari andrò più al cinema e a teatro” (è in rete, basta cercare). Non tutti la pensano così, per fortuna. Non vogliamo rivivere l’ossessione che settant'anni fa generò Fahrenheit 451. I libri sono simbolo di civiltà, un popolo che si istruisce, che legge (e riflette) non sarà preda di miraggi e di false promesse. L'incubo di Bradbury non si realizzerà, finché saremo vigili.