DOI 10.35948/2532-9006/2024.34297
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Varie lettrici chiedono conto dell’esistenza del verbo irrequietare, formato a partire da irrequieto nello stesso modo in cui inquietare è formato a partire da inquieto.
Il verbo irrequietare (o il pronominale irrequietarsi) in italiano non esiste, nel senso che tra i due sinonimi inquieto (dal latino inquietus, formato da in- indicante privazione, assenza, e quietus, participio passato di quiesco, molto usato come aggettivo già in latino) e irrequieto (latino irrequietus, formato con lo stesso prefisso più requietus, participio passato del verbo requiesco, molto meno usato come aggettivo), il primo è impiegato già nell’italiano antico come base per la formazione di vari derivati e composti.
Il fatto che occasionalmente qualcuno possa averlo impiegato (ad esempio, lo storico della letteratura italiana Marco Ariani in un suo saggio sul poeta meridionale Galeazzo di Tarsia, pubblicato nel 1981: La scrittura e l’immaginario, Padova, Liviana, p. 62, dove si parla di “morsure successive, che irrequietano e tormentano una materia semantica tra le più petrarchescamente risapute”: occorrenza ritrovata grazie a Google libri) non significa che questo verbo sia davvero acclimato nel lessico italiano.
Quietus è una parola che sopravvive probabilmente senza soluzione di continuità nel passaggio dal latino alle lingue romanze, dove compare anche in forme adattate alla fonetica di lingue e dialetti locali (si pensi alla forma toscana cheto, che mostra un adattamento popolare della base latina). Non è strano che da esso si siano sviluppati i vari derivati e composti che, in alcuni casi presenti già in latino, hanno comunque continuato a avere piena vitalità nelle lingue romanze.
Se si apre il Tesoro della lingua italiana delle origini (TLIO), consultabile in rete, si osserva che non solo l’aggettivo inquieto (nella forma inkuetu) si trova già nell’antica Formula di confessione siciliana del secolo XIII, ma che i testi italiani anteriori alla fine del Trecento attestano già vari ulteriori derivati, come inquietamente, inquietamento, inquietazione, inquietévole, inquietùdine. Il verbo inquietare (che esiste già in latino, a differenza di irrequietare, non attestato nemmeno nella lingua antica) è formato appunto a partire dall’aggettivo inquieto ed è attestato più volte nel Libro de’ Vizi e delle Virtudi di Bono Giamboni, datato 1292. Insomma, davanti alla discendenza lessicale del latino inquietus, si ha l’impressione di una parola di vasto uso e, come si dice, di disponibilità piuttosto ampia tra i parlanti: una parola comune, ben comprensibile e ben analizzabile nella sua struttura (simile a quella di inutile, incapace, incerto, e così via).
Lo stesso quadro non si ripresenta per requiesco, requietus, irrequietus; quest’ultima parola mostra un doppio prefisso (in- e re- montati uno di seguito all’altro, come capita in poche altre parole, ad esempio in irredento, irreprensibile, ecc.) e ha un uso notevolmente più raro rispetto al suo equivalente, sia in latino sia poi in italiano. Esiste, è vero, un’isolata attestazione per il verbo requietare, in un volgarizzamento toscano di Ovidio risalente al 1375 e pubblicato da Erminia Ardissino nel 2001 presso la Commissione per i Testi di Lingua a Bologna (Ovidio Metamorphoseos Vulgare, p. 344). Ma la famiglia di requieto (compreso il derivato irrequieto) non ha al momento alcuna entrata nel TLIO di cui dicevamo sopra, e gli stessi vocabolari storici – come il Grande dizionario della lingua italiana GDLI fondato da Salvatore Battaglia – fanno pensare che questo aggettivo, raro anche in latino stando al Thesaurus linguae Latinae TLL, sia il frutto di un ripescaggio colto e occasionale di età umanistica (l’unica attestazione di requieto nel GDLI appena citato spetta a Leon Battista Alberti: un umanista, appunto).
In questa situazione, si capisce bene come il meccanismo della derivazione, che per la base quieto è (diremo per metafora) ben oliato, tanto da funzionare senza soluzione di continuità tra latino e volgare, non abbia invece agito per la base requieto, rimasta disponibile sì (come mostra il requietare trecentesco), ma di fatto non messa a partito da parlanti e scriventi nella storia dell’italiano, tanto da non figurare nei dizionari dell’uso dell’italiano contemporaneo.
L’occasionale sopravvivenza di irrequieto, pure riportato in auge dalle mode latineggianti del Quattro-Cinquecento, ha dato luogo in italiano a sviluppi piuttosto limitati (ad esempio, l’astratto irrequietezza e il raro avverbio irrequietamente, mentre solo Antonio Rosmini, stando allo stesso GDLI, si è spinto fino al recupero di irrequie corrispondente al latino irrequies, a sua volta rarissimo).
Irrequietare sarebbe, di per sé, una forma legittima dal punto di vista strettamente morfologico. Ma, come è capitato per tante parole che potrebbero esistere ma di fatto non si sono mai affermate nell’uso, la disponibilità e il corrente impiego di inquieto e inquietare non hanno aperto la strada a sviluppi ulteriori per una parola, irrequieto, rimasta ai margini. Ma la lingua, si sa, è irrequieta, cosicché il futuro di queste parole non può dirsi affatto segnato.