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Il morire e l’ordinamento giuridico. Riflessioni linguistiche sulle parole della scelta

  • Marco Biffi
SOTTOPOSTO A PEER REVIEW

DOI 10.35948/2532-9006/2020.3307

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La decisione di puntare il riflettore sulla parola scelta per svolgere il compito che mi è stato assegnato – vale a dire introdurre da un punto di vista linguistico un tema come “il morire e l’ordinamento giuridico” – merita una premessa. In questo intervento in realtà parlerò solo marginalmente della parola scelta; la maggior parte delle riflessioni sarà invece rivolta a una serie di parole che sono riconducibili alla sfera semantica della scelta; e anche all’assenza, alla debolezza delle parole riconducibili a scelta nella normativa che rivolge la propria attenzione al tema della malattia e della morte.

Studiare il lessico del diritto è interessante da molti punti di vista, anche da quello sociale e sociologico: il diritto mette sempre a fuoco linguisticamente i rapporti e le relazioni fra gli individui di una società, e pone anche l’attenzione su alcuni eventi biologici che in qualche modo li riguardano. E l’assenza di una parola nel diritto dà delle indicazioni molto importanti. Faccio soltanto un esempio, semplice e di facile riscontro per chiunque, a prescindere dalla propria formazione, dalle proprie competenze, dalla propria professione. La redazione del Servizio di Consulenza dell’Accademia della Crusca è subissata di richieste di persone che chiedono che l’Accademia conî un termine per chi rimane senza un figlio; perché la lingua italiana non ha una parola per esprimere questo concetto: in italiano, come nella stragrande maggioranza delle lingue del mondo, di ogni tempo e di ogni luogo, esiste una parola per indicare chi perde il genitore (orfano), ma non ce n’è una per indicare chi rimane privo del proprio figlio. E questa “orfanità” linguistica è intimamente legata anche al diritto, perché è condizione innaturale che la morte del figlio preceda quella del genitore, e dal momento che un simile nefasto evento non coinvolge, se non raramente, aspetti di eredità o di gestione di rapporti e legami dopo la morte, nel diritto non è stato necessario esprimere questa condizione. Al rigetto psicologico nei confronti della catastrofe, si è aggiunta la mancanza di una pressante necessità giuridica che questo rigetto avrebbe forzato a gestire1.

Quando mi è stato proposto il tema sono stato incerto se scegliere la parola libertà: pensandoci bene molto di quello a cui si può pensare a proposito delle scelte in relazione alla propria morte, può essere ricondotto alla parola libertà. Ma partire da libertà sarebbe stato inconcludente, perché in realtà nella società moderna tutto ciò che concerne la malattia – nei casi peggiori fino all’ultimo esito che è quello della morte – non prevede la libertà: è un campo in cui al massimo si possono fare delle scelte. Questa limitazione è totalmente legata alla società moderna: la morte (e la malattia, soprattutto nei casi in cui porta alla morte) dopo la pandemia di peste nera del 1347-1351 è stata assoggetta a regolamentazione, anche legislativa (e su questo mi limito a rimandare alle ancor oggi fondamentali pagine di Philippe Ariès2).

Scelta in italiano indica la ‘valutazione di ciò che può essere più conveniente o più opportuno fra due o più alternative’ (la definizione è quella del GRADIT, s.v. scelta, accezione 1a); quindi è chiaro che, declinandola sui temi di cui stiamo trattando, l’uomo moderno ha la libertà di fare una valutazione: ha la possibilità di scegliere tra opzioni, due o più, anche quando è malato, anche quando deve decidere come la sua malattia deve essere gestita, anche quando deve decidere cose più complesse e catastrofiche (come interrompere la propria vita, o quella di chi è chiamato a rappresentare, in condizioni del tutto particolari). E quello della scelta è il fulcro semantico attorno a cui si muove il diritto in materia. Tutto il lessico collegato è riconducibile in qualche modo a questa particolare condizione che vincola la scelta dell’individuo, sempre in costante dialogo – o scontro (ciascuno userà la parola che preferisce) – con il medico, con la sua professionalità e deontologia; e con la legge, e quindi con lo Stato. L’individuo non è mai completamente libero, ma è casomai in condizione di poter scegliere (e non lo è comunque completamente, perché non ha quasi mai le competenze e le conoscenze necessarie; e se le ha si trova ad esercitarle in una condizione di grande debolezza). Ma in ultima istanza la legge ha sempre l’ultima parola, come emerge anche dall’analisi delle parole da essa impiegate (scelte): parole che non lasciano mai completamente libero l’individuo, non dico nei casi estremi che comportino la propria morte, ma nemmeno semplicemente per quanto concerne la messa in opera e le modalità della cura.

A costo di sollevare il sospetto di un excusatio non petita devo premettere anche che non era facile trovare un taglio e una dimensione consona allo spazio stabilito per queste brevi riflessioni. Negli altri incontri di questo ciclo dedicato a “Il morire e la morte” dovevano essere messe linguisticamente a fuoco parole nette (morte, dignità, eutanasia). Nel caso dell’inquadramento di un tema come “morire e ordinamento giuridico” la materia era molto più sfuggente; e strabordante. Quindi quello che ho pensato di proporre è un piccolo esercizio per stimolare la riflessione, e la prima cosa che mi è venuta in mente per esplorare la sfera semantica relativa al dominio di scelta è stato cercare di documentarmi su un caso piuttosto famoso, quello di Eluana Englaro, per tentare un’analisi delle parole che sono state utilizzate nelle sentenze, nei giudizi, nella cronaca. Ma già muovendo i primi passi mi sono imbattuto, come era naturale e necessario, nel testo della legge 219 del 22 dicembre del 2017, comunemente nota come “Legge del testamento biologico”. La legge 219 per altro è forse (e neanche troppo forse) una conseguenza diretta della vicenda, perché – sebbene il caso specifico abbia assunto forza certamente anche in virtù di storie analoghe – l’iter giudiziario, passando attraverso tutti i gradi di giudizio, finì per investire anche il sistema legislativo. Dopo che la Corte Costituzionale nel 2008 si era pronunciata nella direzione della richiesta del padre di interrompere il trattamento di idratazione e alimentazione forzata che manteneva in vita Eluana in stato vegetativo permanente dal 1992, lo Stato provò fino alla fine a opporsi, addirittura con il tentativo di un disegno di legge. La legge non fu varata semplicemente perché Eluana morì prima che il testo potesse essere approvato in Parlamento, e fu quindi ritirata; ma ormai si era innescato un processo irreversibile che ha poi portato alla legge 219 quale oggi la conosciamo3.

La lettura della “Legge del testamento biologico” mi ha decisamente indirizzato a incentrare invece l’esercizio sull’analisi lessicale di questo testo, che si presta molto bene a riflessioni linguistiche sul reale significato di scelta in questo particolare contesto.

Il fulcro della legge è la relazione di cura e di fiducia (articolo 1, comma 2), vale a dire un costante e continuo rapporto tra medico e paziente: il medico ha il dovere di informare; il paziente ha la possibilità di ascoltare, per essere consapevole di quello che viene proposto dal medico e, conseguentemente, scegliere.

La parola scelta compare soltanto 3 volte nel testo, per altro non particolarmente lungo, della legge. Ma è interessante verificare in quali contesti:

La persona minore di età o incapace […] Deve ricevere informazioni sulle scelte relative alla propria salute in modo consono alle sue capacità per essere messa nelle condizioni di esprimere la sua volontà (Art. 3, comma 1).

Ogni persona maggiorenne e capace di intendere e di volere, in previsione di un’eventuale futura incapacità di autodeterminarsi e dopo avere acquisito adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle sue scelte, può, attraverso le DAT, esprimere le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari, nonché il consenso o il rifiuto rispetto ad accertamenti diagnostici o scelte terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari (Art. 4, comma 1).

Nel primo caso (e si sta parlando di minori o incapaci, oggetto dell’articolo 3) le scelte sono proposte alternative del medico relative alla salute degli interessati, e la parola ha qui il significato di ‘ciascuna delle soluzioni che possono essere scelte’; anche se, va detto, segue comunque l’espressione di una volontà (parola che nel suo primo significato indica la ‘capacità di volere’, la ‘facoltà di decidere consapevolmente il proprio comportamento per raggiungere un determinato fine’; entrambe le definizioni sono tratte anche in questo caso dal GRADIT, rispettivamente s.vv. scelta, accezione 2a, e volontà, accezione 1).

Nella prima occorrenza dell’articolo 4 invece scelta è parola che non corrisponde a un’opzione, ma a una decisione, da prendere però in maniera preventiva (con le DAT, Disposizioni Anticipate di Trattamento; e si noti che quando il testo si sofferma esplicitamente sul nodo “spinoso” della possibilità di esercitare una volontà, esso tende all’oscurità, con il tipico ricorso al tecnicismo, per giunta sotto forma di sigla). Nella seconda occorrenza dell’articolo 4 si ha invece scelta terapeutica, un tecnicismo polirematico che si riferisce a specifiche modalità di cura decise e/o prospettate da medici.

Accanto al sostantivo scelta possiamo affiancare un’occorrenza del verbo scegliere, che però è del tutto estranea alla nostra questione (si tratta di scegliere se dare copia delle DAT o dare indicazioni sul dove reperirle: "Le regioni che adottano modalità telematiche di gestione della cartella clinica o il fascicolo sanitario elettronico o altre modalità informatiche di gestione dei dati del singolo iscritto al Servizio sanitario nazionale possono, con proprio atto, regolamentare la raccolta di copia delle DAT, compresa l’indicazione del fiduciario, e il loro inserimento nella banca dati, lasciando comunque al firmatario la libertà di scegliere se darne copia o indicare dove esse siano reperibili", Articolo 4, comma 7).

Se può stupire che una parola-chiave come scelta compaia solo 3 volte, va detto che le cose sarebbero andate ancora peggio se avessimo puntato l’attenzione sulla parola libertà: una sola occorrenza in tutto il testo di legge, nel passo citato immediatamente sopra ("lasciando comunque al firmatario la libertà di scegliere se darne copia o indicare dove esse siano reperibili").

Altre parole riconducibili a scelta – lo si vede anche attraverso una rapida spigolatura del testo della legge – sono volontà, autonomia, autodeterminazione, consenso.

Autodeterminazione compare programmaticamente, come una sorta di manifesto, in un’unica occorrenza nel primo comma del primo articolo:

La presente legge, nel rispetto dei principi di cui agli articoli 2, 13 e 32 della Costituzione e degli articoli 1, 2 e 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, tutela il diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione della persona e stabilisce che nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge.

Anche autonomia ha un “peso” limitato: le uniche occorrenze sono autonomia decisionale del paziente, e autonomia professionale del medico. Da notare anche che il rapporto asimmetrico – che già di fatto caratterizza fortemente il rapporto paziente/medico – è ribadito anche a livello linguistico, quando il legislatore contrappone alla sola autonomia decisionale del paziente la pesante triade che il medico porta con sé:

È promossa e valorizzata la relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico che si basa sul consenso informato nel quale si incontrano l’autonomia decisionale del paziente e la competenza, l’autonomia professionale e la responsabilità del medico (Articolo 1, comma 2).

A ben vedere tutta la dinamica della scelta nella legge ruota intorno al consenso, che è parola assolutamente centrale. Più precisamente si tratta di un consenso libero e informato. La polirematica consenso informato compare fin dalla titolazione della legge: "Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento"; e compare immediatamente in apertura dell’articolato (come si vede nel sopracitato articolo 1, comma 2, è il fondamento del rapporto di cura e fiducia).

Il significato di consenso è ‘il permettere, il consentire’: quindi il paziente, di fronte al quadro che gli viene prospettato dal medico, acconsente, permette – o non acconsente, non permette – di fare qualcosa; ad esempio di sottoporsi a una specifica cura, che può migliorare la qualità della sua vita o che invece nella prospettiva del medico è quella che lo salva dalla morte. Consenso libero e informato non è libertà: è scelta, che comunque è fortemente vincolata perché può essere esercitata soltanto entro gli stretti confini previsti dalla legge, oltretutto da una legge – questa legge – che non chiarisce quali sono esattamente questi confini. Inserita nella prospettiva di un’architettura normativa tipica del nostro contesto giuridico, infatti, essa si colloca all’interno di un quadro complessivo di leggi che limitano/regolano e che determinano le azioni e i comportamenti. In qualunque momento quindi un’altra legge, a questa di corredo o che con questa dialoga, può cambiarne il senso ultimo: la clausola «tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge», che chiude il primo comma dell’articolo 1, introduce la possibilità di moltiplicare indefinitamente i casi in cui la legge restringe il dominio effettivo della scelta individuale, fino al limite estremo di annullarla di fatto.

Altre due parole fondamentali per delimitare i confini della scelta sono rifiuto e rinuncia. Il rifiuto può essere relativo all’informazione sulle condizioni cliniche:

Ogni persona ha il diritto di conoscere le proprie condizioni di salute e di essere informata in modo completo, aggiornato e a lei comprensibile riguardo alla diagnosi, alla prognosi, ai benefici e ai rischi degli accertamenti diagnostici e dei trattamenti sanitari indicati, nonché riguardo alle possibili alternative e alle conseguenze dell’eventuale rifiuto del trattamento sanitario e dell'accertamento diagnostico o della rinuncia ai medesimi. Può rifiutare in tutto o in parte di ricevere le informazioni ovvero indicare i familiari o una persona di sua fiducia incaricati di riceverle e di esprimere il consenso in sua vece se il paziente lo vuole. Il rifiuto o la rinuncia alle informazioni e l’eventuale indicazione di un incaricato sono registrati nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico (Articolo 1, comma 3).

E poi può essere il rifiuto del trattamento sanitario, affiancato alla rinuncia, qualora lo si sia precedentemente accettato:

Ogni persona capace di agire ha il diritto di rifiutare, in tutto o in parte, con le stesse forme di cui al comma 4, qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario indicato dal medico per la sua patologia o singoli atti del trattamento stesso. Ha, inoltre, il diritto di revocare in qualsiasi momento, con le stesse forme di cui al comma 4, il consenso prestato anche quando la revoca comporti l’interruzione del trattamento. […]. Qualora il paziente esprima la rinuncia o il rifiuto di trattamenti sanitari necessari alla propria sopravvivenza, il medico prospetta al paziente e, se questi acconsente, ai suoi familiari, le conseguenze di tale decisione e le possibili alternative e promuove ogni azione di sostegno al paziente medesimo, anche avvalendosi dei servizi di assistenza psicologica. Ferma restando la possibilità per il paziente di modificare la propria volontà, l’accettazione, la revoca e il rifiuto sono annotati nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico (Articolo 1, comma 5).

Gli aspetti sin qui sottolineati sono evidenziati anche quando si sottoponga il testo della legge a un’indagine di tipo quantitativo. Per l’occasione l’ho sottoposto a un’indicizzazione che l’ha reso interrogabile con i vari strumenti ormai tradizionali della linguistica computazionale. Così ho potuto ottenere una lista di frequenza decrescente delle parole contenute nella legge, vale a dire il loro elenco ordinato in base al numero di volte in cui compaiono nel testo. È del tutto naturale che tra le parole più usate figurino, come avviene sempre negli indici di frequenza decrescente, le parole grammaticali, come articoli, preposizioni, congiunzioni ecc. (di, 120 occorrenze; e 83; il 70; o 56; del e in 50; ecc.). Le prime due parole “piene” sono paziente (29 occorrenze, a cui se ne aggiunge una del plurale pazienti) e medico (25 occorrenze, a cui se ne aggiungono 2 del plurale medici); e questo certamente non stupisce. Al terzo posto delle parole “piene” abbiamo persona (22 occorrenze) e subito dopo proprio consenso, con 20 occorrenze, a cui si aggiungono 6 occorrenze del verbo consentire. Seguono trattamento (21; 11 al singolare e 10 al plurale, quasi sempre nella polirematica trattamento sanitario, e sanitario è comunque sottinteso negli alti casi) legge (16 occorrenze) cura (13 tra singolare e plurale), fiduciario (colui che fa le veci del paziente e lo «rappresenti nelle relazioni con il medico e con le strutture sanitarie», Articolo 4, comma 1; 12 occorrenze), relazione (10 tra singolare e plurale). Volontà ricorre 9 volte, diritto 6. Rifiutare e rifiuto contano complessivamente 14 occorrenze; rinuncia e rinunciare 6.

Questa è la situazione emergente da un’analisi linguistica, qualitativa e quantitativa: quando si tratta di decidere della propria salute, ed eventualmente della morte propria o di chi siamo dolorosamente chiamati a rappresentare, si tratta di una scelta, che però è fortemente vincolata dalle prescrizioni della legge e dalla figura del medico, che contrappone la sua competenza, la sua autonomia professionale e la sua responsabilità alla sola autonomia decisionale del paziente (o di chi lo rappresenta, il fiduciario). Anche se ho un’opinione su questo, nel mio ruolo di linguista non posso soffermarmi a valutare se sia giusto o meno: ma questa è la condizione attuale; e, secondo me, le parole della legge legate alla scelta lo evidenziano in modo piuttosto chiaro.


Note:

1. Per approfondimenti sulla questione si veda Paolo D’Achille, Non ci sono parole, risposta della Consulenza linguistica dell’Accademia della Crusca, 5 aprile 2016 ().

2. Philippe Ariès, L’Homme devant la mort, Paris, Seuil, 1977 (traduzione italiana: L’uomo e la morte dal Medioevo a oggi, Bari, Laterza, 1980).

3. Ci sono numerose spie, anche linguistiche, che sottolineano la “dipendenza” del testo di legge dal caso di Eluana Englaro: ad esempio al comma 5 dell’articolo 1 si legge "Ai fini della presente legge, sono considerati trattamenti sanitari la nutrizione artificiale e l’idratazione artificiale, in quanto somministrazione, su prescrizione medica, di nutrienti mediante dispositivi medici". La possibilità o meno di interrompere la nutrizione artificiale e l’idratazione artificiale è stato uno dei perni su cui ha ruotato tutta la vicenda politico-giudiziaria legata a Eluana Englaro: la loro inclusione netta e inequivocabile fra i trattamenti sanitari sembra tradire una palese attenzione del legislatore alla specifica vicenda.