DOI 10.35948/2532-9006/2020.3175
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Il verbo morire e il sostantivo morte appartengono alle parole fondamentali della lingua, così De Mauro, nel suo grande vocabolario, marca le circa 2.000 parole ad altissima frequenza di cui tutti abbiamo esperienza. Come noto, morire e morte hanno corrispondenti latini diretti, arrivati in italiano per tradizione popolare. Longeve e imperiture, le due parole trovano documentazione antica in italiano.
Tra i primi testi che riportano queste due forme, si segnala il Cantico delle creature di San Francesco, risalente al 1224, esempio di poesia religiosa in volgare, nel quale si ringrazia Dio per tutto ciò che proviene da lui, dolore e morte compresi. Celebri i versi “Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra morte corporale, / da la quale nullu homo vivente po’ skappare: / guai a cquelli ke morranno ne le peccata mortali”. Un po’ prima, a cavallo tra XII e XIII secolo, la morte compare nei Sermoni subalpini, una raccolta di prediche in volgare piemontese. Ugualmente antiche sono pure le prime attestazioni del verbo morire in documenti di vita cittadina, a cominciare dal 1219 con il Breve di Montieri, statuto del comune toscano di Montieri in provincia di Grosseto. Più noti gli esempi tratti dalla letteratura, con i poeti della scuola siciliana e il Novellino. Non mancano inoltre attestazioni in bestiari medievali.
La mortalità intesa in accezione statistica come rapporto tra il numero dei morti e il numero della popolazione in un determinato periodo di tempo, quindi come tecnicismo scientifico, è uno dei frutti del pensiero illuminista settecentesco. La troviamo nel saggio di Pietro Verri sull’innesto del vaiolo pubblicato nel “Caffè”.
Nel corso dei secoli, le due parole legate al fine ultimo degli umani hanno assunto significati traslati, dando vita a numerose locuzioni con valenza iperbolica. Sono figurate e hanno funzione di superlativo le espressioni brutto come la morte, per il superlativo bruttissimo, stanco morto per il superlativo stanchissimo e morto di paura, per chi è, più che impaurito, terrorizzato. Il silenzio di morte è un silenzio assoluto, minaccioso e mestissimo. Si può poi morire di rabbia e avercela a morte con qualcuno quando si è arrabbiatissimi o si cova rancore. Nei casi citati l’accezione è sempre negativa, ma talvolta, quando si lega al binomio amore-morte, l’iperbole assume valenza positiva. È così nelle espressioni da morire per ‘moltissimo’, ‘in modo esagerato’ (mi piace da morire), morire dalla voglia di per ‘desiderare fortemente qualcosa’, morire dietro a qualcuno per esserne follemente innamorato.
La Morte e il morire sono protagonisti in proverbi e modi di dire arrivati fino ai giorni nostri. Chi non muore si rivede e morto un papa se ne fa un altro si leggono anche in novelle di Giovanni Verga, scrittore noto per la mimesi dell’oralità e del parlato popolare, raggiunti anche attraverso un uso particolare della sintassi. Vita e morte, che viaggiano in coppia in testi filosofici e religiosi, e in trame letterarie, sono accoppiate nel noto aforisma latino mors tua vita mea, e nei modi di dire è questione di vita o di morte, per significare che si tratta di cosa gravissima, oppure raccontare (o voler sapere) vita, morte e miracoli di qualcuno, a significare tutto. L’alfa e l’omega, la prima e l’ultima lettera dell’alfabeto greco, si trovano tradizionalmente su lapidi per segnare la data di nascita e di morte dei defunti. La frase Io sono l’alfa e l’omega pronunciata dal Signore nell’Apocalisse va interpretata nel senso che Dio è eterno, il principio e la fine di ogni cosa.
Tra i proverbi toscani schedati nell’Ottocento dal lessicografo Tommaseo, abbiamo: fino alla morte non si sa la sorte; dopo morte non val medicina; la morte viene quando meno s’aspetta; facendo male sperando bene, il tempo va e la morte viene. Costruiti tutti su cola ritmici. Che la morte porti via sempre i migliori è cosa nota ed è citabile anche con versi petrarcheschi. Variante del detto con i migliori è con i giovani, ma in ogni caso sappiamo che la morte non lascia stare nessuno, nemmeno i forti, e alla fine pareggia tutti. I modi di dire popolari coprono tutta la gamma del possibile, e ogni detto ha il suo contraltare. Si pensi al proverbio riferito alle povere vedove il male non è per chi va, ma per chi resta, che ha il suo contraltare in il male è per chi va, chi campa si rifà.
Oltre ai proverbi, Tommaseo raccolse i sinonimi di morire. Lo fece nel suo fortunato dizionario, adottato a lungo nelle scuole d’Italia ancora durante il Novecento. Partendo da questo dizionario di sinonimi, che per morire dava l’elenco spirare crepare scoppiare dilefiare basire sbasire, Luigi Morandi, insegnante manzoniano, politico e precettore del principe Vittorio Emanuele III, futuro Re d’Italia, propose nel 1883 un esercizio lessicografico nel saggio In quanti modi si possa morire in Italia. Si trattava di una raccolta ragionata di sinonimi del verbo morire, proposta ad uso didattico per imparare sfumature e registri della lingua, distinguendo tra stile nobile, familiare e scherzevole, e tra voci fiorentine vive e voci letterarie, perché non esistono parole ed espressioni perfettamente intercambiabili, ma la scelta è dettata anche dalla situazione comunicativa, come hanno poi formalizzato compiutamente i moderni linguisti.
Con questo saggio, Morandi riportava l’esercizio dei sinonimi, trascurato da Manzoni (per il quale i sinonimi erano solo un inconveniente delle lingue), nell’ortodossia manzoniana. Lo fece classificando le voci, e comunque segnalando e distinguendo sempre l’uso vivo fiorentino, che era considerato l’unico uso legittimo di lingua, proprio come insegnato da Manzoni. Si badi che, nella riflessione linguistica ottocentesca, i sinonimi sono da intendersi come parole e locuzioni che abbiano in comune l’idea principale e differiscano per qualche idea secondaria, dando alla lingua ricchezza di sfumature e varietà di registri.
Il saggio di Morandi si apriva con la forma neutra Morire, classificata come voce fiorentina che indica l’uscir di vita e che è propria sia dello stile familiare sia dello stile nobile. Da qui altri cento e più sinonimi, elencati e discussi dall’autore. Menziono, tra i sinonimi di morire raccolti nel capitolo sullo stile familiare del fiorentino vivo, andarsene, andar nel numero dei più, abbandonare il mondo, spirare, finir di tribolare, detto di chi per malattia ha penato molto, cessar di vivere, mandare l’ultimo respiro, andare al camposanto. Tra i sinonimi “scherzevoli”, così li chiamava Morandi, appartenenti al fiorentino dell’uso e coniati sull’esempio latino di ire ad patres, abbiamo andare a rivedere il nonno o andare a Patrasso, dove Patrasso è toponimo scelto per lo storpiamento burlesco di patres. Sul modello di quest’ultimo esempio vengono bizzarre creazioni popolari toscane quali andare a Volterra o a Terracina, fondate su somiglianza del toponimo con la parola terra, evidentemente quella della sepoltura. Crepare scoppiare schiattare erano elencati dal maestro per significare in modo basso e triviale la morte come stroncamento; per la morte improvvisa anche restare stecchito, cader stecchito.
Riportando la presunta invettiva lanciata dal classicista Monti contro Francesco I d’Austria: “Prima di chiuder gli occhi, vorrei la consolazione di vederlo crepare”, Manzoni osservava che, in questa frase, Monti usava chiuder gli occhi in riferimento alla propria morte, mentre la morte augurata al nemico era crepare. Nei Promessi sposi Manzoni usò per morire anche la perifrasi finire di mangiare il pane, forma che Rigutini e altri colleghi fiorentini dissero tuttavia di non considerare dell’uso di Firenze, ma come tale Morandi la registrò nel suo saggio, ritenendola inoltre comune in Lombardia e Umbria.
Allo stile nobile appartengono andare in cielo e passare a miglior vita, locuzione nella quale c’è l’idea che il morto sia andato in luogo di beatitudine (si usa ovviamente parlando di persona dabbene); sono solo letterari, e non dell’uso, addormentarsi nel Signore e chiuder gli occhi alla luce; sono invece poetici andare in pace e cadere esangue. Andare agli eterni riposi può appartenere sia al fiorentino di registro elevato, sia all’uso scherzoso: Morandi annotava l’esempio spiritoso da commedia quella bestia di medico gli fece quattro salassi, e così il pover’omo se n’andò agli eterni riposi.
Oltre a sviluppare la logica e la proprietà linguistica, il saggio di Morandi insegnava ad aggirare il tabù linguistico della morte, attuando strategie ancora oggi valide. Come sappiamo, infatti, per superare l’interdizione linguistica, si può tacere il nome dell’oggetto interdetto, alludendovi magari con una pausa o un gesto, oppure si può sostituire il termine ostracizzato morte con perifrasi che si riferiscano al tabù in maniera indiretta, spesso tramite metafore. In riferimento alla morte, le immagini più note e fortunate sono quelle del viaggio, del traghettamento, della luce e delle tenebre, del regno dei cieli. Tra le perifrasi precedentemente citate, si riosservino andare in cielo, finir di tribolare, addormentarsi nel Signore, tutte con connotazione positiva (ma la connotazione può anche essere negativa: andare all’inferno).
Formule di questo tipo, mi riferisco in particolare ad andare in cielo, spegnersi, addormentarsi nel Signore, sono comuni ancora oggi nei manifesti mortuari e nei necrologi. Le imprese di pompe funebri hanno persino siti Internet in cui è raccolto il formulario da cui i parenti del defunto possono attingere: il Signore ha chiamato a sé, è mancato all’affetto dei suoi cari, si è spento serenamente, è tornato alla Casa del Padre, si è addormentato nell’abbraccio del Signore (tutti in manifesti pubblicati tra il 2014 e il 2018, recuperabili in Google). Ovviamente la scelta sarà dettata dal tipo di morte e dalla religiosità della famiglia del defunto.
Altra via per superare l’interdizione, non registrata dal Morandi, è il ricorso allo stile neutro e tecnico. Mancano nella raccoltina citata tutti i tecnicismi che oggi incontriamo nel linguaggio medico, dal decesso ai vari tipi di morte (bianca, cerebrale, artificiale, cardiaca, dolce, ovvero l’eutanasia, ecc.), estranei all’orizzonte culturale dello studioso di lettere e al saggista dell’Ottocento.
La morte è tema conduttore di molta saggistica filosofica, sociologica e medica. Per quanto riguarda lo stile di questa prosa saggistica, ricordo che ancora all’inizio del secolo scorso, la prosa scientifica adottava un italiano vivo e talvolta persino colorito, che non disdegnava l’uso di similitudini, una prosa lontana dallo stile piano e asettico che si richiede oggi al linguaggio scientifico. Ricordo inoltre che in italiano presentavano i risultati delle loro ricerche scienziati di fama internazionale (penso a Guglielmo Marconi, Enrico Fermi e Giuseppe Brotzu, scopritore delle cefalosporine utilizzate come antibiotico), mentre a partire dalla seconda metà del Novecento assistiamo alla progressiva e inesorabile morte della lingua italiana nella prosa scientifica: le pubblicazioni sono ormai in inglese e proliferano corsi di laurea in medicina, e dottorati, in cui si parla e si insegna solo in inglese, dimenticando forse che quando il medico dovrà relazionarsi col paziente, facendo l’anamnesi, comunicandogli la diagnosi e seguendolo nel percorso di guarigione, dovrà farlo in modo appropriato in lingua italiana, attuando nei casi necessari strategie comunicative (e talora anche retoriche) frutto della pratica all’ascolto e dell’esercizio alla narrazione. Tenendo conto di queste considerazioni, si aprono oggi nuove prospettive introdotte dalla cosiddetta medicina narrativa, punto di incontro tra linguisti, medici e psicologi.
Nota bibliografica: